Albano Laziale, Centro Psicologia Castelli Romani: le abilità narrative

 

Il bambino già in età prescolare vive uno sviluppo delle capacità conversazionali, che rappresentano la base necessaria per lo sviluppo secondario delle abilità narrative. Tuttavia, le prime  differiscono dalle seconde soprattutto perché nella conversazione ci sono almeno due interlocutori e spesso il contenuto è più limitato e tendenzialmente concreto e contestualizzato; nella narrazione invece il piano risulta spesso più astratto e richiede un’organizzazione linguistica più complessa. Semplificando, dunque, una narrazione “funzionale” generalmente richiede tre elementi: l’evento iniziale, l’azione (del protagonista) e le conseguenze (la conclusione).
A 4 anni le strutture narrative consistono in liste di azioni temporalmente disorganizzate e tendenzialmente molto corte, spesso infatti il bambino riporta solo l’azione principale del racconto e al limite la conclusione; a 5 anni invece emergono sequenze di eventi più organizzate che però si interrompono e non risultano del tutto complete; dai 6 anni infine il bambino riesce ad organizzare e raccontare una storia, quindi una sequenza di dati, eventi e informazioni, in modo completo, dall’inizio fino alla conclusione.
Le capacità di narrazione sono particolarmente complesse e sottostanno alla costruzione di “discorsi”, all’inizio verbali, ma destinati nel periodo scolare non solo a diventare testi scritti, ma anche prerequisito per le abilità di esposizione orale di quanto studiato. In effetti, sono un prerequisito spesso sottovalutato ma in realtà basilare per i successivi apprendimenti.
Per tali ragioni, quando non si riscontrano queste caratteristiche evolutive, ma si identifica un racconto da parte del bambino non coeso, incomprensibile, caotico e disorganizzato da un punto di vista logico, linguistico e temporale, è bene che ci sia un approfondimento specialistico che possa identificare la reale problematicità della situazione.

Oltre ad eventuali interventi specialistici, come quello logopedico, che possano essere intrapresi ove ritenuti necessari, è possibile attuare anche nel contesto familiare attività che arricchiscano e potenzino tali abilità:
1) Cercare di arricchire il più possibile il lessico del bambino
2) Raccontare storie o semplici sequenze di azioni, con libri illustrati, in cui il
bambino dovrà ascoltare e guardare le immagini, sfruttando enunciati
chiari, semplici, che possano divenire per il bambino un modello
“ripetibile”
3) Rendere partecipe il bambino rispetto alle storie che gli leggiamo
facendogli domande sui contenuti, spronandolo ad identificare emozioni
dei personaggi, fino ad indurlo a fare ipotesi su contenuti non esplicitati o
anticipare ad esempio il finale.
4) Inventare storie sulla base di immagini o dati che gli presentiamo,(la
complessità degli stimoli dipenderà anche dall’età del bambino stesso)
Ultima considerazione riguarda l’ambiente in cui è inserito e vive il bambino:
quando ci si relaziona col piccolo, nel contesto di conversazione, gioco o
racconti di libri e storie, è bene che non vi siano altri “distrattori” come tablet,
radio, tv accesi o rumori ambientali non funzionali alla stimolazione e
all’apprendimento.

Dott.ssa in Logopedia Chiara Marianecci
3497296063
Chiara.marianecci@hotmail.it




Albano Laziale, Centro Psicologia Castelli Romani: a che gioco giochiamo?

 

A cura della Dott.ssa Cristina Monaco

ALBANO LAZIALE (RM) – “I giochi dei bambini non sono giochi e bisogna considerarli come le loro azioni più serie”
(Michel de Montaigne)


