Omicidio Simonetta Cesaroni, dopo 32 anni si riapre il caso

Il 7 agosto del 1990 nell’ufficio dell’Associazione alberghi della gioventu’ viene trovato il corpo della ragazza

Nuove verifiche e accertamenti, nuove audizioni per arrivare, dopo 32 anni, ad una verità. Si riapre il caso di Simonetta Cesaroni, uccisa con 29 coltellate il 7 agosto del 1990 in via Poma a Roma.

Da alcuni giorni, infatti, i pm di piazzale Clodio avrebbero avviato un nuovo procedimento ascoltando una serie di testimoni, tra cui l’allora dirigente della Squadra Mobile, Antonio Del Greco

Tra gli inquirenti la cautela è massima ma secondo quanto scrive il quotidiano Il Foglio le nuove indagini riguarderebbero un sospettato che già all’epoca dei fatti finì nel mirino degli investigatori. Il suo alibi, a distanza di oltre trent’anni, potrebbe essere smentito da nuovi elementi che verranno raccolti dai magistrati per cercare di dare una identità a chi quel pomeriggio si accanì sul corpo di Simonetta. I legali della famiglia Cesaroni al momento non commentano il nuovo sviluppo giudiziario mentre dal canto suo l’avvocato Paolo Loria, difensore di Raniero Busco, ex fidanzato di Simonetta Cesaroni e assolto in via definitiva dall’accusa di omicidio, non nasconde la sua “soddisfazione”.

“Forse si arriverà al bandolo di questa matassa – afferma – e si riuscirà a trovare il vero colpevole e liberare dal sospetto, che dura da 30 anni, una serie di personaggi assolutamente innocenti. Sento periodicamente Busco, sta superando lentamente questo trauma”, aggiunge il penalista. Sull’omicidio della ventenne romana la parola fine sembra essere arrivata nel febbraio del 2014 con la decisione della Cassazione che confermò l’assoluzione dell’ex fidanzato. Contro di lui non furono trovate prove in grado di accusarlo “oltre ogni ragionevole dubbio” di essere l’assassino. Anzi, gli elementi che in primo grado portarono alla sua condanna a 24 anni di carcere, per i giudici della Suprema Corte erano da considerare solo delle “congetture”.

Nelle motivazioni di quella decisione la Cassazione mise in fila tutti i tasselli di uno dei più noti casi irrisolti della cronaca nera, dopo le archiviazioni dei procedimenti a carico del portiere dello stabile Pietrino Vanacore (morto suicida) e di Federico Valle. Ad avviso degli ‘ermellini’ l’assoluzione di Busco emessa dalla Corte d’Assise d’appello di Roma il 27 aprile 2012, non è da mettere in discussione perche’ risponde alle regole della “congruità” e completezza della motivazione” ed ha una “manifesta logicità”. I giudici di piazza Cavour smontarono l’impianto accusatorio della Procura arrivando ad affermare che non si sa nulla di sicuro sulle “modalità e i tempi” dell’azione omicidiaria, sul “movente” dell’omicidio, e nulla autorizza a ritenere “falso” l’alibi di Busco. Non è nemmeno sicuro che l’ex fidanzato di Simonetta fosse in via Poma quel giorno, mentre è sicuro che ci sono state altre persone delle quali si è trovato il Dna “minoritario” sulla porta di ingresso della stanza dove si trovava Simonetta e sul telefono dell’ufficio.

I fatti risalgono ad una torrida giornata di agosto, Roma deserta. In uno stabile di via Poma, nel cuore del quartiere Prati, viene brutalmente assassinata Simonetta. Da quel giorno sono trascorsi 32 anni in cui investigatori, magistrati e forze dell’ordine hanno cercato di dare un nome e un volto alla persona che sferro’ le coltellate. Un dedalo infinito di ipotesi, di sospetti: una galleria di personaggi che si sono avvicendanti sotto la lente di ingrandimento degli inquirenti.

Il 7 agosto del 1990 nell’ufficio dell’Associazione alberghi della gioventu’ viene trovato il corpo della ragazza. Il cadavere e’ trovato per l’insistenza della sorella Paola, preoccupata per il suo ritardo. Simonetta e’ nuda, ma non ha subito violenza. Secondo l’autopsia e’ morta tra le 18 e le 18,30. Pochi giorni dopo, il 10 agosto, viene fermato dalla polizia, Pietrino Vanacore, uno dei portieri dello stabile. Su un suo pantalone vengono individuate alcune macchie di sangue ma non e’ di Simonetta. L’uomo viene scarcerato dal tribunale del Riesame il 30 agosto.

Gli inquirenti cercano sia nella cerchia di amicizie della ragazza, a cominciare dal fidanzato di allora, sia negli ambienti di lavoro. Il pm Pietro Catalani, dopo alcuni mesi di indagini, chiede l’archiviazione della posizione di Salvatore Volponi, datore di lavoro della Cesaroni. Il 26 aprile del 1991 il gip archivia gli atti riguardanti Pietrino Vanacore e altre cinque persone. Il fascicolo resta aperto contro ignoti.

Trascorre circa un anno, il 3 aprile del ’92 viene inviato un avviso di garanzia a Federico Valle, nipote dell’architetto Cesare Valle, che abita nel palazzo di via Poma e che la notte del delitto ha ospitato Vanacore. Valle viene tirato in ballo dalle dichiarazioni dell’austriaco Roland Voller, amico della madre di Valle, secondo il quale dai racconti della madre sarebbe emerso che il figlio torno’ sporco di sangue da via Poma. Il 16 giugno 1993 il gip proscioglie Valle per non aver commesso il fatto e Vanacore perche’ il fatto non sussiste.

