Bologna, banda della Uno Bianca. 4 gennaio 1991 – 4 gennaio 2020: 29 anni dalla strage del Pilastro

BOLOGNA – Bologna commemora il 29imo anniversario dell’eccidio del Pilastro, dove morirono i carabinieri Mauro Mitilini, Andrea Moneta e Otello Stefanini.

Uno degli episodi più cruenti della storia criminale d’Italia dove i componenti della famigerata banda della Uno Bianca il 4 gennaio del 1991 intorno alle 22, nel quartiere Pilastro di Bologna, trucidarono i tre militari a colpi d’arma da fuoco.

La banda si trovava in quel luogo per caso, essendo diretta a San Lazzaro di Savena, in cerca di un’auto da rubare. All’altezza delle Torri, in via Casini, l’auto della banda fu sorpassata dalla pattuglia dall’Arma. La manovra fu interpretata dai criminali come un tentativo di registrare i numeri di targa e pertanto decisero di liquidare i carabinieri. Dopo averli affiancati, Roberto Savi esplose alcuni proiettili verso i militari, sul lato del conducente Otello Stefanini.

Nonostante le ferite gravi subite, il militare cercò di fuggire, ma andò a sbattere contro dei cassonetti della spazzatura. In breve tempo l’auto dei Carabinieri fu investita da una pioggia di proiettili. Gli altri due militari, Andrea Moneta e Mauro Mitilini, riuscirono a uscire dall’abitacolo e a rispondere al fuoco, ferendo tra l’altro Roberto Savi. La potenza delle armi utilizzate dalla banda però non lasciava speranze ed entrambi i carabinieri rimasero sull’asfalto.

I tre furono finiti con un colpo alla nuca

Il gruppo criminale si impossessò anche del foglio di servizio della pattuglia e si allontanò dal luogo del conflitto a fuoco. La Uno bianca coinvolta nel massacro fu abbandonata a San Lazzaro di Savena nel parcheggio di via Gramsci ed incendiata; uno dei sedili era sporco del sangue di Roberto Savi, rimasto lievemente ferito all’addome durante il conflitto a fuoco.

Il fatto di sangue fu subito rivendicato dal gruppo terroristico “Falange Armata”

Tale rivendicazione fu però ritenuta inattendibile, in quanto giunta dopo il comunicato dei mass media. La strage rimase impunita per circa quattro anni. Gli inquirenti seguirono delle piste sbagliate, che li portarono ad incriminare soggetti estranei alla vicenda. Il 20 giugno 1992, sulla base di false testimonianze, furono arrestati i due fratelli Santagata e Marco Medda, tutti pregiudicati e residenti nel quartiere del Pilastro.
Il 24 gennaio 1995 furono dichiarati estranei ai fatti dalla corte di Assise di Bologna.

In seguito, saranno gli stessi assassini a confessare il delitto durante il processo

Sabato 4 gennaio, il Sindaco di Bologna, Virginio Merola parteciperà alla commemorazione. Alle 11, nella chiesa di Santa Caterina da Bologna in via Campana 2, si svolgerà la Messa in suffragio delle vittime. Alle 12, in via Casini, si terrà la cerimonia di deposizione delle corone al monumento in memoria delle vittime. Sarà presente il Civico Gonfalone.




Banda Uno bianca: dopo 23 anni Fabio e Roberto Savi di nuovo insieme

Fabio e Roberto Savi di nuovo insieme nello stesso carcere dopo 23 anni dal loro arresto. I due leader della famigerata banda della Uno bianca che tra il 1987 e il 1994 uccise 24 persone e ne ferì oltre cento, da qualche mese sono entrambi nell’istituto penitenziario di Bollate, a Milano. Fabio Savi, detto il “lungo”, ha chiesto e ottenuto il trasferimento dal carcere di Uta (Cagliari) e ora si trova anche lui nella casa circondariale milanese dove il fratello Roberto era già detenuto.

La notizia, alla vigilia della commemorazione della strage del Pilastro, uno degli episodi criminali più cruenti della storia della Uno Bianca ha suscitato la disapprovazione dei familiari delle vittime, ma ha anche spinto il ministro della giustizia Andrea Orlando a chiedere al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria una relazione per avere informazioni e chiarimenti sulla questione.