Perché è importante giocare? Ma soprattutto, con cosa devo far giocare il mio bambino? Queste sono domande comuni che tanti si pongono quando entrano in relazione con un bambino, soprattutto se molto piccolo.
Con questo articolo propongo un viaggio nello sviluppo del gioco del bambino, analizzando le fasi evolutive e le necessità che lo caratterizzano, ma soprattutto cercherò di focalizzare l’attenzione su quanto il gioco sia collegato e come sostenga il maturarsi delle altre competenze del bambino, come le capacità motorie e il linguaggio. Sostenendo una capacità infatti stiamo garantendo il corretto sviluppo delle altre, e quindi uno sviluppo armonico di tutte le competenze.
Cosa è il Gioco?
Il gioco è parte centrale dello sviluppo psicomotorio del bambino ed assume un diverso significato nel corso della maturazione del senso di Sé, dell’indipendenza, delle abilità sociali e della creatività individuale.
Mediante il gioco il bambino sperimenta il rapporto con le persone, arricchisce la memoria, allena la concentrazione, studia cause ed effetti, riflette sui problemi, impara a controllare le emozioni, conosce la realtà circostante e arricchisce il vocabolario (Sheridan M,1984).
Tutto ciò si traduce nello sviluppo della personalità e nella realizzazione del bambino stesso.
Grazie al gioco il bambino potrà sviluppare una corretta coordinazione motoria e amplierà, grazie all’imitazione e alla sperimentazione, le possibilità di comunicare (giocare con l’altro) ed inserirsi in contesti sociali. Cercherà di creare Relazioni (con l’altro, con se stessi, con gli oggetti) ed esplorare il proprio corpo e le proprie capacità di agire.


Lo Sviluppo del Gioco

Nei primi due mesi non possiamo parlare di alcuna attività di gioco, poiché i movimenti scaturiscono principalmente da meccanismi riflessi innati.
Successivamente, già dal II mese il bambino esercita dei movimenti che producono piacere (inizia il gioco di tipo “motorio”).
Nei mesi successivi aumenta l’interesse per il proprio corpo e il bambino inizia a "giocare" muovendo di più la testa, le gambe, le braccia e le mani; aumentano le vocalizzazioni e compare il sorriso sociale.
Comincia una graduale partecipazione alle attività relazionali con i familiari, con particolare interesse per le persone e i visi: il bambino in questa fase osserva, ascolta, dà segnali di piacere (sorriso sociale e riso) quando si interagisce con lui. Aumentano le vocalizzazioni ripetitive: i bambini giocano con la capacità di produrre, differenziare e ripetere suoni.


Con cosa Giochiamo a 2-3 mesi?
Il principale interesse per i bambini di questa età sono le PERSONE che si prendono cura di loro (caregivers), i quali costituiscono importanti fonti di interesse, di gioco e di apprendimento, specialmente attraverso il GIOCO di ACCUDIMENTO quotidiano (routines: che comprendono l’allattamento, lo stare in braccio, chiacchierate a quattrocchi, filastrocche, cullare, massaggiare, bagnetto ecc.).
Altro fondamentale strumento ludico diventa il proprio CORPO, tutto da scoprire, in particolare la loro attenzione si focalizza sulle mani che possono guardare, mettere in bocca e succhiare.
Di cosa non hanno particolarmente bisogno in questo momento evolutivo? Di essere lasciati soli con dei giocattoli sonori o particolarmente grandi e pesanti, difficili da maneggiare. In questa fase il bambino non è particolarmente pronto ad usare GIOCATTOLI soprattutto meccanici, né Televisione nè Tablet. I giocattoli possono essere utili esclusivamente se animati o condivisi da mamma e papà in un momento di gioco.
Successivamente, nel periodo che intercorre tra i 3 e i 6 mesi del bambino, entriamo in una fase caratterizzata da un gioco maggiormente “attivo”, grazie a tutte le competenze motorie che il piccolo ha acquisito nell’ultimo periodo (sollevamento della testa dal piano, rotolamento sul pavimento e manipolazione dei piedi in posizione supina). Emerge l’interesse per gli oggetti, che cominciano ad essere afferrati con entrambe le mani e portati alla bocca per esplorarli e che migliorano la capacità di manipolazione degli oggetti (miglioramento della coordinazione occhio mano).
 