L’indagine entra in una lunga fase di stallo. Nel settembre del 2006 vengono sottoposti ad analisi i calzini, il corpetto, il reggiseno e la borsa di Simonetta. Il colpo di scena arriva con i risultati delle analisi effettuate dai Ris: sugli indumenti della ragazza, grazie a sofisticate strumentazioni, vengono rilevate delle tracce di saliva dell’ex fidanzato Raniero Busco che nel settembre del 2007 viene iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di omicidio volontario. Gli investigatori, inoltre, prelevano l’impronta dell’arcata dentaria di Busco, al fine di confrontarla (attraverso le foto autoptiche del 1990) con il morso riscontrato sul seno di Simonetta: l’arcata dentaria di Busco s’integra con l’individuazione del suo Dna sul corpetto ed il reggiseno. Il 3 febbraio del 2010 inizia il processo a carico dell’ex ragazzo che vive anche di nuovi colpi di scena: il 9 marzo, a pochi giorni dalla sua prevista deposizione, si toglie la vita Pietro Vanacore. Giallo nel giallo di un omicidio che ha tenuto banco nella cronaca giudiziaria italiana per sei lustri. 

L’ultima vicenda giudiziaria risale al febbraio del 2014 con la pronuncia della Cassazione che ha confermato l’assoluzione per Busco, l’ex fidanzato dell’allora 21enne, che in primo grado era stato condannato a 24 anni di carcere. Verdetto ribaltato gia’ in appello.




SIMONETTA CESARONI: IL DELITTO DI VIA POMA E QUELLA PISTA NON BATTUTA

di Angelo Barraco

Roma – Il 7 agosto del 1990 a Roma si consuma uno degli omicidi più efferati mai avvenuti in Italia. L’omicidio di Via Poma.
E’ una storia nota a Tutti quella di Via Poma, ma analizzando bene le dinamiche dell’omicidio e i dettagli presenti sulla scena del crimine, bisogna riflettere sul fatto che sembrerebbe vi siano state delle omissioni e che non sarebbe stato tutto svolto secondo dei criteri investigativi ben precisi e identificabili poiché la dinamica dell’omicidio mette in luce una verità, una verità che non ha sfiorato le indagini ma che era sotto gli occhi degli inquirenti e che poteva, probabilmente, far risolvere il caso molto prima.  Ma andiamo per gradi ed analizziamo bene quel giorno.

Simonetta Cesaroni è una ragazza di 21 anni che lavora come segretaria presso l’A.I.A.G. in via Poma 2, quartiere Prati.
Quel giorno Simonetta si reca a lavoro prima delle 15.30.
Il portiere infatti dice agli inquirenti di non averla vista entrare poiché Vanacore iniziava il suo lavoro a quell’ora.

Da qui inizia il mistero, i dati certi che si hanno provengono da ciò che fa e stabiliscono approssimativamente fino a che ora Simonetta è rimasta in vita.
Alle 17.15 telefona ad una collega di d’ufficio per sapere alcuni dati, alle 17.25 la collega richiama Simonetta e le comunica i dati. Alle 18.30 Simonetta avrebbe dovuto chiamare il suo datore di lavoro, Volponi, ma non lo fa.

Passano le ore e la famiglia si allarma, la sorella Paola con il fidanzato Antonello vanno da Volponi e quest’ultimo dice di non sapere dove si trovano gli uffici. Volponi scende allora con il figlio e insieme a Paola ed Antonello si mettono alla ricerca dell’ufficio e riescono a trovarlo. Il cancello è chiuso, suonano ma nessuno apre, allora il figlio di Volponi scavalca il muro ed entra per aprire il cancello. Si dirigono allora tutti verso la portineria dove ad accogliere loro c’è la moglie di Vanacore che si mette sulla difensiva e dice di non avere le chiavi. Dopo essere saliti al terzo piano la signora tira fuori le chiavi e apre la porta.
Il primo ad entrare è Volponi e gli altri a seguito, Volponi ispeziona le due stanze illuminate ma non vede nulla, poi si dirige al buio in fondo nella stanza del direttore dell’A.I.A.G. e fa la macabra scoperta. 

SCENA DEL DELITTO:
Il corpo si presenta in posizione supina, il reggiseno abbassato sul torace, presenta 29 coltellate inferte, secondo analisi, da un tagliacarte, poiché il tagliacarte ha un corpo largo e la punta stretta e le ferite corrispondevano esattamente a questo tipo di arma. Il corpo presenta moltissime ferite concentrate sul viso, addome, torace, pube e anche una tumefazione nella parte destra del volto di Simonetta, il colpo che l’avrebbe stordita.
All’interno delle ferite non sono state trovate tracce di tessuto ergo è stata colpita da nuda.
Simonetta ha perso molto sangue, circa 3 litri, ma nella scena del crimine non vi è traccia poiché tutto si presenta pulito, eccetto le macchie di sangue trovate sulla porta e sui telefoni.
La finestra della stanza dove è stato rinvenuto il corpo di Simonetta ha le tapparelle abbassate, nella sua borsa mancano i suoi gioielli, le chiavi, segno che l’assassino aveva intenzione di ritornare presso quel luogo e i vestiti, nella sua borsa sono state trovate anche delle polaroid non sviluppate. Nel pianerottolo dell’appartamento sono stati trovati segni di ripulitura, come vi è stata ripulitura anche all’interno dell’appartamento da parte dell’assassino.

