‘Ndrangheta, arrestato trafficante di cocaina della cosca dei “Pesce”: era latitante dal 2015

GIOIA TAURO – Un latitante della ‘ndrangheta è stato arrestato a Gioia Tauro. È il narcotrafficante Vincenzo Di Marte, 37 anni, componente della cosca dei “Pesce”. I carabinieri lo hanno trovato nella località di Ponte Vecchio. Nel 2015 è sfuggito a un’ordinanza di custodia cautelare in carcere disposta dal Gip di Reggio Calabria. Il ‘ndranghetista è accusato di associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga aggravato dalla transnazionalità della condotta. Lo scorso luglio è stato condannato a 14 anni di reclusione. Il suo nome compare nella lista dei 34 arresti eseguiti tre anni fa dai finanzieri del Gruppo investigazione criminalità organizzata di Catanzaro che hanno sgominato un traffico internazionale di droga dalla Colombia. Un’ operazione in collaborazione con la Dea americana e la Guardia Civil spagnola. Di Marte è stato considerato dagli inquirenti un elemento chiave per la ‘ndragheta perché, grazie ai rapporti di fiducia con i narcos colombiani, ha contribuito a far crescere l’impero economico delle cosche dei “Pesce” di Rosarno e degli Alvaro di Sinopoli.




Roma, camorra e ‘ndrangheta tra San Basilio e il litorale: in manette 19 persone

ROMA – Dalle prime luci dell’alba, nelle province di Roma e Napoli, circa 200 Carabinieri del Comando Provinciale di Roma, con l’ausilio dei colleghi di Napoli, di elicotteri e di unità cinofile dell’Arma, stanno dando esecuzione ad un’ordinanza emessa dal G.I.P. presso il Tribunale di Roma, su richiesta della locale Direzione Distrettuale Antimafia, con la quale si dispone la custodia cautelare per 19 persone (16 in carcere e 3 agli arresti domiciliari).

Per gli arrestati, tra i quali c’è anche una donna e alcuni soggetti di origine albanese, le accuse rivolte sono, a diverso titolo, di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti del tipo “cocaina”, aggravata dall’uso delle armi, spaccio di droga e a due di essi viene contestato il reato di lesioni gravi, commesse con arma da fuoco e con modalità mafiose.

L’indagine, dei Carabinieri del Nucleo Investigativo di Roma, ha consentito di documentare l’operatività di due distinte organizzazioni criminali, entrambe armate e dedite al narcotraffico, in stretta sinergia tra loro, di cui una di tipo mafioso, a connotazione camorristica, capeggiata dai fratelli Salvatore e Genny Esposito e l’altra con a capo Vincenzo Polito, che si avvaleva della collaborazione di esponenti delle cosche di ‘ndrangheta della provincia di Reggio Calabria, le famiglie Filippone e Gallico, presenti nella Capitale.




Reggio Calabria, in manette il boss della ‘ndrangheta Antonino Labate: l’operazione di polizia questa mattina all’alba

REGGIO CALABRIA – Tentato omicidio plurimo e incendio doloso aggravati dalle modalità mafiose sono i delitti che la Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria contesta all’uomo arrestato alle prime ore di questa mattina dai poliziotti della Squadra Mobile. L’operazione di polizia è scattata su ordine della Direzione Distrettuale Antimafia della Procura della Repubblica di Reggio Calabria nei confronti di un elemento di vertice della ‘ndrangheta reggina. 

I fatti

I fatti risalgono al 27 febbraio di quest’anno, quando veniva data alle fiamme l’abitazione di fortuna in cui aveva trovato riparo una donna rumena di 46 anni senza fissa dimora, che ospitava quel giorno altri connazionali con bambini. Gli occupanti della casa stavano festeggiando un compleanno quando improvvisamente si sono accorti delle fiamme che divampavano all’interno, facendo appena in tempo a mettersi in salvo scavalcando una finestra posteriore che dava su un cortiletto circondato da alti muri di cinta. I Vigili del Fuoco e le Volanti, erano prontamente accorsi sul luogo per domare l’incendio, appena era scattato l’allarme al servizio 113 della Questura.

