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UNO BIANCA: L'INTERVISTA ESCLUSIVA A "BOLOGNA VIOLENTA"
Tempo di lettura 6 minutiIl disco vuole essere un omaggio a chi è morto per niente durante sette lunghi anni di terrore
Published
10 anni faon
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di Angelo Barraco
L’Osservatore D’Italia ha intervistato in esclusiva Nicola Manzan, in arte Bologna Violenta, in merito al suo album che si chiama Uno Bianca. Nicola Manzan ci spiega in questa intervista il punto di vista di un musicista che ha raccontato in musica una terribile pagina della storia d’Italia che è avvenuto a cavallo tra la fine degli anni 80 e gli anni 90. Bologna Violenta è il nome del progetto one man band di Nicola Manzan, il progetto è nato nel 2005 ed è costituito principalmente da lui che, polistrumentista e diplomato al conservatorio in violino, suona la chitarra mischiando sinfonia e rock estremo. Nicola Manzan è un musicista molto versatile che vanta un’attività di produttore discografico ma anche un’attività di condivisione del palco con gruppi di prestigio nel panorama Rock italiano come; Teatro degli Orrori, Baustelle, Ligabue, Zen Circus, Paolo Benvegnù e molti altri.
Uno Bianca; un capitolo della storia italiana che ha scosso gli animi di un paese. Da dove e come nasce in te l’idea di realizzare un disco che parla di quei fatti?
– L’idea mi è venuta quando mi sono trasferito a Bologna nel 2003. Ero lì da pochi giorni e una sera sono casualmente andato al quartiere Pilastro. Subito mi sono venute in mente le scene dell’eccidio dei tre Carabinieri che avevo visto nei telegiornali all’epoca dei fatti. Quando sono rincasato, su Rai 3 stavano dando la trasmissione Storie Maledette in cui Franca Leosini intervista Fabio Savi, uno della banda. Ho pensato che una storia del genere sarebbe stata un ottimo spunto per un disco di musica estrema, un po’ sulla scia della musica descrittiva di fine Ottocento.
Che sensazioni prova un musicista nel raccontare fatti di cronaca nera così efferati?
– Credo che sia stato il disco per me più difficile da fare, da un punto di vista emotivo. Non sono un amante dei fatti di cronaca nera che, in genere, più che interessarmi, mi spaventano. Nel corso dei mesi, studiando i vari crimini e cercando di riportarli in musica, mi sono reso conto che questa brutta vicenda mi stava coinvolgendo (in senso negativo) più di quanto avessi immaginato. La registrazione del disco si è trasformata in una specie di incubo durato alcuni mesi.
E’ stato difficile per te rapportarli in musica?
– Quello che ho cercato di fare è una sorta di colonna sonora immaginaria che raccontasse i fatti senza l’uso delle parole. Sono partito dal racconto dei singoli crimini e da quelli ho fatto le strutture dei pezzi in modo che ripercorressero a grandi linee quello che era successo. Ho cercato di creare atmosfere che potessero far capire all’ascoltatore gli stati d’animo dei presenti o delle vittime, ho sottolineato gli spari, le raffiche di mitra, le fughe in auto, il terrore e la distruzione che portava la banda quasi ad ogni colpo. Non è stato molto difficile da un punto di vista puramente tecnico, ma è stato impegnativo cercare di rimanere “distaccato” emotivamente da quello che stavo raccontando.
Il mio intento era quello di raccontare una storia senza dare giudizi, senza coinvolgimenti personali e con uno sguardo da cronista, per così dire, e forse questa è stata la parte più difficile.
Quali sono state le tue fonti e lo studio da te fatto sul caso?
– Ho alcuni libri che parlano della banda e dei suoi crimini. Ci sono molti tabella dell’epoca che sono stati digitalizzati, quindi si trovano facilmente in rete. Ho trovato anche molti servizi speciali, telegiornali e trasmissioni televisive che hanno parlato di questa storia, anche se devo dire che alcune sono davvero fatte male, tanto da far passare i criminali sotto una luce quasi da “eroi”, cosa secondo me molto fastidiosa.
Hai avuto modo di rapportarti e conoscere i parenti delle vittime?
– Ho parlato al telefono e via email con la Presidentessa dell’Associazione delle Vittime della banda della Uno Bianca, perché Il resto del Carlino, il giornale di Bologna, ha fatto uscire alcuni tabella in cui mi si dipingeva come una specie di mostro che voleva fare i soldi ed avere successo parlando di una storia di cui non potevo sapere nulla (almeno secondo loro). “Non si può fare rock su tutto”, hanno scritto. Evidentemente non hanno mai ascoltato il disco, anche se mi sono premurato di farlo avere al direttore e ai vari redattori del giornale quando sono stato contattato un mese prima dell’uscita dell’album. A quel punto, dopo due tabella che non posso che definire “diffamatori” nei miei confronti, sono stato contattato da altri parenti di alcune vittime, ai quali ho raccontato i miei intenti e ai quali ho fatto avere il disco, la copertina e tutto quello che li poteva interessare.
