IRAQ: CONTINUA LA FURIA DELLE MILIZIE JIHADISTE

di Daniele Rizzo

Sebbene l’attenzione dei media si sia rivolta al conflitto arabo-israeliano che sta martoriando Gaza in queste ore, in Iraq c’è una guerra civile che è ripresa e continua imperterrita ormai da diversi mesi. L’ISIS, che lo scorso 29 giugno ha proclamato la nascita dello Stato Islamico, continua infatti a mietere vittime nel nord dell’Iraq. La città più colpita è Mosul, ormai occupata stabilmente dalle milizie jihadiste che continuano a distruggere e fare barbarie del territorio iracheno.

Proprio a Mosul i sunniti hanno ormai preso il pieno controllo di ogni aspetto della città, tanto che hanno ordinato ai funzionari pubblici di interrompere i rifornimenti di cibo e bombole di gas a quelle poche minoranze ancora presenti sul territorio. Sciiti, curdi, cristiani sono infatti sempre più oggetto di ritorsioni e minacce da parte delle milizie invadenti, e in quest’ottica va vista anche l’opera di distruzione che stanno operando nei confronti di tutti quei centri culturali o archeologici che possono essere ricondotti ad altre culture religiose.

A fare per prima le spese di questa furia iconoclasta è stata la Moschea di Giona, simbolo di Mosul e punto di riferimento per il culto sunnita, sciita, ma anche cristiano, e quindi “luogo di apostasia” da distruggere. La moschea è stata fatta saltare in aria dopo che i fondamentalisti avevano costretto tutti i presenti ad uscire; hanno poi piazzato le bombe e invitato tutti ad assistere all’”esecuzione”. Come detto l’episodio è dunque da ricondurre alla volontà dei jihadisti di cacciare per sempre gli infedeli dal “proprio” stato, e di farlo colpendoli lì dove ogni uomo è più vulnerabile: nelle radici, nella cultura. A rischiare per la furia devastatrice dell’ISIS ci sono inoltre numerosi siti archeologici che raccontano di quando l’Iraq si chiamava Mesopotamia e vedeva nascere la civiltà tra le sponde dei suoi fiumi: il pericolo che tra pochi mesi non avremo più testimonianze di quell’epoca è concreto.

Intanto il resto del Mondo continua a prendere posizione. Mentre la Russia vende aerei da guerra allo stato iracheno e gli USA mandano i loro consiglieri in loco, in Giordania, Turchia e Qatar sarebbero sorti campi d’addestramento per volontari jihadisti che vogliono perorare la causa di al-Baghdadi (il califfo, leader dell’Isis). Inoltre, dopo la tragedia del volo MH17 (il volo della Malaysia Airlines abbattuto in Ucraina) Air France, Emirates e Klm hanno sospeso il sorvolo dell’Iraq, in attesa che venga appurata la presenza o meno di missili terra-aria in mano ai separatisti sunniti. Insomma la guerra in Iraq, sembra essere sfuggita al controllo delle grandi potenze mondiali, a cui ormai non resta altro da fare che aspettare il risultato delle consultazioni parlamentari del 12 agosto in Iraq, e sperare in un governo forte ed unitario che metta fine a questa guerra.




LA PAROLA DI OBAMA: NON INTERVERREMO MILITARMENTE IN IRAQ

di Daniele Rizzo

Di fronte al degenerare della situazione irachena il presidente americano Barack Obama sembra aver ritrovato quell’aplomb che lo aveva contraddistinto nei primi anni del suo mandato e che nel 2009 lo ha portato a ricevere il premio Nobel per la Pace: “Le forze USA non torneranno a combattere in Iraq”, ha sentenziato il presidente americano in diretta tv, mettendo difatti fine a tutta una serie di speculazioni che vedevano imminente l’invio di contingenti militari nel paese asiatico. Al momento sono 275 i marine inviati sul luogo per proteggere l’ambasciata americana di Baghdad dall’avanzata dell’ISIS (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante). Le milizie sunnite stanno infatti mettendo a ferro e fuoco il nord del paese, e tutto lascia pensare che l’offensiva si espanda presto in tutto l’Iraq, portando attentati, sangue e rappresaglie in un territorio che oramai da più di dieci anni è straziato dai conflitti.

Obama ha annunciato che oltre ai marine già sul luogo verranno inviati anche 300 consiglieri militari con il compito di consigliare politicamente il governo iracheno e mediare laddove possibile con le forze ostili. Il presidente ha chiarito che è inutile mandare sul luogo migliaia di truppe perché non avrebbero la capacità di risolvere il problema. I leader iracheni dovranno perciò cercare una soluzione politica al problema; in quest’ottica in un’intervista di sabato scorso alla Cnn Obama ha auspicato la creazione di una struttura di comando del paese che includa tutte le parti in causa, e quindi sunniti, sciiti e curdi; solo in questo modo sarà possibile un’alternativa alla soluzione militare che comunque non ci sarà.

Intanto continua la lotta per le raffinerie del paese, che non solo rappresentano il “luogo” economico più importante, ma garantiscono ai miliziani la possibilità di mettere in croce il governo e la sua economia; occupare le raffinerie significherebbe costringere il governo a mediare. E forse è per questo motivo che notizie contrastanti si inseguono a riguardo, con i miliziani che annunciano le occupazioni e il governo che garantisce di aver resistito e cacciato i membri dell’ISIS.
La situazione appare dunque confusa ed è certo che la partita si giocherà tanto sulle forze fisiche quanto sui nervi; ciò che al momento sembra chiaro è che gli USA non interverranno, sebbene l’invio dei consiglieri militari lasci qualche dubbio a chi, facendo riferimento alla storia, ricorda come questo solitamente sia il campanello d’allarme di un imminente invasione militare.