Da tempo Fabio Savi, 57 anni, chiedeva di poter scontare la sua pena in una struttura penitenziaria che permettesse di poter svolgere attività lavorative e per questo motivo ha inoltrato personalmente la richiesta di trasferimento dopo il parere favorevole degli assistenti sociali. Unico tra i killer della banda della Uno bianca a non aver indossato la divisa da poliziotto, Fabio Savi sarebbe arrivato nel carcere di Bollate poco prima della scorsa estate.

La notizia del trasferimento è stata confermata dai legali dei due fratelli Savi, Fortunata Copelli che assiste Fabio e Donatella De Girolamo per Roberto. “Da quello che mi risulta non sono nella stessa sezione – dice l’avvocato Copelli -, quindi non credo che si siano incontrati. Nel caso uno dei due avanzasse una richiesta di colloquio dovrà essere valutata dal direttore del carcere che poi nel suo ambito deciderà”. Questa possibilità getta nello sconforto Rosanna Zecchi, presidente dell’associazione dei parenti delle vittime della banda. “Fino ad ora i fratelli Savi non erano mai stati nello stesso carcere e devo dire che questa cosa non mi piace affatto, anzi mi preoccupa. Per noi parenti delle vittime è l’ennesima ‘botta’, che arriva dopo i permessi premio concessi all’altro
fratello, Alberto, e a Marino Occhipinti”. “Sono perplessa, non me lo aspettavo, ma se la giustizia lo permette dobbiamo prenderne atto – conclude Zecchi -. Certo è un dolore continuo, che si rinnova, sapere che queste persone colpevoli di terribili omicidi possano avere addirittura la possibilità di incontrarsi”.




Uno Bianca: polemiche tra l'Arcivescono di Bologna e l'Associazione delle vittime

di Angelo Barraco
 
Bologna – Si torna a parlare della Banda della Uno Bianca, a seguito delle dichiarazione dell’Arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi nel corso di un’intervista al “Festival Francescano”, in ha dichiarato “Ho un rapporto epistolare con uno della banda della Uno Bianca. Ho capito che il perdono è un itinerario faticoso ma che bisogna cercare di coltivare: è l'unica via umana che ci è concessa perché il male non distrugga noi” ha aggiunto “quando è difficile, doloroso, privo di senso” sottolineando che “il perdono non vuol dire cancellare la giustizia. Il perdono vuole la giustizia e libera dall'odio e dalla vendetta e per questo è ancora più forte. Il perdono libera”. Parole che sono state pronunciate in Piazza Maggiore e che hanno falciato l’animo di chi ancora ricorda quegli anni in cui il terrorismo e la criminalità si muovevano ad unisono, le strade diventavano quasi costantemente cimiteri a cielo aperto e le famiglie erano pronte a piangere il prossimo figlio o padre che non sarebbe tornato più a casa. Dichiarazioni che sono arrivate all’associazione delle vittime della Uno Bianca che ha replicato “L'Arcivescovo Matteo Zuppi mi disse già a giugno, a margine della Festa della Repubblica, che Alberto Savi, il 'fratello buono' della Banda della Uno bianca, gli aveva scritto per chiedere perdono. Io risposi: ma quale fratello buono, era come Fabio e Roberto. Era tra i killer che uccisero i carabinieri al Pilastro il 4 gennaio '91. Ho letto che Zuppi gli ha risposto mesi dopo che il perdono se lo devono meritare”. Rosanna Zecchi, presidente dell’associazione familiari vittime della Uno Bianca e vedova di Primo Zecchi e ha aggiunto “La mamma di Umberto Erriu uno dei due carabinieri uccisi a Castel Maggiore il 20 aprile 1988, mi disse che il perdono se vuole lo decide Dio, le colpe terrene si devono pagare. Fra l'altro non stanno facendo nemmeno il carcere duro. Come associazione siamo tutti d'accordo. Paghino per quello che hanno fatto, nessun perdono. Sono dei delinquenti crudeli”. Una vicenda che ha riaperto una ferita non ancora cicatrizzata e che brucia ancora quando vi si poggia il fastidioso alcol che dovrebbe lentamente attutire il dolore ma che in realtà risulta lesivo per i familiari delle vittime che all’improvviso dall’oggi al domani hanno perso una persona cara, abbandonata per terra dalla polvere issata su da una macchina tanto comune quanto inquietante. 
 