Con cosa Giochiamo intorno ai 3-6 Mesi?
Le persone che si prendono cura di del bambino costituiscono ancora il suo principale punto di riferimento, e continuano ad avere un ruolo importante nei momenti di gioco e nelle sue interazioni quotidiane soprattutto perché adesso con le vocalizzazioni si possono creare situazioni di ludiche condivise con loro (interazione VISO A VISO) e dare vita a piccole conversazioni (proto-conversazioni) che saranno importantissime per lo sviluppo del linguaggio. E’ fondamentale il dialogo tra madre e bambino basato sull’alternanza di turno, in una sequenza ben definita di sorrisi e vocalizzi, che andranno a costituire le basi di una conversazione consapevole più matura. Tra i 3 e i 6 mesi i giocattoli piccoli adatti ad essere afferrati, maneggiati e messi in bocca (piccoli, leggeri, con presa facile, lavabili) sono consigliati soprattutto se posti a portata di mano (non distanti o legati) poiché facilitano lo sviluppo dell’esplorazione e della coordinazione occhio-mano.
Grazie alle nuove abilità motorie acquisite in questa fascia di età (scalciare, rotolare, strisciare, talvolta riescono a rimanere seduti autonomamente) viene consigliato di lasciare giocare il bambino sopra una COPERTA o sul pavimento per permettergli di migliorare negli spostamenti e nella manipolazione degli oggetti.
Avvicinandosi il periodo che intercorre tra i 6 e i 10-12 mesi, la centralità dell’interesse del bambino si comincia a spostare gradualmente dalle persone verso l’oggetto e contemporaneamente cominciano i primissimi giochi sociali.
Da cosa è caratterizzata questa fase? Dalla ripetizione di piccoli gesti e dall’imitazione di ciò che il bambino vede e sente accadere intorno a lui. Inoltre adesso le nuove competenze motorie (stare seduti da soli, gattonare, stare in piedi e camminare) facilitano l’arricchimento del gioco del piccolo.
 

A cosa giochiamo tra i 6 e i 12 mesi?
In questo momento evolutivo abbiamo bisogno di giocattoli, ma soprattutto di oggetti di uso quotidiano, semplici e di vario materiale, che si possano esplorare con tutti e cinque i sensi, e che ricordino al bambino come essi vengono usati dalle persone che sono intorno a lui e che egli costantemente osserva, così da poter riproporre il loro corretto utilizzo durante il gioco. Adesso si possono proporre anche dei giocattoli che si muovono o che possono essere tirati mentre il bambino si muove, oppure si possono mostrare dei libretti morbidi da condividere con mamma e papà. I giocattoli "causa-effetto" (sonori, accattivanti) sono molto stimolanti per il bambino in questo momento.
Tutti questi oggetti proposti sono molto importanti per la crescita del bambino ma assumono un ruolo ancora più importante se vengono condivisi con i genitori.
 

CON COSA EVITIAMO DI GIOCARE?
Il Box ed il Girello, perché troppo poco stimolanti e limitativi per il bambino in questa fase di crescita; inoltre non sostengono adeguatamente l’acquisizione delle competenze motorie che devono ancora maturare completamente.
Evitiamo di proporre ai nostri bambini troppi giocattoli tutti insieme, perché non permettono un'esplorazione prolungata sul singolo e invogliano a cambiare continuamente gioco, non soffermandosi su alcuno di essi. Bisogna evitare giocattoli che contengono oggetti di piccole dimensioni e piccole parti, perché l’esplorazione orale degli oggetti sta diminuendo ma è ancora presente.
Superando i 12 mesi e la manipolazione funzionale dell’oggetto (usiamo gli oggetti come li usano i grandi, ad esempio il bicchiere per bere), adesso il bambino comincia ad manipolare ed esplorare anche più oggetti insieme: agisce su più oggetti contemporaneamente e cerca di comprenderne funzionamento e relazioni (ad esempio battere, strofinare, sovrapporre due oggetti fra loro).
Aumenta l’interesse per giocattoli complessi che sostengono la manipolazione e le funzioni cognitive (incastri geometrici tridimensionali e costruzioni), per giochi "causa-effetto" (costruire, disfare, indicare e nominare), per libri con azioni familiari (mangiare, dormire, giocare) che può cominciare ad associare al suo vissuto, e per filastrocche che espongono il bambino alla ritmicità.
 