BREVE SINTESI DEGLI ACCUSATI E DELLE MOTIVAZIONI
L’indagine ha inizio con la verifica di chi c’era nella palazzina in quelle ore, e da quella verifica vengono individuate sette persone: Vanacore, la moglie, i loro figli e l’ingegner Cesare Valle. Vanacore, interrogato, dice di non aver visto e sentito nulla poiché si trovava a casa dell’ingegner Valle in quelle ore (faceva assistenza ad esso) e di non aver visto nessun estraneo entrare ed uscire, Vanacore però fa confusione, si contraddice, cade nel dubbio e dopo tre giorni dall’omicidio viene arrestato con l’accusa di essere l’assassino di Simonetta Cesaroni.
Gli elementi a suo carico sono: Le sue dichiarazioni confuse ed incerte, il fatto che avesse le chiavi di tutti gli appartamenti e, poiché nell’appartamento non vi era segno di effrazione, soltanto chi era in possesso delle chiavi poteva essere entrato ed uscito, Vanacore puliva spesso gli appartamenti dello stabile e visto che il pavimento del pianerottolo tre aveva chiari segni di ripulitura, come d’altronde l’appartamento dove è stato rinvenuto il corpo, ciò ha fatto presupporre logicamente che l’azione di Vanacore, poiché ordinaria, non fosse vista come un’azione sospetta. Non riusciva a fornire un alibi concreto, in più c’era un altro elemento a suo carico: delle macchie di sangue sui suoi pantaloni. A questo si aggiunge anche l’atteggiamento ostile che assume la moglie di Vanacore. In seguito vengono svolte indagini sulla vita di Vanacore e salta fuori che aveva avuto rapporti extraconiugali e da testimonianze ed intercettazioni salta fuori che la figlia era andata via di casa perché lui esercitava su di lei “attenzioni particolari”.
Il 30 agosto 1990 Pietrino Vanacore viene scarcerato per mancanza di indizi a suo carico.
Nel 2008 sono state effettuate indagini presso la casa di Monacizzo, dove l’uomo risiedeva con la moglie, tali rilievi non hanno portato a nulla e nel maggio 2009 la procura di Roma ha deciso di archiviare l'indagine. Il 9 marzo 2010 Pietrino Vanacore si suicida. Il portiere decide di levarsi la vita a distanza di poco tempo dalle scadenze processuali e dalla deposizione che avrebbe dovuto fare in tribunale.

Dopo Vanacore viene indagato Federico Valle, nipote dell’ingegner Cesare Valle. Roland Voller, un austriaco intrattiene, per un errore dovuto al suo apparecchio telefonico, un rapporto telefonico con una donna, questa donna è la madre di Federico Valle. Il 7 agosto 1990 alle 16.30 Voller e la signora si parlano al telefono e lei mostra forti preoccupazioni per i comportamenti del figlio, poiché è andato in Via Poma a trovare il nonno Cesare Valle, ma non torna.

La sera stessa i due si parlano, lei è preoccupata perché Federico è tornato a casa sporco di sangue e presenta un taglio sulla mano. Federico Valle viene accusato di omicidio perché, secondo l’accusa, ingelosito per una possibile relazione del padre con una segretaria, sia andato in escandescenza e l’abbia uccisa per tali ragioni. A tal proposito ritorna sulla scena delle accuse Vanacore che viene imputato per complicità poiché viene accusato di aver aiutato il giovane ad aver ripulito la scena. La Signora, madre di Federico Valle nega di conoscere quest’uomo, il padre di Federico nega di aver mai conosciuto Simonetta Cesaroni e gli esami comparativi del sangue di Federico rispetto la macchia di sangue sulla porta danno esito negativo.
Federico Valle viene scagionato e prosciolto da ogni accusa nel giugno 1993.

Roland Voller si rivelerà un truffatore e le informazioni che darà su Via Poma si riveleranno false.
Dopo Valle: nel 2005 viene prelevato il DNA a 30 persone e comparato con indumenti di Simonetta adoperando le nuove tecnologie. Nel 2007, 29 sospettati vengono scartati e i sospetti cadono su Raniero Busco (all’epoca fidanzato di Simonetta), perché il suo DNA combacia con le tracce di saliva trovata sul corpetto di Simonetta.
Durante il processo di primo grado Raniero viene condannato a 24 anni di reclusione e al pagamento delle spese processuali e del risarcimento, in separata sede, delle parti civili.
Sentenza di secondo grado: Raniero Busco viene assolto dall'accusa con formula piena.

Il 26 febbraio 2014 la Cassazione ha confermato l'assoluzione – che diventa definitiva – per Raniero Busco dall'accusa di aver ucciso Simonetta Cesaroni.
Quello al seno, che veniva considerato un morso ed era stato attribuito a Raniero, durante le indagini e le perizie, è stato smentito ed è stato appurato che in realtà era un taglio e non vi erano segni alcuni di arcata dentaria.

QUELLO CHE NON E’ STATO FATTO E CHE E’ STATO OMESSO.