La Banda della Uno Bianca ha insanguinato l’Emilia Romagna tra la fine degli anni 80 e la prima metà degli anni 90. Una lunga scia di sangue che per un lungo lasso di tempo è rimasta avvolta dal mistero, nascondendosi dietro ad un’incognita quale l’autovettura più comune dell’epoca, che impregnava l’asfalto di gomma, polvere e sangue, diventando allo stesso tempo il fattore scatenante di morte e dolore. Un gruppo criminale che si è sempre mosso nell’ombra, guidato dalla prontezza nell’agire determinata da una sicurezza dovuta alle professioni che svolgevano la maggior parte dei membri che ne facevano parte. Roberto Savi, classe 1954, è stato un appartenente della Polizia di Stato presso la Questura di Bologna, rivestendo il ruolo di assistente Capo; il fratello Fabio Savi, classe 1960, fece domanda per entrare in Polizia ma un problema alla vista comprometterà quelli che saranno i suoi obiettivi, inducendolo a svolgere lavori saltuari; Alberto Savi, classe 1965, è il fratello minore dei due fratelli appena citati, è un poliziotto e quando viene arrestato svolge il suo servizio d’ordine servizio presso il Commissariato di Rimini; un altro soggetto che viene coinvolto nella vicenda nella Uno Bianca è Pietro Gugliotta, classe 1969, un poliziotto che svolge servizio di operatore radio alla questura di Bologna. Non partecipa alle azione del gruppo ma viene condannato a 18 anni di reclusione; Marino Occhipinti, classe 1965, prende parte ad un’azione criminale che cagiona la morte di una guardia giurata e viene condannato all’ergastolo. Anch’esso è un poliziotto a Bologna e al momento dell’arresto la sua carica era di vice sovrintendente alla sezione narcotici; Luca Vallicelli, anch’esso poliziotto, ha partecipato alle prime rapine della banda ma senza cagionare la morte di nessun innocente. E’ attualmente libero a seguito di un patteggiamento di tre anni e otto mesi. I fratelli Savi sono stati condannati a tre ergastoli ciascuno, un ergastolo per Occhipinti, 28 anni per Gugliotta che si sono ridotti a 18 anni. Quest’ultimo, nel 2008, dopo 14 anni di reclusione ha ottenuto la libertà grazie all’indulto. Mario Occhipinti aveva chiesto lo sconto di pena un anno fa, ma la Procura ha deciso il no. L’ex poliziotto che prese parte ad un’operazione della Banda della Uno Bianca assaltando un furgone della Coop di Castel Maggiore, il 19 febbraio del 1988 dove fu uccisa la Guardia Giurata Carlo Beccari.  L’arresto di Occhipinti avvenne il 29 novembre del 1994, quando era vice-sovrintendente della sezione narcotici della Squadra Mobile. L’uomo si trova in regime di semilibertà dal 2012 e aveva chiesto il rito abbreviato, il Pm ha respinto l’accoglimento dell’istanza, il Gip invece si è riservato. 
 