CONCLUSIONI
Ricapitolando, nel primo anno di vita l’attività di gioco del bambino è di tipo prevalentemente motorio, concentrata sulla ricerca di sensazioni piacevoli e sulla conoscenza del mondo che lo circonda (Esplorazione). In particolare in questo periodo attraverso tale attività, il bambino sperimenta un gioco finalizzato alla ricerca di sensazioni che arricchiscano il «SE» che si sta strutturando anche grazie al gioco di interazione con i caregivers.
Successivamente, superando i 18 mesi e avvicinandoci ai 24 mesi il gioco cambia forma, e la centralità d’interesse passa totalmente dalle persone all’utilizzo dell’oggetto.
Precedentemente il bambino utilizzava un oggetto assegnandogli una funzione simbolica, ma l’oggetto doveva essere realisticamente simile alle sembianze dell’oggetto da rappresentare (sostituti simili nella forma o nella funzione, ad esempio un bastoncino può essere usato come un cucchiaio).
Avvicinandosi ai 24 mesi gli oggetti non hanno più bisogno di una connotazione per forma o per funzione al fine di simboleggiare l’oggetto da rappresentare (una chiave può rappresentare ed essere utilizzata come un telefono).
Le madri partecipano al gioco sia dando suggerimenti sia agendo in prima persona attraverso il gioco della finzione, che il bambino può osservare e imitare.
Vengono così poste le fondamenta di un gioco più maturo basato sull’astrazione, il GIOCO SIMBOLICO, che approfondiremo successivamente.

BIBLIOGRAFIA
 Baumgartener E., «il gioco dei bambini», ed. Carocci, Roma,2004
 Brazelton T.B., «Il bambino da 0 a 3 anni», Ed. Fabbri, Milano,2003
 Sheridan M., «il gioco del bambino, Ed. Raffaello Cortina, Milano, 1984
 Sheridan M., «Dalla nascita ai 5 anni», Ed. Raffaello Cortina, Milano, 2009
 Dépliant, « A che gioco giochiamo», Ospedale Pediatrico A. Meyer, centro Brazelton.
 Dépliant, «Giocando si impara», fondazione Pierfranco e Luisa Mariani, Neurologia Infantile, Milano, 2008.

 

Dott.ssa Cristina Monaco – Centro psicologia Castelli Romani

piazza Pia 21 00041 ALBANO LAZIALE

 




Albano Laziale, Centro Psicologia Castelli Romani: la balbulzie nel bambino

 

A cura della Dott.ssa Francesca Bertucci, Psicologa-Psicodiagnosta dell’età evolutiva- Mediatore familiare

 

 

ALBANO LAZIALE (RM) – La balbuzie è un disturbo del linguaggio caratterizzato dalla fluenza interrotta e da involontarie ripetizioni e prolungamenti di suoni, sillabe, parole o frasi, con frequenti pause o blocchi in cui la persona che balbetta non è in grado di esprimere verbalmente un pensiero o un concetto nonostante lo abbia già formulato mentalmente.
Nell’ambito di questo disturbo è stato rilevato che i trattamenti sono molto efficaci e tendono a far scomparire il disturbo, il problema sta nel mantenere tale risultato nel tempo. Infatti, il bambino che presenta la balbuzie, presenta anche altre difficoltà: è testardo, tende ad evitare le difficoltà, invece di affrontarle; ha una bassa autostima; non esprime le emozioni, tende ad avere pensieri negativi; è perfezionista; ha difficoltà nei rapporti interpersonali. 

Quali sono i fattori di rischio?