Durante le indagini ci sono stati dei punti che sono stati omessi, o meglio dei dettagli.
Analizzando bene la scena del delitto è possibile notare che nella borsa di Simonetta vi erano contenuti dei rullini-polaroid. Quei rullini risalivano all’estate 1988, ovvero un’estate in cui Simonetta non era fidanzata con Raniero ma bensì con un tale Alessandro.
Che motivo avrebbe avuto Simonetta per portar dietro quei rullini?
Non ha nessun senso poiché nessuno porta con se vecchi rullini o vecchio materiale se non per darlo al diretto interessato, soprattutto se legato ad una sfera sentimentale.
Sono del parere che Simonetta avesse con se quei rullini perché quel giorno avrebbe dovuto incontrarsi con l’ex fidanzato, Alessandro, probabilmente per restituirli a lui. E se Alessandro fosse stato rifiutato e avesse perso la testa?  
L’ipotesi appena formulata, ripeto l’ipotesi, mostra chiaramente tanti punti fondamentali:
1: Simonetta ha aperto la porta a qualcuno che conosceva bene
2: Non aveva motivo alcuno di portare dietro quei rullini se non per darli alla persona a cui interessavano, Alessandro appunto, che aveva scattato quelle foto
3: Il corpo è stato aggredito secondo una dinamica confidenziale poiché non c’era disordine all’interno delle stanze e non vi era nulla fuori posto ergo Simonetta conosceva quella persona e non si aspettava quel gesto
4: Il modo in cui è stata denudata è un modo estremamente confidenziale, intimo, di qualcuno che quel gesto lo aveva già fatto e non di certo opera di qualcuno che uccide per rapinare o per violentare, infatti non è stata violentata
5: Simonetta è stata accoltellata per la maggiore al pube e agli occhi, come un gesto di sfregio alla sua sessualità e alla sua vista, come se qualcuno gli avesse voluto far pagare a lei la sessualità che lei ha negato all’altra persona e per quanto riguarda gli occhi, per non fargli vedere più nulla

Questa persona. Tale Alessandro non è mai stato indagato e non è mai stato sfiorato dalle indagini. Eppure sarebbe stato essenziale interrogarlo, almeno sarebbero potuti emergere scenari che adesso sono ben lontani dall’immaginario collettivo.
E se il suo agire non fosse stato solitario? Non si può non tornare a ricordare  il comportamento schivo della moglie di Vanacore all’arrivo dei familiari di Simonetta e al fatto che abbia negato di possedere le chiavi. Soltanto dopo, sotto insistenze, la consorte di Vanacore ha ceduto ed ha aperto.
Il pianerottolo come l’appartamento è stato pulito, e come ho già accennato poc’anzi, Vanacore spesso puliva gli appartamenti degli altri condomini nonché era anche in possesso delle chiavi di tutti gli altri appartamenti.
Il fatto che lui pulisse non destava sospetto ergo credo che non sia un azzardo ipotizzare che abbia potuto ripulire la scena del delitto: conosceva il palazzo e i frequentatori dello stesso e per di più  non poteva non essere a conoscenza che in quel periodo molti condomini non c’erano, di conseguenza maggiore sarebbe stata l’opportunità di agire indisturbati.

Non riesco a non includere Vanacore in un presunto coinvolgimento in questo caso. Un coinvolgimento non da attore principale, ma da personaggio “chiave”.
Nel processo Valle la sua posizione era stata centrata, ma probabilmente avevano sbagliato colpevole.




SIMONETTA CESARONI: NESSUNA PROVA CONTRO BUSCO

Redazione

Rimane un giallo l'omicidio di Simonetta Cesaroni. Non ci sarebbe nessuna prova regina che incastrerebbe Busco. Dal 7 agosto del 1990 ad oggi non si è arrivati al nome del colpevole che l'ha assassinata brutalemente in uno studio romano di via Poma. La Cassazione nelle 30 pagine delle motivazioni del proscioglimento di Raniero Busco, l'ex fidanzato della ragazza scrive: restano "punti oscuri" non spiegati e "niente affatto secondari: si pensi, tra di essi, al rinvenimento dell'agenda di Pietro Vanacore fra gli effetti personali della vittima repertati sul luogo del delitto". Sulla scena del delitto "diverse persone", sangue repertato. In un altro passaggio delle motivazioni della sentenza della Suprema corte si spiega che alla "incertezza" sulla presenza dell'imputato sul luogo del delitto quando Simonetta fu uccisa, "si accompagnano le tracce della presenza di persone diverse, il cui sangue era stato repertato". Tale incertezza, continua la Cassazione, non può "essere colmata in modo diverso: la Corte territoriale dimostra, infatti, che la ricostruzione adottata nella sentenza di primo grado è suggestiva, ma ampiamente congetturale in ordine a vari aspetti", come "l'effettuazione della telefonata da Simonetta Cesaroni a Busco all'ora di pranzo di quel giorno, il contenuto di tale telefonata, la conoscenza da parte di Busco del luogo dove la Cesaroni lavorava, la spontaneità della svestizione da parte della vittima, l'autore dell'opera di ripulitura della stanza, le modalità e i tempi di tale condotta, movente dell'omicidio, la falsità dell'alibi da parte dell'imputato". A carico di Raniero Busco non ci sono prove Non ci sono prove in grado di accusare Raniero Busco dell'omicidio di Simonetta Cesaroni, sottolineano i supremi giudici. Vi è una "mancanza di prova che fa cadere la certezza della presenza dell'imputato sul luogo del delitto al momento del delitto". In questo modo la prima sezione penale della Cassazione spiega perchè il 26 febbraio scorso, ha deciso di confermare l'assoluzione "per non aver commesso il fatto". Il morso sul seno di Simonetta attribuito a Busco è stato in primo grado considerato il segno che l'uomo sia stato sulla scena del delitto e il perno della condanna. Ora la Cassazione rileva che la tesi del morso era una delle ipotesi – non l'unica – e che ci sono due passaggi diversi – segni sul corpo di Simonetta compatibili con un morso ed eventuale morso attribuibile a Busco – entrambi "senza certezza di carattere scientifico". Infine la Suprema Corte ricorda che di questo non provato morso manca del tutto la traccia dei segni dell'arcata dentale "opponente" e la circostanza rende "evidente il pericolo di giungere a conclusioni abusive".  




