Quando la morte ci sfiora

di Roberto Ragone

Sentiamo il fetore della morte ormai su tutti i fronti. Dalla Siria, da Aleppo, dalle guerre spietate che si combattono ormai non si sa più in nome di chi e che cosa, purchè si combattano. Fiumi incalcolabili di denaro scorrono sul sangue di chi si trova in mezzo ai fuochi, non importa se donne, uomini, bambini, soldati, terroristi, bianchi, neri, alimentando colonne di disperati che a piedi affrontano trasferimenti biblici, nel tentativo di arrivare poi in Occidente, innescando una serie di problemi. Il puzzo della morte ci arriva perfino dal televisore, e ce ne siamo quasi assuefatti, tanto da non sentirlo più. Proviamo pietà per quei bambini, a cui è negata la vita, a cui è negata anche l’infanzia. Proviamo pietà e raccapriccio per quegli adolescenti mandati ad uccidere con una cintura esplosiva attorno al petto, in nome non di un dio perverso, ma di una religione che non sa più essa stessa cosa sia. Proviamo pietà e dolore, tuttavia sono morti lontani, anche se ci scandalizza ciò che comunque riusciamo ad intuire, cioè che le guerre non risolvono nulla, perché non le vince nessuno, lasciano solo mucchi di cadaveri e filari di tombe. Le guerre non le vince nessuno, soprattutto chi le combatte. Le guerre le vincono quelli che vendono armi, che accolgono fiumi di denaro sporco, in accordo con i governi dei vari Paesi che le propiziano e le sobillano, sfruttando criminali come quelli di Boko Haram, pessima pubblicità per un Islam che si vuole accreditare in Occidente. Boko Haram sembra che voglia dire ‘La cultura occidentale è peccato’, e tutti siamo al corrente del rapimento delle 260 ragazze del liceo, vendute come schiave a pochi dollari, o costrette a sposare i soldati di questo esercito di assassini. Morte, dicevamo, ma comunque lontana da noi.

 

Tutto cambia quando la morte arriva vicino a noi, in casa nostra, e ci tocca nelle cose che credevamo più protette, come un paese di montagna in cui andare d’estate per una gita, a godere il fresco dell’altitudine, a vivere un’atmosfera tranquilla, serena, al profumo di un piatto caratteristico, conosciuto in tutto il mondo, come l’Amatriciana. 265 morti, 365 feriti, quasi mille scosse, da quando è incominciato tutto, e ne abbiamo sentite anche noi, che ne siamo lontani. Il letto che si muove, il lampadario che dondola, alle 4,34 di quella notte maledetta, e il panico si è diffuso anche molto lontano. In un attimo sono stati rasi al suolo interi paesi e piccole frazioni di gente civile e pacifica, lontana dai clamori delle guerre siriane, e che comunque in un attimo hanno dovuto affrontare una situazione molto simile a quella, con amici e parenti sotto le macerie, e la fuga in cui hanno potuto salvare solo la vita e perdere tutto. Casa, beni, lavoro, amici, persone care, figli, nipoti, genitori. Famiglie smembrate, un passato cancellato da pochi secondi di ira sotterranea di una terra che non è mai stata avara di sommovimenti tellurici, anzi. Piangiamo ancora l’Aquila, per cui si sono spese promesse che non hanno trovato mai riscontro nella realtà. Oggi, come allora, assistiamo a comportamenti che ci sono già noti: volontari, che non ringrazieremo mai abbastanza, insieme a coloro che sono preposti ai soccorsi, Vigili del Fuoco, Polizia, Carabinieri, Protezione Civile, gruppi cinofili, donatori di sangue, e tutti coloro che dall’inizio hanno inteso mettersi a disposizione senza risparmio. La ferita è ancora fresca, e per ora non rimargina. Un giorno, forse, lo farà, ma la cicatrice rimarrà dentro di noi, per quanto spettatori privilegiati, non toccati, per ora, da simili eventi. L’Italia è quasi tutta a rischio geologico, e ci auguriamo che la terra, saziata la sua sete, non torni a tremare, almeno per qualche millennio. Ma la ferita sanguina, e fa male. Oggi vediamo in televisione giornalisti che intervistano chiunque. Per carità, fanno il loro mestiere, a volte ingrato, perché bisogna dare qualcosa al pubblico. Ma a volte si sente una nota stonata nelle interviste sul campo, in quelle ai disgraziati protagonisti del terrore – i quali non hanno altro da rispondere che le stesse cose, tutti quanti, mentre chi porge loro il microfono spera in un pianto dirotto che dia più sapore all’intervista – e soprattutto alle interviste in studio. Psicologi, geologi, politici, polemici, bisognava fare di più, bisognava costruire in un altro modo, perché i soldi c’erano, perché non sono stati utilizzati, eccetera eccetera eccetera…