Le indagini

Nerone sarebbe il nome che gli investigatori della Squadra Mobile di Reggio Calabria avrebbero dato all’operazione nel corso della quale, questa notte, è stato arrestato l’autore del tentato omicidio plurimo. Si tratta di Antonino Labate di 68 anni, elemento di elevato spessore criminale appartenente all’omonima cosca di ‘ndrangheta operante nella zona sud della città di Reggio Calabria. Sotto le direttive della Direzione Distrettuale Antimafia, i poliziotti hanno ricostruito le dinamiche dell’incendio che il penultimo giorno di febbraio ha messo a repentaglio la vita dei sei rumeni, donne, bambini e un uomo. Gli investigatori della Squadra Mobile hanno accertato che Antonino Labate durante un litigio, quella stessa mattina aveva picchiato con un bastone la donna rumena che occupava l’immobile con i suoi ospiti, con la minaccia di “bruciarli vivi” per aver abbandonato alcuni sacchetti di spazzatura accanto all’ingresso di un podere di sua proprietà. Il Labate era quindi passato dalle minacce ai fatti, cospargendo di benzina e dando fuoco all’androne dell’abitazione in cui erano presenti gli stranieri.

L’incendio appiccato dal Labate all’abitazione occupata dalla donna rumena ha messo in serio rischio la vita di sei persone, donne, bambini e un uomo che si erano ritrovati per festeggiare un compleanno. Potevano essere anche mortali le conseguenze dell’incendio se gli occupanti della casa invasa dal fuoco non avessero avuto la prontezza d’animo di scavalcare una finestra sul retro e di attutire le fiamme con coperte, prima dell’intervento dei Vigili del Fuoco e delle Volanti della Questura. Futili i motivi del delitto legati all’abbandono di alcuni sacchetti di immondizia di fronte all’ingresso di un terreno del LABATE. La Direzione Distrettuale Antimafia contesta l’aggravante mafiosa perché i fatti sono stati commessi per agevolare l’attività della cosca Labate, avvalendosi della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento ed omertà che ne deriva. Il clan Labate controlla il quartiere Gebbione di Reggio Calabria.

 

 




Rosarno: scoperto bunker della ndrangheta

ROSARNO (RC) – Un bunker di oltre 20 metri quadrati realizzato in muratura nel sottosuolo delle campagne di Rosarno, in contrada Bosco, ad una profondità di circa due metri, è stato scoperto, nella giornata di ieri, dagli investigatori della Squadra Mobile di Reggio Calabria impegnati nella ricerca di latitanti.

Al bunker si accede da una botola in cemento che si apre a scomparsa scorrendo su appositi binari a circa mezzo metro al di sotto dalla superficie. Dalla botola, attraverso un pozzo verticale, si entra in un cunicolo-corridoio lungo circa nove metri che conduce alla stanza bunker munita di illuminazione elettrica, letti, cucina e bagno.

La struttura, completamente interrata e mimetizzata da una superficie uniforme con lo stato naturale dei luoghi circostanti, era sorvegliata da alcune microtelecamere esterne nascoste nelle vicinanze. Gli investigatori della sezione criminalità organizzata e catturandi della Squadra Mobile di Reggio Calabria ritengono che il bunker sia stato utilizzato dai latitanti delle cosche della `ndrangheta di Rosarno.

I tecnici del Gabinetto Regionale di Polizia Scientifica di Reggio Calabria hanno effettuato accurati accertamenti alla ricerca di tracce utili alle indagini. Al bunker, che è stato sequestrato dalla Squadra Mobile, sono stati apposti i sigilli. Della scoperta del bunker è  stata informata la Direzione Distrettuale di Reggio Calabria che coordina le inchieste di criminalità organizzata e della cattura dei latitanti e la Procura della Repubblica di Palmi competente per territorio.




Torino, ‘ndrangheta: traffico droga, 12 arresti

TORINO – I carabinieri del Ros hanno smantellato un’organizzazione criminale legata alla ‘Ndrangheta e dedita al traffico internazionale di stupefacenti. Dodici gli arresti eseguiti su richiesta della Procura distrettuale antimafia di Torino, tra cui due pericolosi latitanti localizzati a Malaga, in Spagna. L’operazione ‘Bellavita’, come è stata ribattezzata, ha permesso di individuare i canali di approvvigionamento di ingenti quantità di cocaina e hashish, le modalità di trasporto e la rete di distribuzione.
Le misure cautelari sono state eseguite, oltre che in Spagna grazie alla collaborazione della polizia spagnola, nell’area metropolitana di Torino e in altre località italiane.
L’organizzazione criminale era dedita anche alla detenzione illecita di armi.




Basilicata, i Basilischi: l’ombra della ‘ndrangheta sulle ceneri della quinta mafia italiana

Le rocce del Pollino rappresentano un punto d’osservazione perfetto, tutto è a portata di sguardo, salendo dal lato che sprofonda nello Ionio si può notare in maniera nitida dove comincia la Calabria e dove la Basilicata diventa Puglia. Attorno alla seconda metà degli anni 90 , era facile trovare degli uomini, a parlottare e compiere strani riti sulle montagne attorno a Policoro, a metà strada tra Taranto e Sibari, alla sorgente del fiume Sinni. In quel luogo era possibile che il “Novizio”, scortato dalle “tre sentinelle di omertà”, avrebbe potuto incontrare gli “uomini d’onore” e il boss, il quale era consueto porre la domanda: “Conoscete la Famiglia Basilischi?” I “Basilischi,” oltre a essere il titolo di un film del 1963 diretto da Lina Wertmüller, sono un’organizzazione di stampo mafioso riconosciuta ufficialmente solo nel 2007 grazie alla sentenza di un maxi-processo antimafia, poi confermata in appello nel 2012.