La storia familiare: sono ad alto rischio i bambini di nuclei familiari che presentano casi di balbuzie;

Il ritardo di inizio del linguaggio, soprattutto nei maschi

La personalità dei genitori: elevati livelli di ansia, moduli comportamentali rigidi e perfezionisti

Aspettative e atteggiamenti svalutativi dei genitori nei confronti del bambino

Il bilinguismo: è opportuno insegnare la nuova lingua al bambino quando ha già acquisito abbastanza bene la prima
Il trattamento


Alla terapia foniatrica è sempre opportuno associare un sostegno psicologico del bambino, alternato a delle sedute con i genitori, se ha più di sei anni, altrimenti si consiglia un sostegno psicologico solo per i genitori, con l’obiettivo di dare indicazione sugli atteggiamenti positivi per prevenire o gestire il disturbo. La terapia con il bambino ha diverse fasi: esercizi di respirazione e applicazione del time-out; terapia assertiva adattata all’età e miglioramento dell’autostima.
Il difficile ruolo del genitore
Il genitore è un essere umano e può avere dei limiti, senza per questo si deve sentire in colpa. Quando una persona diventa genitore, inizia ad assumere un ruolo in cui non dimostra le sue emozioni, essendo un modello per il figlio e, in questo modo gli trasmette implicitamente che le emozioni non esistono e che è sbagliato manifestarle. Invece le emozioni esistono ed è giusto riconoscerle. Tutti possiamo sbagliare ma è importante accettare la persona piuttosto che il suo comportamento e provare a soddisfare i suoi bisogni.

Tra i bisogni più importanti di un bambino ci sono: quello di attenzione, di gratificazione, di accettazione, di amore incondizionato, di contatto fisico, di empatia, di ottenere risultati, di essere ascoltati, di guida e di fiducia. Lo stile educativo deve essere autorevole e non autoritario.
 

Quali sono gli atteggiamenti positivi per prevenire la balbuzie?
• Mostrare disponibilità all’ascolto, non a come lo dice ma a cosa dice
• Utilizzare un linguaggio facile e rallentato, privilegiando un vocabolario elementare e frasi brevi
• Non interrompere, anticipare le frasi o finire il discorso
• Fare uso di pause nel discorso e nella comunicazione
• Commentare singole situazioni o momenti, invece di porre domande frequenti che affaticano il bambino
• Valorizzare le forme di comunicazione non verbale, momenti ludici in cui il bambino può scaricare la tensione verbale
• Evitare di obbligare il bambino a raccontare eventi ad amici e parenti
• Evitare reazioni emotive ai blocchi verbali del bambino, cercando anche di non evidenziare le difficoltà
• Preparare il bambino ad affrontare situazioni nuove, simulando l’evento e tranquillizzandolo per ridurre il livello d’ansia
• Evidenziare e sottolineare i punti di forza, le capacità e le qualità del bambino
• Se il bambino vi sottolinea la sua difficoltà verbale, ricordategli che tutte le persone possono avere difficoltà ed esitazioni verbali, quando sono stanche e particolarmente agitate
In ogni caso, quando si presentano problematiche di questo tipo è importante ricercare il consulto di un logopedista e di uno psicologo dell’età evolutiva, in modo da evitare errori che possano acutizzare il problema.

Centro psicologia Castelli Romani-Dott.ssa Francesca Bertucci
Psicologa-Psicodiagnosta dell’età evolutiva-Mediatore familiare
Cell 3345909764-dott.francescabertucci@cpcr.it
www.psicologafrancescabertucci.com
piazza Pia 21 00041 ALBANO LAZIALE

 




Albano Laziale, centro psicologia Castelli Romani: Chi è il Terapista della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva?


A cura della Dottoressa Cristina Monaco – Psicomotricista

 

ALBANO LAZIALE (RM) – Nel vasto campo della riabilitazione in età evolutiva, ci si rivolge spesso a figure professionali quali logopedista, fisioterapista, chinesiologo ed osteopata. Difficilmente si parla o si conosce nel novero delle attività riabilitative un’importante figura professionale, il “Terapista della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva (TNPEE)”.