La semilibertà. Dopo diciassette anni, due mesi e due giorni di carcere, Marino Occhipinti ottiene il 3 gennaio del 2012 la semilibertà che gli consente di lasciare l’istituto penitenziario per lavorare presso una cooperativa sociale. Prima della semilibertà però aveva potuto usufruire di alcuni permessi come quello avuto nel 2010 per andare ad una via crucis e il 31 maggio del 2010 era uscito per una malattia del padre. Aveva anche scritto una lettera di ringraziamento al Sindaco di Santa Sofia, paese in provincia di Forlì: “Dopo tutto quello che è successo, mi riferisco alla mia vicenda giudiziaria ero assolutamente sicuro che non sarei mai più tornato. Le parole di ringraziamento per come il paese di Santa Sofia ha saputo riaccogliermi che ho espresso in occasione delle esequie del mio babbo sono davvero sentite. Sono rimasto colpito quanto lei è venuto a porgere le condoglianze a me e a mia mamma”. Il Sindaco aveva risposto con una lettera pubblica: “Crediamo nella redenzione degli uomini e Marino ha iniziato il percorso di riacquisizione della sua dignità e per questo merita il nostro plauso. Molti santasofiesi, amici e conoscenti, lo hanno già accolto con affetto. Auspichiamo un suo completo e totale rientro nella nostra comunità”, ma tale scambio di lettere ha suscitato parecchie polemiche soprattutto da parte del circolo Sel locale che disse: “La redenzione di un colpevole è un fatto privato e come tale dovrebbe essere trattato. Enorme e incancellabile è invece la tragedia pubblica della Uno bianca che purtroppo è anche una tragedia privata e indimenticabile per le famiglie che subirono quei tragici eventi”.
 
Un anno fa è stato compiuto uno sfregio a Piazza Lipparini, nei confronti di un monumento in memoria dei tre carabinieri uccisi al Pilastro dalla Banda della Uno Bianca il 4 gennaio 1991 è stato imbrattato con una scritta “O noi o loro, Uno Bianca”. In merito a quanto accaduto è stato interpellato il magistrato che condusse le indagini all’epoca dei fatti, il procuratore aggiunto Valter Giovannini,  ha riferito che “si farà di tutto per individuare gli autori dell'odioso oltraggio”.  Il 4 gennaio 1991 furono uccisi dalla Banda della Uno Bianca: Mauro Mitilini, Andrea Moneta e Otello Stefanini. 
 
La Strage del Pilastro. Il 4 gennaio del 1991 alle ore 22, la Banda della Uno Bianca si trovava casualmente presso il quartiere Pilastro di Bologna per puro caso poiché era diretta a San Lazzaro di Savena per rubare auto. Ad un certo punto in Via Casini, all’altezza delle Torri, l’auto dei carabinieri sorpassa l’auto della Banda ma la banda non gradì il gesto poiché penso che tale manovra di sorpasso servisse per impossessarsi dei numeri di targa e decise di eliminare i carabinieri. Li hanno affiancati e ad un certo punto Roberto Savi inizia a sparare sul lato del conducente ad Otello Stefanini, malgrado le ferite però il carabiniere tenta la fuga ma sbatte accidentalmente contro dei cassonetti della spazzatura, l’auto viene immediatamente raggiunta dalla Banda e crivellata di proiettili. Andrea Moneta e Mauro Mitilini (gli altri carabinieri), rispondono al fuoco e feriscono Roberto Savi ma la banda ha il sopravvento poiché è in possesso di armi più forti e li uccide. La Banda si impossessa dell’ordine di servizio dei carabinieri.



UNO BIANCA: DETURPATO MONUMENTO IN MEMORIA DELLA STRAGE DEL PILASTRO

di Angelo Barraco
 
Bologna – Il monumento collocato in piazza Lipparini, in memoria dei tre carabinieri uccisi al Pilastro dalla Banda della Uno Bianca il 4 gennaio 1991 è stato imbrattato con una scritta “O noi o loro, Uno Bianca”. In merito a quanto accaduto è stato interpellato il magistrato che condusse le indagini all’epoca dei fatti, il procuratore aggiunto Valter Giovannini,  ha riferito che “si farà di tutto per individuare gli autori dell'odioso oltraggio”.  Il 4 gennaio 1991 furono uccisi dalla Banda della Uno Bianca: Mauro Mitilini, Andrea Moneta e Otello Stefanini. 
 