 

Ma il loro operato come “Quinta Mafia italiana” si estende soltanto dal 1994 a 1999. È in quell’anno infatti che, Santo Bevilacqua (pentito di mafia), durante gli interrogatori condotti dalla questura, conferma che il boss del clan calabrese dei Morabito concede a Giovanni Luigi Cosentino, noto col nome di “faccia d’angelo”, l’indipendenza del suo clan lucano, costituendo così la “Famiglia dei Basilischi”. I due si incontrano nel carcere di San Gimignano, in Toscana; il luogo in cui sia il boss lucano, sia altri personaggi della malavita calabrese, scontavano le loro pene. Proprio lì, Giovanni Luigi Cosentino avrebbe ricevuto dai calabresi l’investitura del Crimine, ovvero la carica di capo dell’organizzazione mafiosa, nello stesso carcere in questione “Faccia D’angelo” darà vita alla sua opera di proselitismo, a tessere le strategie finalizzate ad allargare la famiglia e i suoi interessi, fino a coprire l’intero territorio regionale. Sarà la nascita della prima struttura mafiosa lucana.

 

La Basilicata veniva ritenuta inspiegabilmente immune alle mafie malgrado fosse geograficamente accerchiata dalla camorra campana, dalla Sacra Corona Unita pugliese, e dalla ‘ndrangheta a sud. In realtà, sin dagli anni Ottanta , ossia subito dopo il terremoto dell’Irpinia, si ha un crollo del controllo da parte delle Forze dell’Ordine, impegnate nel trarre in salvo i superstiti dalle macerie, e si ha un incremento della piccola criminalità che effettuava sciacallaggio e rapine ai danni del popolo stremato, proprio qui entrano in ballo i Basilischi. L’organizzazione non solo risolve i problemi della piccola criminalità ma comincia a gestire gli investimenti e i fondi derivanti dalla ricostruzione post-sismica. Stranamente, forse a causa del periodo di forte trambusto generale, in regione, il processo di espansione delle strutture criminali locali viene ignorato.

Durante gli anni Novanta però la situazione viene definita “preoccupante,” ma ancora limitata territorialmente, disunita. Ma soprattutto, legata a doppio filo ai clan calabresi. Sarà proprio la ‘ndrangheta ad “allenare” la criminalità locale, che a essa si ispirerà e che da essa sarà condizionata, da tutti i punti di vista. Si può dire che fino al 1995, in sostanza, la mafia lucana esisteva, in un qualche modo, ma non se ne avevano due riprove: quella giudiziaria, e il fatto che l’organizzazione fosse grosso modo autonoma.

 

La voglia dei Basilischi di emergere come mafia del territorio era molto forte, la Nuova Famiglia Lucana, creata sul modello delle mafie calabresi e pugliesi, si autodenunciò per un tentato omicidio telefonando all’agenzia ANSA di Potenza. Come a dire: Noi ci siamo, siamo arrivati. I Basilischi erano così bisognosi di affermarsi come nuovo crimine locale da uccidere un agente di polizia, Francesco Tammone. Secondo la Procura Nazionale Antimafia, le zone colpite dal fenomeno sarebbero state quelle di Policoro, Montalbano Jonico, Pisticci, Scanzano Jonico, Melfi, soprattutto la Val d’Agri, luogo in cui sono concentrate le risorse petrolifere della regione. Alla Famiglia si affilieranno alcuni membri del clan della zona di Matera e del melfese, boss del salernitano, il gruppo di Potenza e ciò che restava del gruppo criminale antecedente ai Basilischi. Il clan era specializzato nel traffico di droga, esplosivi e armi, rapine, usura, gioco d’azzardo, e l’estorsione sistematica nei confronti dei commercianti e delle imprese. Una vere e propria ‘ndrangheta Lucana. Anna Sergi nel documento La perduta Lucania Felix, afferma che i Basilischi “praticavano l’usura, ricettavano i titoli di credito di provenienza delittuosa, riciclavano i proventi sporchi e affermavano un controllo egemonico del territorio e al proprio interno, attraverso vincoli di comparaggio, rigide gerarchie e pagamento delle spese processuali per gli arrestati.” Le cose cambiarono presto, la svolta si ha con la scoperta dall’inchiesta Iena 2, in cui finiscono coinvolti anche i deputati Antonio Potenza, la cui posizione verrà poi archiviata.