 

A chi giova tutto questo? Siamo il Paese delle polemiche. È stata aperta un’inchiesta per disastro colposo, contro ignoti. Per carità, un atto dovuto. Ma lasciamo scorrere in silenzio quelle lacrime, in disparte, senza telecamere. Lasciamo che la ferita trovi la sua collocazione, lasciamo che il dolore lasci il posto alla rassegnazione; lasciamo che l’uomo guarisca da solo, perché ne ha le capacità. Lasciamo che chi è sopravvissuto trovi pace nel ricordo di chi non c’è più, senza psicologi e senza che le polemiche sterili e inutili proclamino ad alta voce che quello che è accaduto non doveva accadere. È accaduto, e non si può tornare indietro. I nostri piccoli paesi di montagna sono tutti così, non si possono demolire per ricostruirli con criteri antisismici. Si può certamente, nell’ambito di una mentalità diversa e di un doveroso progresso tecnologico, impostare in altro modo le nuove costruzioni. Ma se un paese è nato quattro o cinquecento anni fa, e le sue costruzioni sopravvivono come sono state fatte, dovremo aspettarci che il prossimo evento disastroso le comprometta. Quello che non bisogna assolutamente fare è litigare sul cadavere, e cercare responsabilità e colpe, che certamente ci sono, ma che ormai è inutile individuare. L’Europa, o meglio l’Unione Europea ci ha promesso solidarietà sotto forma di contributi economici: qualcuno dirà che è un bene che siamo ancora in UE, così potremo avere un aiuto significativo. Bene, l’UE ci restituirà soltanto una parte di ciò che l’Italia ha versato nelle sue casse. Se quel denaro lo avessimo messo da parte, da buon padre di famiglia, ne avremmo a sufficienza per gli interventi necessari, e molto di più. E speriamo anche che i politici non vogliano sfruttare questa triste occasione per tirare un po’ d’acqua ad un mulino che gira sempre più lentamente. 




MICHAEL SCHUMACHER LOTTA TRA LA VITA E LA MORTE

Redazione

Una vera e propria tragedia ha colpito il mondo della formula 1 e non solo. Michael Schumacher lotta per la vita a Grenoble dopo la caduta sugli sci. Il fratello Ralf, anch'egli ex pilota di Formula 1, ha deciso di oscurare il suo sito ufficiale. Provando l'accesso a www.ralf-schumacher.org appare una pagina con sfondo totalmente nero. Sono ore di preghiera e sofferenza anche per lo Schumi meno famoso. Il fratello Ralf, anch'egli ex pilota di Formula 1, ha deciso di oscurare il suo sito ufficiale. Provando l'accesso a www.ralf-schumacher.org appare una pagina con sfondo totalmente nero.  L'incidente a Mèribel, in Francia potrebbe essergli davvero fatale. Il sette volte campione del mondo di Formula Uno avrebbe sbattuto la testa contro una roccia. L'ospedale di Grenoble, dove è stato operato: "Le sue condizioni sono critiche"
Michael Schumacher rimane in "condizioni critiche", "e al suo arrivo qui soffriva di un trauma cranico grave, con annesso coma, per il quale si è reso necessario un immediato intervento neurochirurgico" dopo l'incidente avuto mentre sciava in Alta Savoia. E' quanto scritto in un comunicato diffuso dal centro ospedaliero universitario di Grenoble.
 Schumacher stava sciando fuori pista, in compagnia di altre persone e in particolare, secondo i media locali e quelli tedeschi, del figlio Mick di 14 anni. Dopo la caduta era stato immediatamente soccorso, e secondo il direttore della stazione di Meribel, Christophe Gernigon-Lecomte, era anche cosciente "anche se un po' agitato". In dieci minuti era stato "evacuato" con un elicottero dei soccorsi aerei francesi, ma viste le sue condizioni si era ritenuto opportuno spostarlo ancora, verso Grenoble.