Se si, come hanno reagito alla tua iniziativa di voler realizzare un album che parlasse di quella storia? Che è anche la loro storia…
– La signora Rosanna Zecchi (la presidentessa dell’associazione delle vittime) ha capito che quanto stavo per pubblicare non era un omaggio alla banda e che il mio intento era quello di ricordare le vittime raccontando una storia di umana follia. Quello che mi ha detto è stato: “Lei faccia quello che vuole. L’unica cosa che mi auguro è che le nostre vittime siano onorate e non schernite dal suo disco”. Altri parenti delle vittime si sono fatti vivi, chiedendomi delucidazioni, e dopo aver sentito il disco mi hanno perfino detto che secondo loro ero riuscito a cogliere in pieno il dramma, il dolore ed il terrore che avevano vissuto le vittime durante i crimini. Sono rimasto molto colpito da questo, soprattutto perché tali persone mi hanno anche detto di lasciar perdere tutte le stupide questioni sollevate dal quotidiano bolognese, che stava probabilmente cercando solo uno scoop per vendere qualche copia in più.
Il tuo album segue un percorso cronologico degli avvenimenti, i brani hanno come titolo la data e il luogo in cui si è verificato un determinato omicidio, sparatoria ecc…Da ciò si evince uno studio certosino nel voler spiegare all’ascoltatore questa storia; come hai affrontato tutto ciò da un punto di vista emotivo?
– Come dicevo in precedenza, ho cercato di rimanere il più possibile distaccato a livello emotivo da quello che stavo raccontando. La particolarità del disco, secondo me, è che la musica, in maniera naturale, sembra mutare nel corso dei brani, un po’ come è cambiata la storia della banda. Devo anche sottolineare il fatto che i pezzi sono stati composti e registrati in ordine cronologico e la cosa importante che ne è uscita è proprio questa lenta ma inesorabile trasformazione dello stile che man mano diventa sempre più violento e spietato.
Oltre alla ricerca degli avvenimenti, da parte tua c’è una ricerca sonora che tende a marcare e ad evidenziare determinati eventi come per esempio la morte che viene contraddistinta dal suono di una campana, ci spieghi meglio questa scelta?
– Il disco, come dicevo, è una sorta di colonna sonora immaginaria degli eventi. All’interno dell’album c’è una guida all’ascolto in cui vengono riportati i crimini in questione. Se la si legge mentre si ascolta il disco si può comprendere la struttura dei pezzi e si può “entrare” nella storia in maniera più completa. Durante i vari brani (e quindi i racconti) ogni volta che qualcuno viene ucciso risuona una campana. Volevo che il disco risultasse sconvolgente almeno quanto lo è la storia in sè e il suono di una campana rimanda automaticamente ad un lutto. Credo che la successione dei rintocchi, all’interno di certi pezzi, dimostri quanto brutale è stata la banda nel suo agire.
Un giornalista, quando parla di cronaca nera e di determinati avvenimenti può incontrare, nel suo percorso, qualche difficoltà per via dei temi che affronta. Per te è stato semplice pubblicare questo disco, rapportarti con i fans e far capire il tuo messaggio?
– Con i fans non ci sono stati problemi e devo dire che il mio intento è stato compreso in pieno. Anzi, sembrava quasi che si aspettassero un disco “serio”, dopo tre album in cui c’era molto sarcasmo. Non è stato facile farlo capire a chi vuole fare dei titoli altisonanti sui quotidiani, ma alla fine un po’ me l’aspettavo (non a caso eravamo stati molto attenti ad evitare che la notizia arrivasse a certi giornalisti, ma evidentemente il disco ha avuto una risonanza più grande di quello che ci si aspettava).
Nella copia fisica del tuo disco vi sono riportati i nomi di tutte le vittime della Uno Bianca, immedesimarsi in questa storia, immedesimarsi in quegli anni e in quelle vite com’è stato per te?
– Il disco vuole essere un omaggio a chi è morto per niente durante sette lunghi anni di terrore. E’ terribile pensare che molte persone hanno perso la vita solo perché si trovavano nel posto sbagliato al momento sbagliato. Del resto i componenti della banda uccidevano chiunque si frapponesse tra loro e il loro scopo finale, anche inconsapevolmente. Non c’era via di scampo per chi si trovava lì, a meno che non si inceppasse un’arma, che non facesse finta di essere stato colpito da un proiettile o altre situazioni al limite dell’incredibile. Troppe persone sono morte solo perché qualcuno voleva fare dei soldi facili.
Concludendo, che messaggio vuoi lanciare a coloro che hanno interpretato male ciò che volevi realmente comunicare con il tuo album?
– Vorrei dire una semplice cosa: che la smettessero di trovare dei capri espiatori, di criminalizzare persone che a volte non c’entrano niente, solo per fare degli tabella in cui si parla di “mostri” o presunti tali, passando così per i “buoni” della situazione. Anche in questo modo si rovinano molte vite. La diffamazione e la ricerca dello scoop ad ogni costo non porta a niente.
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