 

Il p.m. di Potenza Vincenzo Montemurro definisce questo punto come un “cambio di assetto”: la famiglia riesce a mettere le mani sull’appalto di costruzione dell’Ospedale San Carlo, dimostrando quanto fosse ormai capace di lavorare ad alti livelli, e di trattare alla pari con le altre mafie, essendo coinvolto, nell’appalto, anche l’interesse della malavita campana. Ma erano proprio i calabresi, secondo quanto riportato da inchieste, racconti di pentiti e cronache, a rifornire la famiglia lucana di armi e droga. Un legame a doppio filo dal quale Cosentino ha cercato di liberarsi col loro benestare, in un rapporto che sempre Anna Sergi definisce esperimento di “outsourcing,” l’esternalizzazione da parte dei calabresi delle risorse da lasciar controllare ai clan locali della Basilicata, per goderne i vantaggi col minimo sforzo. La fortissima voglia di affermarsi come Mafia li porta a dare grossissima importanza alla tematica dei rituali mafiosi, alcuni dei quali si ritiene siano stati in un certo modo “spiegati” in carcere dai calabresi allo stesso Cosentino. Per rinsaldare un gruppo ancora privo di forti alleanze come invece se ne hanno nelle altre organizzazioni, si aveva bisogno dei riti, che puntavano spesso a sottolineare il senso di appartenenza alla Famiglia, con giuramenti simili a quelli dei clan della Calabria, dalle venature esoteriche e massoniche.

La formula per divenire “uomo d’onore” (come affermano le prove in possesso degli inquirenti), era la seguente:
“Sul monte Pollino, sapevo che il mio cuore freddo avrebbe potuto essere curato,”
“Conoscete la Famiglia Basilischi?”
“Certo che la conosco,” rispondeva l’aspirante affiliato. “La tengo nel cuore, la servo e mi servo.”
“Qual è il tuo desiderio?”, gli veniva chiesto.
“La stima, l’orgoglio della mia terra e una lunga fratellanza.”
I luoghi erano tanto importanti quanto le parole.

Il monte Pollino è la sommità “da dove tutto si vede e non si è visti,” il fiume Sinni era il cuore d’acqua che batteva nella regione ed era ciò che avrebbe accolto il corpo freddo dell’adepto in caso di tradimento.Facevano parte del rituale tagli sulle braccia, incisioni, carte da gioco napoletane, tatuaggi e il particolare del santo protettore, San Michele Arcangelo, contemporaneamente protettore della ‘ndrangheta e della polizia, paradossalmente ma con una sostanziale differenza: Mentre per la polizia il santo è raffigurato con la bilancia della giustizia, per i clan calabresi ha una catena in mano.Il capo infine, abbracciava il nuovo adepto, che doveva rispondere : “Sono felice di abbracciare un altro fratello, che sapevo di avere ma non conoscevo.”
Internamente la struttura di questa criminalità era del tutto simile alla ‘ndrangheta. Sono stati proprio i calabresi rinchiusi a San Gimignano a spiegare a “faccia d’angelo” come doveva essere organizzata la cosca, secondo la classica divisione calabrese in crimine.

Cosentino, collaboratore di giustizia, ha spiegato che la stessa struttura a “albero,” tipica della mafia, era la stessa sulla quale si reggeva quella dei Basilischi: Le cinque parti della pianta rappresentavano il “capobastone” (il tronco), i “mastri di giornata” e i “camorristi di sangue, di sgarro e di seta” (i rami), i “picciotti” (ramoscelli) e i “giovani d’onore” (i fiori), le giovani leve. Il tutto, percorso e tenuto in vita dalla “linfa” dell’omertà e del silenzio. Sotto l’albero, il fango di traditori e polizia.

Ad aprile del 1999 una maxioperazione ha portato all’arresto di praticamente tutti i capi dell’organizzazione. Da allora, secondo varie indagini, il territorio sarebbe finito sotto il controllo delle famiglie di Rosarno, che attorno al 2003 avrebbero diviso il territorio in sei o sette cosche comandate direttamente dai calabresi. Successivamente il cognato di “faccia d’angelo” si pentì e lui perse credibilità, venne estromesso da un accordo fra gli altri boss e le mafie limitrofe. Il nuovo boss Antonio Cossidente, nominato dallo stesso Cosentino una volta uscito dal carcere, non riuscì a tenere unito il gruppo, che nel 2004 si frantumò in frazioni autonome e che in buona parte venne cannibalizzato da organizzazioni più potenti di mafie esterne alla reglione.