DELITTO DI VIA POMA: VERITÀ NASCOSTE E BUCHI NERI SULLA VICENDA DI SIMONETTA CESARONI

di Cinzia Marchegiani

Una storia amara quella di Simonetta Cesaroni, che racchiude nel silenzio della sua morte una parte della vita che forse non si conoscerà mai…Il mostro che l’ha uccisa non è un serial killer e forse, il carnefice era seduto proprio nel banco degli imputati. Spesso, troppo spesso l’identikit dell’assassino non è mai estraneo all’ambiente della vittima, nella statistica fredda dei numeri è quasi sempre un familiare, un amico o un parente.

Questo enorme enigma ha lacerato le certezze sulla giustizia che dopo 24 lunghi anni ha solo partorito un sottofondo di inquietanti interrogativi e soprattutto sempre gli stessi. L’enigma mai risolto, dopo l’assoluzione dell’unico indagato, è riemerso con tutte le sue immense ombre che con forza condannano tutto l’iter processuale, che ad oggi è stato un grande flop. Una lettura attenta della degenerazione processuale e la mancanza di coraggio di condannare sbagli grossolani ha inglobato in una spirale sempre più grande tutto l’impianto accusatorio, per poi infrangersi e perdere forza, logica e credibilità..insomma si son sbagliati tutti. Il giallo è da archiviare? Forse si..forse no! L’omicidio brutale e senza pudore lascia macroscopici buchi, vistosi pecche e un errore giudiziario alla Enzo Tortora, dove l’imputato è stato condannato moralmente senza prove, prima di tutto dalla collettività che aveva necessità di avere tra le mani un nome e un volto del carnefice.

Tutto riconduce a Simonetta, la sua giovane vita si è trovata impigliata in qualcosa più grande e devastante che non ha saputo gestire…l’assassino quella scena l’ha depredata di indizi, quei pochi rimasti, sicuramente mal gestiti. Forse si è perso di vista che Simonetta era una giovane ragazza che aveva tra le amicizie un confidente, qualcuno con cui poter lasciare in sicurezza dettagli, sogni, sensazioni che non sono mai emersi, dettagli che forse avrebbero fatto la differenza, insomma un progetto in cantiere, un avance di troppo, sensazioni dette ad alta voce. Simonetta riposa nel cimitero di Genzano a due passi da Roma…qui la sua vita fino a poco ore prima del suo omicidio, era radicata, dove erano reali amicizie, tante conoscenze e soprattutto sogni nel cassetto di chi vede il futuro come una tela da dipingere…e ora le piste terminano in un vicolo cieco, un vicolo troppo spesso ripercorso ostinatamente: mancanze di idee, di logica, di investigazione? Il delitto di Via Poma racchiude troppi colpi di scena e forse la strada giusta che conduceva all’assassino è stata sbarrata con altre ipotesi…si solo ipotesi, e le poche tracce sono state mal curate, mal gestite, come se quelle mani responsabili delle 29 coltellate son riuscite a cancellare ogni cosa. Il fotoreporter di Repubblica visto cenare con Simonetta in un noto locale tra Albano e Genzano è esistito veramente? Perché non si è cercato il suo nome? L’omicida è quasi sempre un conoscente della vittima e il delitto di Via Poma nasconde troppi segreti che nessuno ha avuto mai accesso. Ad oggi si deve capire se in virtù delle indagini carenti, si può riaprire il caso, e quindi capire come si può ottenere prove fisiche di importante valore, poiché è una regola abbastanza nota in criminologia che le deposizioni raccolte a distante di troppo tempo perdono inevitabilmente valore…forse le tracce perse sono nascoste nella lettura attenta dei verbali, che potrebbero indicare nomi o addirittura prove scartate cui l’evoluzione tecnologica potrebbe riesaminare con nuove analisi strumentali. Ad oggi numerosi errori hanno espressamente partorito processi evanescenti che non dovevano neanche essere iniziati.

L’assassino voleva far sparire il corpo di Simonetta, perché quel luogo poteva associarlo alla suo identikit,e soprattutto i litri di sangue che Simonetta ha perso dopo 29 coltellate erano circa cinque litri, secondo la scientifica…ha impegnato fisicamente il suo assassino. Delitto di Via Poma, solo buchi neri ed errori macroscopici che anche Claudio Cesaroni, papà di Simonetta sempre più consapevole chiese al ministro della Giustizia di allora, Piero Fassino di far svolgere ai suoi ispettori un'inchiesta amministrativa per accertare se vi furono delle negligenze, delle mancanze, degli errori, da parte di chi indagò sulla morte di sua figlia.
Simonetta è vittima non solo del mostro che a sangue freddo ha pensato bene di cancellare le tracce che avrebbero portato gli inquirenti al suo indirizzo, ma di un colossale errore giudiziaro, dove l’evidente fallimento ha fato emergere l’incapacità di tessere ad arte le tracce nascoste nei verbali, nelle prove acquisite sul posto e soprattutto investigativa.

Tutto ha un origine, e la logica spesso è quella cui si fa poco riferimento…Simonetta d’altronde era una giovanissima ragazza e forse qualcuno conosce dettagli davvero preziosi. 