La Strage del Pilastro. Il 4 gennaio del 1991 alle ore 22, la Banda della Uno Bianca si trovava casualmente presso il quartiere Pilastro di Bologna per puro caso poiché era diretta a San Lazzaro di Savena per rubare auto. Ad un certo punto in Via Casini, all’altezza delle Torri, l’auto dei carabinieri sorpassa l’auto della Banda ma la banda non gradì il gesto poiché penso che tale manovra di sorpasso servisse per impossessarsi dei numeri di targa e decise di eliminare i carabinieri. Li hanno affiancati e ad un certo punto Roberto Savi inizia a sparare sul lato del conducente ad Otello Stefanini, malgrado le ferite però il carabiniere tenta la fuga ma sbatte accidentalmente contro dei cassonetti della spazzatura, l’auto viene immediatamente raggiunta dalla Banda e crivellata di proiettili. Andrea Moneta e Mauro Mitilini (gli altri carabinieri), rispondono al fuoco e feriscono Roberto Savi ma la banda ha il sopravvento poiché è in possesso di armi più forti e li uccide. La Banda si impossessa dell’ordine di servizio dei carabinieri. 



UNO BIANCA: L'INTERVISTA ESCLUSIVA A "BOLOGNA VIOLENTA"

di Angelo Barraco
 
L’Osservatore D’Italia ha intervistato in esclusiva Nicola Manzan, in arte Bologna Violenta, in merito al suo album che si chiama Uno Bianca. Nicola Manzan ci spiega in questa intervista il punto di vista di un musicista che ha raccontato in musica una terribile pagina della storia d’Italia che è avvenuto a cavallo tra la fine degli anni 80 e gli anni 90. Bologna Violenta è il nome del progetto one man band di Nicola Manzan, il progetto è nato nel 2005 ed è costituito principalmente da lui che, polistrumentista e diplomato al conservatorio in violino, suona la chitarra mischiando sinfonia e rock estremo. Nicola Manzan è un musicista molto versatile che vanta un’attività di produttore discografico ma anche un’attività di condivisione del palco con  gruppi di prestigio nel panorama Rock italiano come; Teatro degli Orrori, Baustelle, Ligabue, Zen Circus, Paolo Benvegnù e molti altri. 
 
 
Uno Bianca; un capitolo della storia italiana che ha scosso gli animi di un paese. Da dove e come  nasce in te l’idea di realizzare un disco che parla di quei fatti?

– L’idea mi è venuta quando mi sono trasferito a Bologna nel 2003. Ero lì da pochi giorni e una sera sono casualmente andato al quartiere Pilastro. Subito mi sono venute in mente le scene dell’eccidio dei tre Carabinieri che avevo visto nei telegiornali all’epoca dei fatti. Quando sono rincasato, su Rai 3 stavano dando la trasmissione Storie Maledette in cui Franca Leosini intervista Fabio Savi, uno della banda. Ho pensato che una storia del genere sarebbe stata un ottimo spunto per un disco di musica estrema, un po’ sulla scia della musica descrittiva di fine Ottocento.
 
Che sensazioni prova un musicista nel raccontare fatti di cronaca nera così efferati?

– Credo che sia stato il disco per me più difficile da fare, da un punto di vista emotivo. Non sono un amante dei fatti di cronaca nera che, in genere, più che interessarmi, mi spaventano. Nel corso dei mesi, studiando i vari crimini e cercando di riportarli in musica, mi sono reso conto che questa brutta vicenda mi stava coinvolgendo (in senso negativo) più di quanto avessi immaginato. La registrazione del disco si è trasformata in una specie di incubo durato alcuni mesi.
 
 E’ stato difficile per te rapportarli in musica?

– Quello che ho cercato di fare è una sorta di colonna sonora immaginaria che raccontasse i fatti senza l’uso delle parole. Sono partito dal racconto dei singoli crimini e da quelli ho fatto le strutture dei pezzi in modo che ripercorressero a grandi linee quello che era successo. Ho cercato di creare atmosfere che potessero far capire all’ascoltatore gli stati d’animo dei presenti o delle vittime, ho sottolineato gli spari, le raffiche di mitra, le fughe in auto, il terrore e la distruzione che portava la banda quasi ad ogni colpo. Non è stato molto difficile da un punto di vista puramente tecnico, ma è stato impegnativo cercare di rimanere “distaccato” emotivamente da quello che stavo raccontando.
Il mio intento era quello di raccontare una storia senza dare giudizi, senza coinvolgimenti personali e con uno sguardo da cronista, per così dire, e forse questa è stata la parte più difficile.
 