 

Sarà questa la morte sostanziale della Famiglia Basilischi, sebbene nella Relazione annuale del 2011 della Direzione Nazionale Antimafia si parli di “seconda linea di forze emergenti, di nuovi candidati,” che starebbero cercando di emergere in un contesto privo di leader. A confermarlo è lo stesso Cossidente, ormai collaboratore di giustizia, nel 2013. “Sono già sulla buona strada, cioè la cattiva.”

Ad oggi la mano nera della malavita lucana risulta essere ancora operativa sul territorio, in maniera incontrovertibile e spesso silenziosa. L’evoluzione dei settori di interesse ha portato anche i clan e la vecchia famiglia dei “Basilischi” ad adeguarsi, entrando negli strati sottili dell’economia pulita distorcendo le logiche del libero mercato. L’utilizzo di un parallelo e ossequioso sistema clientelare va a facilitare i giochi di un fenomeno ignorato e tutt’ora sottovalutato, che sta erodendo quello che resta di una regione, che vede ancora una volta la propria popolazione fuggire via, alla ricerca di un posto migliore, lontano dalle macerie di una terra troppo spesso abbandonata a sé.

Giulia Ventura




Seregno, ‘ndrangheta: si dimettono 8 consiglieri Lega Nord. Anche il vicesindaco è indagato

SEREGNO (MI) – Il vicesindaco di Seregno (Monza) Giacinto Mariani, della Lega Nord, indagato per abuso d’ufficio nella maxi-inchiesta sulle infiltrazioni dell’Ndrangheta nel mondo della politica e dell’imprenditoria in Brianza, ha annunciato le sue dimissioni nel corso di un incontro politico ieri sera ad Albiate (Monza), al quale era presente anche il leader del carroccio Matteo Salvini. Il gruppo consiliare Lega Nord di Seregno, otto consiglieri in tutto, questa mattina firmerà le proprie dimissioni dall’incarico.

Si attende ora la decisione del gruppo consiliare di Forza Italia, agli arresti sono finiti il sindaco Edoardo Mazza ed il consigliere Stefano Gatti. Le dimissioni di tutta la coalizione di maggioranza, infatti, rappresenterebbero la fine dell’attuale Giunta. È attesa anche, nei prossimi giorni, la decisione del gip del Tribunale di Monza, subordinata ad interrogatorio di garanzia, sull’interdizione dai pubblici uffici o servizi chiesta dalla Procura per Mariani.

“Sono ventiquattro anni che sono seduto in Consiglio comunale, come assessore, come consigliere comunale e poi dieci anni da sindaco e due anni e qualche mese da vicesindaco”, ha detto Giacinto Mariani, dal palco di Albiate (Monza e Brianza), ieri sera. “La Lega senza se e senza ma è per la lotta all’ndrangheta, quando ho visto che qualcosa non andava ho fatto degli esposti”. Poi Mariani ha aggiunto: “da qui in avanti, con quello che sta uscendo sulla stampa, verremo additati come mafiosi, tutto quello che noi non siamo”. “Per questo tutto il nostro gruppo ha deciso di dare le dimissioni”, ha concluso il vicesindaco.

Un’inchiesta su infiltrazioni della ‘ndrangheta nel mondo dell’imprenditoria e della politica in Lombardia. L’inchiesta è coordinata dalla Procura di Monza e dalla Procura Distrettuale Antimafia di Milano ha portato a  27 misure cautelari: 21 in carcere, 3 ai domiciliari e 3 interdittive. Arrestato, fra gli altri, il sindaco di Seregno, Edoardo Mazza (FI). Indagato per corruzione l’ex vicepresidente della Regione Mario Mantovani (FI), attualmente consigliere regionale. A Mantovani, già arrestato due anni fa in un’altra inchiesta, non vengono contestati reati di mafia.

I soggetti colpiti dalle 27 misure cautelari sono accusati a vario titolo di associazione di tipo mafioso, estorsione, detenzione e porto abusivo di armi, lesioni, danneggiamento (tutti aggravati dal metodo mafioso), associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, corruzione per atti contrari ai doveri di ufficio, abuso d’ufficio, rivelazione e utilizzazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento personale. L’inchiesta dei carabinieri, partita nel 2015, e che porta la firma dei Pm monzesi Salvatore Bellomo, Giulia Rizzo e del Procuratore della Repubblica di Monza Luisa Zanetti e dei Pm della DIA Alessandra Dolci, Sara Ombra e Ilda Boccasini, rappresenta una costola dell’indagine “Infinito”, che nel 2010, sempre coordinata dalle procure di Monza e Milano, aveva inferto un duro colpo alle “Locali” ‘ndranghetiste in Lombardia.