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Il monito del criminologo romano, Carmelo Lavorino sembra ora pesare come un macigno: “la guida necessaria e determinante che conduce un criminologo a tracce dell'assassino ci dicono di guardare laddove io ho guardato, dove il lettore mi ha seguito, dove la logica, l'analisi criminale e la scienza contro il crimine ci dicono di guardare, dove chi doveva guardare… non ha guardato e continua a non guardare!”

di Cinzia Marchegiani


Roma 7 Agosto 1990 – Il delitto di Simonetta Cesaroni è il Cold Case italiano per eccellenza. Il 7 agosto 1990, esattamente 24 anni fa, in un pomeriggio romano di agosto nel palazzo in Via Poma 2 veniva consumato un delitto che ancora oggi, dopo tanti processi, chiusure e aperture di indagini, non ha più neanche un indagato. Il 26 febbraio 2014, la sentenza della Cassazione ha confermato la sentenza della corte d’assise d’appello dell’aprile 2012 che aveva assolto Raniero Fusco, l’ex fidanzato. Ventiquattro anni e un’unica certezza, 29 coltellate inferte sul corpo della giovanissima donna e la scena del crimine nasconde ancora oggi il vero volto dell’assassino. Simonetta Cesaroni è stata trovata stesa nuda negli uffici della A.I.A.G. supina con le gambe divaricate e le braccia aperte, in posizione scomposta, la testa inclinata verso destra. Sul petto portava vistosi segni delle coltellate intrise di sangue. Altri colpi sono su giugulare, cuore, aorta, fegato e occhi. Le coppe del reggiseno, di tipo a balconcino di pizzo leggero fanno il seno con i capezzoli.

Su uno dei capezzoli c’è una ferita, che sembra un morso, che sarà la prova regina contro Raniero Busco che in primo grado era stato condannato a 24 anni di reclusione soprattutto sulla base di questo (presunto) morso e di una traccia di Dna (saliva o sudore) trovata sul reggiseno della vittima. Ma la traccia è databile, infatti Busco potrebbe averla lasciata in qualsiasi momento.

Solo la perizia chiesta dai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Roma, depositata dai superperiti Corrado Cipolla D’Abruzzo, Carlo Previderé e Paolo Fattorini chiarirà che il morso era un edema da pizzicotto. Nella porta d’ingresso della stanza del delitto viene ritrovato del sangue sulla maniglia. Il sangue analizzato dirà che appartiene ad un uomo. Nelle altre stanze non vi sono tracce di colluttazione, tutto è ordinato e non c’è alcun segno che possa far pensare che il corpo sia stato trascinato dove si trova. Gli inquirenti credono che nella stanza dove Simonetta viene trovata, si sia consumato il delitto. Viene comunque rilevata una minima traccia di sangue anche nella stanza di Simonetta, sulla tastiera del telefono. Sempre nella stanza di Simonetta, viene rinvenuto anche un appunto, su un pezzo di carta, dove si legge “CE” vicino ad un pupazzetto a forma di margherita e in basso a destra, “DEAD OK”. A lungo si speculerà su questo disegno e sul suo significato finché il programma televisivo "Chi l'ha visto?" rivelerà, nell'ottobre 2008, che a fare quel disegno e a scrivere la frase DEAD OK fu uno degli agenti di polizia che intervennero la notte del 7 agosto in via Poma, dopo aver disegnato e scritto sul foglio, l'agente dimenticò il pezzo di carta sulla scrivania dove c'era il computer da lavoro di Simonetta. I portieri degli stabili che dalle 16.00 alle 20.00 si riuniscono nel cortile a parlare e mangiare cocomero, riferiranno tutti concordi agli inquirenti che non hanno visto entrare nessuno dall’ingresso principale in quell’orario. Ma con Simonetta qualcuno c’era. Secondo le ricostruzioni degli inquirenti, con ogni probabilità un uomo è negli uffici A.I.A.G. ed è pericoloso, perché Simonetta gli sfugge, dalla stanza a destra dove lavora, fino a quella opposta a sinistra, dove verrà ritrovata. Qui viene immobilizzata a terra, qualcuno è in ginocchio sopra di lei e le preme i fianchi con le ginocchia con tanta forza che le lascerà degli ematomi. La colpisce con un oggetto, oppure le sbatte la testa violentemente a terra, ad ogni modo per via di questo trauma cranico Simonetta sviene. A questo punto l’assassino prende un tagliacarte e inizia a pugnalarla a ripetizione. Saranno quei 29 colpi inferti, di circa 11 centimetri ciascuno di profondità. Sei sono i colpi inferti al viso, all’altezza del sopracciglio destro, nell’occhio e poi nell’occhio sinistro. Otto lungo tutto il corpo, sul seno e sul ventre, quattordici dal basso ventre al pube, ai lati dei genitali, sopra e sotto, colpi che decreteranno una morte violenta e senza ancora la scoperta del movente. Alcuni abiti di Simonetta, fuseax sportivi blu, la giacca e gli slip vengono portati via assieme a molti effetti personali che non saranno mai ritrovati, tra cui gioielli d’oro, gli orecchini, un anello, un bracciale e un girocollo, mentre l’orologio le viene lasciato al polso. Lasciata nuda, con il reggiseno allacciato, ma calato verso il basso, con i seni scoperti, il top appoggiato sul ventre a coprire le ferite più gravi, quelle mortali. Porta addosso ancora i calzini bianchi corti, mentre le scarpe da ginnastica sono riposte ordinatamente vicino alla porta. Le chiavi dell’ufficio, che aveva nella borsa non vengono trovate. Una storia ricca di colpi di scena, di svariati presunti colpevoli, non mancherà neanche la pista dei servizi segreti oltre la trama con la “banda della magliana”. Un giallo irrisolto dove i molti volti hanno dato forma ad tante storie parallele, che innegabilmente hanno tenuto col fiato sospeso l’immaginario collettivo che ancora oggi, ricorda come un flash indelebile quelle foto di Simonetta pubblicate in prima pagina sui giornali nazionali che la ritraevano in spiaggia con i capelli lunghi e neri e quel semplice costume bianco che sottolineava la sua bellezza. Le indagini di questo delitto partirono il giorno successivo, era la mattina dell’8 agosto 1990 la polizia svegliava tutti gli occupanti dello stabile di via Poma 2. Sono interrogati i portieri che assieme ai loro famigliari sostengono di essere rimasti attorno alla vasca del cortile per tutto il pomeriggio del 7 agosto, dalle 16.00 alle 20.00. Stando a ciò che dicono, l'assassino non può essere entrato nella scala B senza essere stato visto. I poliziotti setacciano l’intero palazzo alla ricerca degli indumenti che mancano a Simonetta, ma non trovano niente. Gli investigatori ricostruiscono i fatti.