Quali sono state le tue fonti e lo studio da te fatto sul caso?

– Ho alcuni libri che parlano della banda e dei suoi crimini. Ci sono molti tabella dell’epoca che sono stati digitalizzati, quindi si trovano facilmente in rete. Ho trovato anche molti servizi speciali, telegiornali e trasmissioni televisive che hanno parlato di questa storia, anche se devo dire che alcune sono davvero fatte male, tanto da far passare i criminali sotto una luce quasi da “eroi”, cosa secondo me molto fastidiosa.
 
Hai avuto modo di rapportarti e conoscere i parenti delle vittime?

– Ho parlato al telefono e via email con la Presidentessa dell’Associazione delle Vittime della banda della Uno Bianca, perché Il resto del Carlino, il giornale di Bologna, ha fatto uscire alcuni tabella in cui mi si dipingeva come una specie di mostro che voleva fare i soldi ed avere successo parlando di una storia di cui non potevo sapere nulla (almeno secondo loro). “Non si può fare rock su tutto”, hanno scritto. Evidentemente non hanno mai ascoltato il disco, anche se mi sono premurato di farlo avere al direttore e ai vari redattori del giornale quando sono stato contattato un mese prima dell’uscita dell’album. A quel punto, dopo due tabella che non posso che definire “diffamatori” nei miei confronti, sono stato contattato da altri parenti di alcune vittime, ai quali ho raccontato i miei intenti e ai quali ho fatto avere il disco, la copertina e tutto quello che li poteva interessare.
 
Se si, come hanno reagito alla tua iniziativa di voler realizzare un album che parlasse di quella storia? Che è anche la loro storia…

– La signora Rosanna Zecchi (la presidentessa dell’associazione delle vittime) ha capito che quanto stavo per pubblicare non era un omaggio alla banda e che il mio intento era quello di ricordare le vittime raccontando una storia di umana follia. Quello che mi ha detto è stato: “Lei faccia quello che vuole. L’unica cosa che mi auguro è che le nostre vittime siano onorate e non schernite dal suo disco”. Altri parenti delle vittime si sono fatti vivi, chiedendomi delucidazioni, e dopo aver sentito il disco mi hanno perfino detto che secondo loro ero riuscito a cogliere in pieno il dramma, il dolore ed il terrore che avevano vissuto le vittime durante i crimini. Sono rimasto molto colpito da questo, soprattutto perché tali persone mi hanno anche detto di lasciar perdere tutte le stupide questioni sollevate dal quotidiano bolognese, che stava probabilmente cercando solo uno scoop per vendere qualche copia in più. 
 
Il tuo album segue un percorso cronologico degli avvenimenti, i brani hanno come titolo la data e il luogo in cui si è verificato un determinato omicidio, sparatoria ecc…Da ciò si evince uno studio certosino nel voler spiegare all’ascoltatore questa storia; come hai affrontato tutto ciò da un punto di vista emotivo?

– Come dicevo in precedenza, ho cercato di rimanere il più possibile distaccato a livello emotivo da quello che stavo raccontando. La particolarità del disco, secondo me, è che la musica, in maniera naturale, sembra mutare nel corso dei brani, un po’ come è cambiata la storia della banda. Devo anche sottolineare il fatto che i pezzi sono stati composti e registrati in ordine cronologico e la cosa importante che ne è uscita è proprio questa lenta ma inesorabile trasformazione dello stile che man mano diventa sempre più violento e spietato. 
 
Oltre alla ricerca degli avvenimenti, da parte tua c’è una ricerca sonora che tende a marcare e ad evidenziare determinati eventi come per esempio la morte che viene contraddistinta dal suono di una campana, ci spieghi meglio questa scelta?