Milano, ‘ndrangheta: 27 arresti tra cui il sindaco di Seregno accusato di corruzione

MILANO – Un’inchiesta su infiltrazioni della ‘ndrangheta nel mondo dell’imprenditoria e della politica in Lombardia. L’inchiesta è coordinata dalla Procura di Monza e dalla Procura Distrettuale Antimafia di Milano ha portato a  27 misure cautelari: 21 in carcere, 3 ai domiciliari e 3 interdittive. Arrestato, fra gli altri, il sindaco di Seregno, Edoardo Mazza (FI). Indagato per corruzione l’ex vicepresidente della Regione Mario Mantovani (FI), attualmente consigliere regionale. A Mantovani, già arrestato due anni fa in un’altra inchiesta, non vengono contestati reati di mafia.

I soggetti colpiti dalle 27 misure cautelari sono accusati a vario titolo di associazione di tipo mafioso, estorsione, detenzione e porto abusivo di armi, lesioni, danneggiamento (tutti aggravati dal metodo mafioso), associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, corruzione per atti contrari ai doveri di ufficio, abuso d’ufficio, rivelazione e utilizzazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento personale. L’inchiesta dei carabinieri, partita nel 2015, e che porta la firma dei Pm monzesi Salvatore Bellomo, Giulia Rizzo e del Procuratore della Repubblica di Monza Luisa Zanetti e dei Pm della DIA Alessandra Dolci, Sara Ombra e Ilda Boccasini, rappresenta una costola dell’indagine “Infinito”, che nel 2010, sempre coordinata dalle procure di Monza e Milano, aveva inferto un duro colpo alle “Locali” ‘ndranghetiste in Lombardia.

Il procuratore aggiunto Ilda Boccassini, nel corso della conferenza stampa, ha osservato che “in Lombardia c’è un sistema fatto di omertà e di convenienza da parte di quelli che si rivolgono all’anti Stato per avere benefici. E’ facile per le cosche “infiltrarsi nel tessuto istituzionale”. Con il maxi blitz di oggi contro la ‘ndrangheta in Lombardia “è stata individuata una delle persone che era rimasta fuori” dagli arresti dell’operazione ‘Infinito’ del 2010 e che partecipò in quell’anno al noto summit in un centro intitolato alla memoria di Falcone e Borsellino. Lo ha spiegato il procuratore aggiunto della Dda Ilda Boccassini in conferenza stampa precisando che un altro dei dati emersi dalle indagini “purtroppo è la violenza gratuita” manifestata dagli affiliati alle cosche.

Nell’ambito della maxi inchiesta sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Brianza e in Lombardia è stato arrestato anche il sindaco di Seregno (Monza) Edoardo Mazza, di Forza Italia.  E’ accusato di corruzione: avrebbe favorito gli affari con un imprenditore legato alle cosche, il quale si sarebbe a sua volta adoperato per procurargli voti. A legare a “doppio filo” politica e ‘ndrangheta, secondo l’inchiesta della Procura di Monza e della Dda di Milano, sarebbe stato un imprenditore edile di Seregno il quale avrebbe intrattenuto rapporti con politici del territorio, e coltivato frequentazioni e rapporti fatti di reciproci scambi di favori con esponenti della criminalità organizzata. Il suo ruolo sarebbe stato “determinante” per l’elezione del sindaco arrestato, secondo le ricostruzioni degli inquirenti. Il suo interesse era quello di ottenere dai politici una convenzione per realizzare un supermercato nel monzese.

I presunti esponenti della ‘ndrangheta arrestati stamane erano, secondo le indagini, dediti al traffico di droga ed alle estorsioni. Le indagini hanno portato all’identificazione del sodalizio legato alla Locale della ‘ndrangheta di Limbiate (Monza) composto da soggetti prevalentemente originari di San Luca (Reggio Calabria), che secondo l’accusa aveva avviato in provincia di Como un ingente traffico di cocaina, ed è ritenuto responsabile di alcuni episodi di violente estorsioni nella zona di Cantù (Como).

Il sindaco di Seregno Edoardo Mazza invitava la popolazione “a non aiutare gli accattoni. Basta dare soldi a chi chiede l’elemosina. Chi ha davvero bisogno è già aiutato dal Comune. Gli accattoni sono una delle piaghe che affliggono la nostra città. Sono ovunque – aggiungeva – e non sappiamo più come trovare una soluzione”.