Dalle testimonianze si deduce che Simonetta è sola il 7 agosto 1990. La sorella l’ha lasciata alla metropolitana, lei è andata in ufficio come programmato, nessuno è stato visto entrare nella scala B e l’ultimo contatto risale alle 17.35 per la telefonata di lavoro. Da ciò che gli psicologi della polizia hanno constatato sulla scena del delitto, l’assassino presumibilmente avrebbe tentato di violentarla, ma all’atto non è riuscito ad avere un’erezione e in questo status di frustrazione ha sfogato con colpi violenti la sua ira. Resosi conto dell’accaduto, ha tentato di pulire tutto, riordinare l’ufficio e far sparire il corpo. Qualcosa o qualcuno lo hanno interrotto. Dalle voci raccolte dalla polizia, Pietrino Vanacore non era con tutti gli altri portieri giù nel cortile nell’orario che va dalle 17.30 alle 18.30, cioè l’orario in cui Simonetta è stata uccisa. C’è uno scontrino sospetto, Vanacore ha comprato dal ferramenta, alle 17.25 un frullino. È testimoniato che alle 22.30 Vanacore si è diretto a casa dell’anziano architetto Cesare Valle, che si trova più su dell’ufficio incriminato, per fornirgli assistenza. Cesare Valle però dichiara che il portiere è arrivato a casa sua alle 23.00. Questa mezz’ora di intervallo tra le due testimonianze porta gli investigatori a sospettare del portiere cinquantottenne. In un paio di suoi calzoni vengono trovate macchie di sangue. Nella scala B il pomeriggio del 7 agosto 1990 ci sono solo due persone, Cesare Valle e Simonetta Cesaroni. Nessun estraneo è stato visto entrare. Vanacore, il portiere dello stabile B, si assenta dalle 17.30 alle 18.30, orario dell'omicidio. Questa per gli inquirenti è la soluzione del caso. Pietrino Vanacore passa 26 giorni in carcere, poi il suo avvocato convincerà i giudici a farlo uscire. Ad un esame approfondito, le tracce di sangue sui pantaloni risultano essere dello stesso Vanacore, che soffre di emorroidi. Inoltre viene sostenuta la tesi che chiunque abbia pulito il sangue di Simonetta si sia sporcato gli abiti dello stesso.

E poiché Vanacore ha indossato gli stessi abiti per tre giorni di fila – dal 6 agosto all'8 agosto 1990 – ed essi sono esenti del sangue di Simonetta, allora non può essere stato lui. Le circostanze assai sospette lo fanno rimanere comunque l’obiettivo numero uno della polizia, ma accertamenti sul DNA del sangue ritrovato sulla maniglia della porta della stanza dove è stato rinvenuto il corpo, scagioneranno ulteriormente Pietrino Vanacore. Il 26 maggio 2009 viene archiviata una indagine della Procura di Roma a carico di Pietrino Vanacore: i pm della Capitale avevano infatti supposto che qualcuno poteva essersi introdotto nell'appartamento del delitto Cesaroni (ad omicidio già avvenuto e dopo la fuga dell'assassino), inquinando inconsapevolmente la scena del crimine. I magistrati avevano aperto quindi un fascicolo su Vanacore, e il 20 ottobre 2008 avevano disposto una perquisizione domiciliare nella sua casa pugliese di Monacizzo (Taranto), alla ricerca di una sua agenda telefonica del 1990. Ma la perquisizione non aveva portato a nessun risultato. 20 anni di distanza dal delitto Cesaroni, il 9 marzo 2010 in tanti ricordano l’annuncio sui tg nazionali del ritrovamento del cadavere in mare di Pietrino Vanacore, si è legato ad un albero per una caviglia e si è gettato in acqua in località Torre Ovo, vicino Torricella, dove viveva da anni.