– Il disco, come dicevo, è una sorta di colonna sonora immaginaria degli eventi. All’interno dell’album c’è una guida all’ascolto in cui vengono riportati i crimini in questione. Se la si legge mentre si ascolta il disco si può comprendere la struttura dei pezzi e si può “entrare” nella storia in maniera più completa. Durante i vari brani (e quindi i racconti) ogni volta che qualcuno viene ucciso risuona una campana. Volevo che il disco risultasse sconvolgente almeno quanto lo è la storia in sè e il suono di una campana rimanda automaticamente ad un lutto. Credo che la successione dei rintocchi, all’interno di certi pezzi, dimostri quanto brutale è stata la banda nel suo agire. 
 
Un giornalista, quando parla di cronaca nera e di determinati avvenimenti può incontrare, nel suo percorso, qualche difficoltà per via dei temi che affronta. Per te è stato semplice pubblicare questo disco, rapportarti con i fans e far capire il tuo messaggio?

– Con i fans non ci sono stati problemi e devo dire che il mio intento è stato compreso in pieno. Anzi, sembrava quasi che si aspettassero un disco “serio”, dopo tre album in cui c’era molto sarcasmo. Non è stato facile farlo capire a chi vuole fare dei titoli altisonanti sui quotidiani, ma alla fine un po’ me l’aspettavo (non a caso eravamo stati molto attenti ad evitare che la notizia arrivasse a certi giornalisti, ma evidentemente il disco ha avuto una risonanza più grande di quello che ci si aspettava). 
 
Nella copia fisica del tuo disco vi sono riportati i nomi di tutte le vittime della Uno Bianca, immedesimarsi in questa storia, immedesimarsi in quegli anni e in quelle vite com’è stato per te?

– Il disco vuole essere un omaggio a chi è morto per niente durante sette lunghi anni di terrore. E’ terribile pensare che molte persone hanno perso la vita solo perché si trovavano nel posto sbagliato al momento sbagliato. Del resto i componenti della banda uccidevano chiunque si frapponesse tra loro e il loro scopo finale, anche inconsapevolmente. Non c’era via di scampo per chi si trovava lì, a meno che non si inceppasse un’arma, che non facesse finta di essere stato colpito da un proiettile o altre situazioni al limite dell’incredibile. Troppe persone sono morte solo perché qualcuno voleva fare dei soldi facili.
 
Concludendo, che messaggio vuoi lanciare a coloro che hanno interpretato male ciò che volevi realmente comunicare con il tuo album?

– Vorrei dire una semplice cosa: che la smettessero di trovare dei capri espiatori, di criminalizzare persone che a volte non c’entrano niente, solo per fare degli tabella in cui si parla di “mostri” o presunti tali, passando così per i “buoni” della situazione. Anche in questo modo si rovinano molte vite. La diffamazione e la ricerca dello scoop ad ogni costo non porta a niente.



BANDA UNO BIANCA: ARRESTATO FIGLIO DI ROBERTO SAVI PER TRAFFICO DI COCAINA

di Angelo Barraco
 
Bologna –  E’ finito in manette all’aeroporto Marconi di Bologna il figlio di 31 anni di Roberto Savi. Il giovane è stato trovato con 1 chilo e 200 grammi di cocaina che teneva nascosta all’interno di un flacone di bagnoschiuma. Ad effettuare l’arresto al giovane, sono stati i finanzieri che prestavano servizio all’aeroporto, l’operazione è stata effettuata grazie ad un controllo minuzioso. Il volo con tratta Costarica – Bologna è tenuto sotto controllo dalle forze dell’ordine poiché spesso frequentato dai corrieri della droga. L’arresto è avvenuto senza avvalersi dell'aiuto di cani antidroga, ma grazie all’intuito dei militari. Il figlio di Roberto Savi non era solo a bordo, ma viaggiava con una ragazza che è risultata estranea. Gli inquirenti hanno perquisito la casa del giovane dove hanno trovato delle sostanze da taglio e 1.500 dollari in contanti. Secondo gli inquirenti quindi la droga doveva essere tagliata dove sarebbe stato possibile ricavarne almeno 3 chili. Ricordiamo che il giovane ha cambiato il suo cognome da molti anni, per cancellare i legami con il padre che, ricordiamo, è l’ex poliziotto nonché capo della Uno Bianca ed è stato condannato all’ergastolo per 24 omicidi e più di 100 feriti tra il 1987 e il 1994.