Sul suo profilo Facebook campeggia lo slogan “serietà, concretezza e passione” e anche un post che segnala che “ogni giovedì alle ore 12:30 in diretta streaming” il sindaco si fa trovare “a tu per tu” con i cittadini. Nella diretta del 31 agosto il sindaco Mazza si era presentato con una forbice, dopo lo stupro e l’aggressione avvenuti a Rimini. “Questo è lo strumento che molti vorrebbero utilizzare per punire gli animali che hanno compiuto questo efferato delitto. Non è rappresentativo del mio stato d’animo ma se fossi il genitore di quella ragazza” – ha aggiunto – “altro che forbice utilizzerei…”. L’ultima diretta è stata dedicata al tema della sicurezza e del bisogno dei cittadini di essere “supportati da uomini in divisa”, di cui ha detto di aver parlato con carabinieri e polizia locale. “Sono un avvocato di 38 anni, da sempre appassionato di politica, a cui mi sono dedicato per 10 anni”, si descrive sul social network definendosi anche un “moderato”.




Ndrangheta: catturato in Uruguay il boss Rocco Morabito. Era il “re della coca”

URUGUAY – E’ stato catturato in Uruguay il boss della ‘ndrangheta Rocco Morabito, latitante da 25 anni. Morabito è stato preso in un hotel a Montevideo ma viveva nella località di Punta del Este e, precisano le fonti, aveva un documento falso brasiliano con il quale aveva poi ottenuto la carta d’identità uruguaiana. Nato ad Africo, in provincia di Reggio Calabria, nell’ottobre del 1966, Morabito viveva in Uruguay da una decina d’anni ed “era uno dei dieci mafiosi più ricercati”, ricorda la stampa locale.

Il ‘boss’ della ‘ndrangheta sarà estradato in Italia, rende d’altra parte noto il ministero degli Interni di Montevideo, ricordando che insieme a lui è stata arrestata una donna angolana con passaporto portoghese che, precisano le fonti, sarebbe la moglie di Morabito. Nelle operazione che hanno portato all’arresto la polizia uruguaiana ha confiscato tra l’altro 13 cellulari, una pistola, 12 carte di credito, assegni in dollari e 150 foto carnet con il viso del detenuto.

Morabito è stato preso in un hotel a Montevideo ma viveva nella località di Punta del Este e, precisano le fonti, aveva un documento falso brasiliano con il quale aveva poi ottenuto la carta d’identità uruguaiana. Nato ad Africo, in provincia di Reggio Calabria, nell’ottobre del 1966, Morabito viveva in Uruguay da una decina d’anni, ricorda la stampa locale, ed “era uno dei dieci mafiosi più ricercati in Italia”.

Il ‘boss’ della ‘ndrangheta sarà estradato in Italia, rende d’altra parte noto il ministero degli Interni di Montevideo, ricordando che insieme a lui è stata arrestata una donna angolana con passaporto portoghese che, precisano le fonti, sarebbe la moglie di Morabito. Nelle operazione che ha portato all’arresto la polizia uruguaiana ha confiscato tra l’altro 13 cellulari, una pistola, 12 carte di credito, assegni in dollari e 150 foto carnet con il viso del detenuto.




Roma, usura ed estorsione: 13 arresti tra cui boss della 'ndrangheta

 

ROMA – E’ un vero e proprio sodalizio criminale contiguo con ambienti malavitosi di stampo camorristico e ‘ndranghetista quello che i finanzieri del Comando Provinciale di Roma hanno sgominato questa mattina, eseguendo 17 misure cautelari (13 delle quali in carcere). I reati contestati dalla procura capitolina, a seconda delle posizioni, sono quelli di associazione a delinquere , usura, estorsione, abusivismo finanziario, riciclaggio e accesso abusivo a sistemi informatici. Alcuni dei reati, sono inoltre aggravati da metodo mafioso, in considerazione della forza intimidatrice esercitata dagli indagati e lo stato di assoggettamento delle vittime. Le indagini, coordinate dalla direzione distrettuale antimafia, hanno avuto inizio nel 2013, a seguito di una denuncia sporta da una vittima di reiterate estorsioni, connesse a prestiti usurai. In questo contesto, è poi emerso l’illecito rapporto tra un affermato imprenditore romano, Alessandro Presutti, e due pluripregiudicati di origine campana da tempo trasferitisi a Roma. In particolare i soggetti campani, Francesco Sirica e Luigi Bonocore, insieme a Presutti, avrebbero applicato bieche logiche mafiose, anche con il ricorso a metodi assai violenti per il recupero dei crediti. In una intercettazione finita agli atti del procedimento, uno degli indagati afferma: “Ci devono pagare lo strozzo…sto aspettando…mi metto sulla moto e lo butto di sotto…tocca ammazzarlo”. Le intercettazioni, infatti, hanno consentito di accertare che Presutti si rivolgeva a soggetti di elevato spessore criminale per il recupero dei crediti vantatati ed ancora non riscossi, tra cui il boss Maurizio Rango, reggente della cosca di ‘ndrangheta Rango-Zingari di Cosenza ed attualmente in carcere per associazione mafiosa. Il sodalizio criminale aveva inoltre la capacità di reclutare noti pregiudicati, tra i quali un importante esponente della famiglia Cordaro di Tor Bella Monaca. Nel corso delle indagini è emerso un rapporto di colleganza e fidelizzazione con il noto boss Michele Senese, la cui fama criminale veniva sovente evocata per gestire le dinamiche relazionali con altre organizzazioni malavitose ovvero per intimorire le vittime di usura o, ancora, per garantire la raccolta di denaro necessari al sostentamento dei membri del gruppo campano nonché alle loro ingenti spese legali connesse a processi in corso. Agli arresti, inoltre sono finiti anche due professionisti, incaricati di tentare recuperi “legali” dei crediti. In questo caso si tratta di un avvocato del foro di Roma e di un consulente del lavoro. Agli arresti, infine, sono andati anche due finanzieri, indagati per aver fornito informazioni al sodalizio. Complessivamente, gli indagati nell’inchiesta sono cinquanta, mentre ammonta a 16,5 milioni di euro il valore dei beni sequestrati dagli uomini della guardia di Finanza.