Vanacore lasciò una scritta su un cartello: "20 anni di sofferenze e di sospetti ti portano al suicidio" e solo tre giorni dopo, il 12 marzo 2010 avrebbe dovuto deporre all'udienza del processo per l'omicidio di Elisabetta in cui compariva come unico indagato l'ex fidanzato Raniero Busco. Secondo il legale di Raniero Busco: "La morte di Vanacore è troppo vicina alla scadenza processuale per non essere collegata. E sicuramente lui non se l'è sentita di testimoniare. Lui ha vissuto con rimorso sulla coscienza questa storia, e non perché lui fosse l'autore dell'omicidio, ma perché sapeva chi fosse il vero colpevole. Evidentemente, però, non poteva parlare neanche a distanza di anni. Non se l'è sentita, insomma, di affrontare i giudici, gli avvocati e la testimonianza in aula". L'8 marzo 2011, dopo un anno di indagini, il sostituto Procuratore di Taranto Maurizio Carbone ha deciso di archiviare il fascicolo d'inchiesta (a carico di ignoti) sull'ipotesi di reato di aiuto e istigazione al suicidio in riferimento alla morte di Pietrino Vanacore, che si tolse la vita il 9 marzo 2010. L'inchiesta ha stabilito che Vanacore si uccise di sua spontanea volontà e che lo fece perché non sopportava più l'invadenza del caso di via Poma nella sua vita privata.
In quest’estate che sta per finire, a distanza di 24 anni, lo scorso  7 agosto 2014 è stato un anniversario ancora più amaro del solito, si piange la morte di una giovane donna, si ricorda un ferrato omicidio e i volti dei tanti personaggi che hanno contribuito alla costruzione del Cold Case italiano più imbarazzante, inquietante che lascia impunito il colpevole. Raniero Busco viene finalmente assolto perché non ci sono prove, restituendogli solo cicatrici profonde che rappresentano il fallimento reale delle indagini ma anche dei troppi errori dei processi ora sotto una grande lente d’ingrandimento. Criminologi e scrittori hanno contribuito con i propri studi e analisi alla ricostruzione di quella giornata dove uno o più persone che vivevano o frequentavano quei posti, ha consumato il barbaro omicidio e provando a nascondere le prove del delitto. Igor Patruno, nel libro “Via Poma La ragazza con l’ombrello rosa” ripercorre le varie fasi dell’inchiesta e i maniera analitica e scevra dalla necessità di trovare forzatamente il colpevole, analizza aspetti poco chiari e sottovalutati. Patruno ricorda il lavoro importante di Carmelo Lavorino, criminologo che ha seguito questo caso: “Conosco Carmelo Lavorino per averlo incontrato sia in alcuni programmi televisivi dedicati alla vicenda dell'omicidio di via Poma, sia nell'aula bunker di Rebibbia, dove si è tenuto il processo a Raniero Busco.

Come me, lui alla colpevolezza dell'ex fidanzato di Simonetta Cesaroni non ci ha mai creduto e in questi anni ha continuato a ragionare e ad indagare sul delitto con gli strumenti della sua professione, ovvero con gli strumenti del criminologo. Lavorino ha da poco pubblicato la seconda edizione di un libro “ Il delitto di via Poma, sulle tracce dell'assassino”, una seconda edizione che è in realtà molto diversa dalla prima. Il libro del criminologo romano va letto perché le domande che pone aprono un vero e proprio squarcio su uno scenario inedito che varrebbe la pena approfondire. Nell'ultimo capitolo del libro nel quale Lavorino sintetizza il senso del suo approccio e rilancia le sue domande, rimanda responsabilità ora da chiarire sulle indagini: “….e in più c'è la presenza silenziosa, incombente e passiva del ‘convitato di pietra’ Pietrino Vanacore, che sempre e comunque sovrasta e pervade ogni cosa. L'impianto accusatorio contro Raniero Busco non regge, è basa¬to su elementi incerti, improbabili, se non addirittura impossibili. Nemmeno regge che Busco sia l'assassino e sia fuggito lasciando la porta aperta, né regge che Vanacore sia passato per caso (ma come si fa a passare per caso al terzo piano di un palazzo quando è molto più semplice e logico usare l'ascensore?), abbia scoperto il corpo e avvisato i ‘compagni di merende’ che suoi compagni non erano, o la "cricca" che con lui aveva ben poco da spartire. Il processo a Raniero Busco non è che un piccolo segmento dell'enorme, ingarbugliata e complicata matassa di questo smi¬surato intrigo. Tuttavia, potrà servire a far luce sul mistero di Via Poma se si inquadrerà in modo deciso e risoluto, senza com¬promessi e false saccenterie, il buco nero dei silenzi e dei vuoti dell'AIAG, così come viene suggerito in questo libro e come vuole il ‘comune senso delle cose e della logica’. Il depistaggio, la messinscena, le alterazioni e le omissioni ci sono state: occorre decriptarle e sistemizzarle razionalmente, comprendere il cui prodest, chi aveva le caratteristiche di conoscenza, opportunità e capacità per attuarle. Certo è che l'assassino è un territoriale ambientale dell'ufficio dove lavorava Simonetta, che l'assassino ha usato la mano sinistra per colpire la tempia di Simonetta per poi trafiggerla, che l'omicidio è avvenuto prima delle 16.30, che più persone hanno depistato le indagini e distrutto le prove, che la filiera delle quattro telefonate ne presenta almeno due che sono abili frutti del grande bluff, che vi sono stati almeno trenta grossi errori investigativi, che le considerazioni e le osservazioni sulla scena del crimine, sulla cronologia degli eventi e sul profilo criminale enunciate in questo libro devono essere valutate con scienza e coscienza, definite e sistemizzate anche con la logica giudiziaria. Il caso di Via Poma può essere ancora risolto perché esistono tracce situazionali e di comportamenti tali da poter incastrare il soggetto ignoto e la sua ‘cricca’ di abili depistatori… anche se sono stati commessi numerosi errori investigativi, metodologici, ideologici e procedurali.”

Il monito di Carmelo Lavorino sembra ora pesare come un macigno: “la guida necessaria e determinante che conduce un criminologo a tracce dell'assassino ci dicono di guardare laddove io ho guardato, dove il lettore mi ha seguito, dove la logica, l'analisi criminale e la scienza contro il crimine ci dicono di guardare, dove chi doveva guardare… non ha guardato e continua a non guardare!”