L’ORIGINE:

La figura professionale del TNPEE è stata teorizzata dal professore Giovanni Bollea a partire dagli anni ’60 ad indispensabile supporto della disciplina medica (Neuropsichiatria Infantile), come terapista specifico per l’età evolutiva.

IL PROFILO PROFESSIONALE DEL TNPEE

Il Terapista della Neuro e Psicomotricità dell’età evolutiva è una figura professionale, riconosciuta con Decreto del Ministero della Sanità n. 56 del 1997, che appartiene al novero delle «professioni sanitarie riabilitative» individuate dall’art. 2 della legge n. 251 del 2000.

E’ una figura professionale che svolge abilità di abilitazione, di riabilitazione e di prevenzione nei confronti delle “malattie neuropsichiatriche infantili” (fascia di età 0-18 anni). Il TNPEE possiede una Laurea Triennale e le competenze necessarie per l’integrazione multidisciplinare del lavoro di equipe. (Profilo sanitario D.M n. 56 del 1997).

IL TNPEE, figura unica in Europa, interviene nelle malattie neuropsichiatriche classificate nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DMS-5,2013) come Disturbi del Neurosviluppo.

L’AREA D’INTERVENTO DEL TNPEE:

L’area d’intervento del TNPEE è rappresentata dalle malattie neuropsichiatriche infantili o disabilità dello sviluppo dell’età evolutiva, intese come quelle situazioni in cui in conseguenza di una malattia, di un disturbo o di una menomazione (determinata e diagnosticata), il soggetto presenta difficoltà nell’attuazione delle abilità necessarie alle attività e alla partecipazione attiva all’interno dell’ambiente di crescita; in sintesi, tutte quelle situazioni in cui il progetto/percorso di crescita del bambino può essere alterato o disarmonico.

La terapia neuropsicomotoria è indicata per disturbi quali:
• Disturbi pervasivi dello sviluppo (disturbi dello spettro autistico) e della regolazione emotivo-comportamentale;
• Disabilità intellettive (ritardo mentale);
• Disturbi neurologici, neuromotori e disturbi sensoriali (paralisi cerebrali infantili; distrofie; paralisi ostetriche etc): tutte quelle situazioni in cui il disturbo origina e coinvolge principalmente la dimensione corporea interattiva.
• Disturbi della coordinazione motoria (disprassia evolutiva)
• Disturbi di sviluppo (Ritardi psicomotori, i disturbi dell’attenzione, ADHD);
• Disturbi specifici di linguaggio e di apprendimento (DSA, DSL, dislessia, disortografia, discalculia, disgrafia) ;
• sindromi genetiche.

L’intervento del TNPEE:

La professione del Terapista dell’età evolutiva, tra le professioni sanitarie riabilitative, si caratterizza:
• per la sua specifica ed esclusiva specializzazione infantile, ossia per la sua competenza specifica sui bambini dalla nascita fino ai 18 anni di età (Art. 5, n. 1. Cod. deont.);
• per un intervento di tipo “globale”, attento a considerare, per ogni fascia d’età, l’equilibrio complessivo e l’integrazione di tutte le funzioni e le competenze evolutive nonché l’interazione tra evoluzione della patologia e lo stadio di sviluppo.
L’intervento del TNPEE si rivolge a bambini, le cui difficoltà si sviluppano in disabilità evolutive, per sostenerli e realizzare il loro percorso di crescita.
Inoltre la terapia neuropsicomotoria è basata sulla precocità d’intervento (massima efficacia nell’età precoce 0-3 anni e nell’età pediatrica 4- 7anni): è ormai confermato nella letteratura scientifica che interventi integrati precoci (nei primi anni di vita del bambino), basati sullo stretto intreccio tra sviluppo funzionale e dinamiche relazionali, risultano efficaci in una vasta gamma di disturbi che determinano uno sviluppo disarmonico.

In che ambito opera un T.N.P.E.E?