'Ndrangheta: catturato in Brasile il superboss Vincenzo Macrì

 

di Vincenzo Giardino


REGGIO CALABRIA – E' stato arrestato a San Paolo, in Brasile il latitante della 'ndrangheta calabrese Vincenzo Macrì, figlio del noto Antonio, leader carismatico. L'arresto è avvenuto al termine di articolate indagini coordinate dalla Procura Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria e condotte dal Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato e dalla Squadra Mobile di Reggio Calabria in collaborazione con il Servizio per la Cooperazione Internazionale di Polizia e dalla rete dell'Interpol. A localizzare e catturare Macrì sono stati gli agenti della polizia brasiliana.   
  

Nato a Siderno (Reggio Calabria) nel gennaio del 1965, esponente apicale della potente cosca della 'ndrangheta Commisso operante a Siderno, Vincenzo Macrì era già stato proposto per l'inserimento nell'elenco dei latitanti pericolosi stilato dal Ministero dell'Interno. L'arrestato è figlio del noto Antonio Macrì, soprannominato per la sua caratura criminale "boss dei due mondi", particolarmente influente anche oltreoceano (Canada e Stati Uniti), ucciso in un agguato a Siderno il 20 gennaio 1975, nell'ambito della prima guerra di 'ndrangheta.

Vincenzo Macrì, che negli ultimi anni si era stabilito ad Aalsmeer (Olanda), dove – riferisce ancora la Polizia – gestiva gli interessi illeciti del sodalizio mafioso di riferimento, è stato rintracciato all'aeroporto di San Paolo del Brasile, diretto nella capitale del Venezuela, Caracas, dove viveva da qualche tempo utilizzando una falsa identità individuata proprio dagli investigatori della Squadra Mobile reggina e dello SCO.
  
Il ministro dell'interno, Marco Minniti, ha telefonato al Capo della Polizia, Franco Gabrielli per complimentarsi dell'operazione, coordinata dalla Procura Antimafia di Reggio Calabria ed eseguita dal Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato, dalla Squadra Mobile di Reggio Calabria e dalla Polizia brasiliana con il raccordo del Servizio per la Cooperazione Internazionale di Polizia e dall'Interpol. "L'arresto di Vincenzo Macrì – ha commentato il ministro Minniti – è un'altra importantissima operazione contro la 'Ndrangheta che si aggiunge agli arresti di altri pericolosi latitanti operati di recente dal lavoro straordinario delle Forze di Polizia".

"La lotta alla 'Ndrangheta non ha confini. L'arresto di Vincenzo Macrì, esponente apicale della cosca Commisso di Siderno, all'aeroporto di San Paolo in Brasile è un importante risultato ottenuto grazie alla collaborazione internazionale e all'assiduo e incessante lavoro delle nostre forze dell'ordine. Ringrazio, dunque, gli investigatori della Squadra mobile di Reggio Calabria e dello Sco, la Polizia di Stato e la Dda di Reggio Calabria". A dirlo è Dorina Bianchi, sottosegretario al Turismo e deputato calabrese di Alternativa Popolare. "L'operazione di oggi – conclude – conferma quanto sia importante la collaborazione internazionale nella lotta alla criminalità organizzata che si è ramificata anche all'estero. È un problema globale che, dunque, ha bisogno di risposte globali e della condivisione delle strategie".