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Tempo di lettura 2 minutiLa cultura

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di M.C.

Roma – «Sappiamo bene che in Italia una coppia su 5 è infertile. Si tratta di sofferenze che toccano in profondità ogni uomo e ogni donna, ogni coppia. Ma non possiamo dimenticare il bene primario del soggetto più debole, il nascituro». È quanto dichiara Angelo Zema, direttore responsabile di Romasette.it, nell’editoriale pubblicato oggi sul sito d’informazione della diocesi di Roma. Di seguito il testo integrale

La sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittimo il divieto di fecondazione eterologa sancisce una svolta non solo nell’ordinamento giuridico ma anche nella società italiana. Non solo per l’abolizione del divieto del ricorso a un donatore esterno di ovuli o spermatozoi nei casi di infertilità assoluta, ma soprattutto per ciò che scaturisce da questa decisione. L’elevazione al rango di norma della cultura del desiderio, sempre più diffusa a causa dell’individualismo che pervade la società. Un desiderio che adesso è accolto nelle braccia del Diritto, con la soddisfazione dei fautori della libertà ad ogni costo.

Constatazione che facciamo con il massimo rispetto dovuto alle sofferenze di tante coppie per la mancanza di un figlio o per le loro fatiche nel tentativo di averlo: sappiamo bene che in Italia una coppia su 5 è infertile e anche che molto di più si dovrebbe fare sul fronte della prevenzione della sterilità. Si tratta di sofferenze che toccano in profondità ogni uomo e ogni donna, ogni coppia. Ma non possiamo dimenticare il bene primario del soggetto più debole, il nascituro. Alla sua tutela puntava infatti il travolgente astensionismo che nove anni fa ai referendum aveva consentito di salvaguardare alcuni “paletti” che avevano come preoccupazione la dignità dell’uomo, appunto del più debole. Poi sono iniziate le sentenze della Consulta, con l’abolizione di alcuni dei divieti sanciti dalla legge 40. Picconate giudiziarie, fino a quella di ieri, di cui sarà interessante leggere le motivazioni.

Tuttavia non può bastare una sentenza per ridisegnare la normativa sulla procreazione assistita: non poche questioni restano aperte. Come si potrà arginare il rischio di commercio dei gameti maschili e femminili e dell’utero delle gestanti? Il bambino potrà conoscere i propri genitori naturali? Sarà possibile perfino scegliere ovociti e spermatozoi tenendo presente i caratteri fisici o la provenienza o il grado di istruzione del donatore dei figli? Solo alcune domande, che però disegnano un orizzonte inquietante sul futuro che ci aspetta. E ancora, ci si potrebbe chiedere se la politica, questa politica, a volte rissosa e poco attenta al bene comune, sia in grado di prendere responsabilmente decisioni così importanti per il futuro dell’uomo. «La prima sfida – disse il futuro santo Giovanni Paolo II – è la sfida della vita».

Potremmo interrogarci però, soprattutto, sulla direzione verso cui possa portare la spinta di quella cultura del desiderio che sfocia anche in manifestazioni lesive della vita umana o negatrici della famiglia fondata sul matrimonio o della differenza maschile-femminile e che chiede di deviare la scienza dal fine autentico di servizio all’uomo. “L’uomo è ciò che desidera” potrebbe essere il motto della nuova società. Guardando alla sentenza di ieri, è come se la Consulta avesse spalancato una porta verso un futuro denso di incognite in cui la cultura del desiderio, invocata come diritto e accolta dal Diritto con la D maiuscola, incontra spesso un mercato avido che specula, e sempre di più, sulla vita dell’uomo. Chi esulta per la sentenza farebbe bene a non negarne l’evidenza. E quell’abbraccio può mettere in pericolo i fondamenti umani e morali su cui è costruita la nostra civiltà.

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