Il terapista della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva opera:
• Nell’ambito della prevenzione, elaborando progetti di promozione della salute al fine di migliorare il benessere bio-psico-sociale del bambino;
• Nell’ambito della osservazione/valutazione, contribuendo alla definizione degli obiettivi terapeutici e delle strategie di intervento;
• Nell’ambito clinico/terapeutico, realizzando interventi riabilitativi specifici a sostegno di un profilo di sviluppo armonico del bambino laddove siano presenti fattori di rischio ed i disturbi di pertinenza già descritti.

Chi ci può consigliare di consultare un T.N.P.E.E?

Il medico di riferimento, la cui diagnosi dà avvio alla terapia riabilitativa, è solitamente il neuropsichiatra infantile. Il TNPEE collabora nell’équipe multidisciplinare formata dagli operatori sanitari della riabilitazione: dal Neuropsichiatra Infantile, dallo psicologo e dai professionisti dell’area pediatrica, pedagogica e della riabilitazione (Logopedisti e Fisioterapisti).
In tale équipe multidisciplinare il TNPEE collabora attivamente, dalla stesura della Valutazione alla elaborazione del Progetto riabilitativo, curando l’attuazione di un preciso Programma di intervento adattandolo alle specifiche capacità del bambino.

Riferimenti sitografici e bibliografici

– AITNE (Associazione Italiana Terapisti della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva)
– ANUPI (Associazione Nazionale Unitaria Terapisti della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva Italiani)

 

Cristina Monaco – Psicomotricista / Tel393 1829918

Centro psicologia Castelli Romani

piazza Pia 21 00041 ALBANO LAZIALE




Albano Laziale, centro psicologia: il bullismo

 

A cura della Dott.ssa Francesca Bertucci Psicologa-Psicodiagnosta dell’età evolutiva-Mediatore familiare


ALBANO LAZIALE (RM)
– Il bullismo è una forma di comportamento sociale di tipo violento e intenzionale, di natura sia fisica che psicologica, oppressivo e vessatorio, ripetuto nel corso del tempo e attuato nei confronti di persone considerate dal soggetto che perpetra l'atto in questione come bersagli facili e/o incapaci di difendersi. Le caratteristiche peculiari sono: l'intenzionalità, il comportamento aggressivo viene messo in atto volontariamente e consapevolmente; la sistematicità, il comportamento aggressivo viene messo in atto più volte e si ripete quindi nel tempo; l'asimmetria di potere, tra il bullo e la vittima c’è una differenza di potere, dovuta alla forza fisica, all’età o alla numerosità quando le aggressioni sono di gruppo. La vittima, in ogni caso, ha difficoltà a difendersi e sperimenta un forte senso di impotenza.


Il bullismo può assumere svariate forme
, alcune evidenti ed esplicite, altre sottili e sfuggenti all’osservazione degli adulti: diretto: comportamenti che utilizzano la forza fisica per nuocere all’altro. In questa categoria sono presenti comportamenti come picchiare, spingere, fare cadere, ecc.; verbale: comportamenti che utilizzano la parola per arrecare danno alla vittima. Ad, esempio, le offese e le prese in giro insistenti e reiterate; infine, indiretto: comportamenti non direttamente rivolti alla vittima ma che la danneggiano nell’ambito della relazione con gli altri. Sono comportamenti spesso poco visibili che portano all’esclusione e all’isolamento della vittima attraverso la diffusione di pettegolezzi e dicerie, l’ostracismo e il rifiuto di esaudire le sue richieste. Quando le azioni di bullismo si verificano attraverso Internet (posta elettronica, social network, chat, blog, forum), o attraverso il telefono cellulare si parla di cyberbullismo.
Perché si diventa bulli? Perché si diventa vittime?


Una serie di studi hanno messo in luce che
un buon concetto di sé, cioè le credenze riguardo se stessi, le capacità, le impressioni, le opinioni che ogni individuo pensa di avere  e che lo contraddistinguono dagli altri, aiuta bambini e ragazzi a ottenere dei successi, sia a livello relazionale che di rendimento scolastico (Marsh e all., cit. in Camodeca, 2008). Un basso concetto di sé conduce alla vittimizzazione, mentre, i ragazzi/bambini che utilizzano condotte aggressive, che sembrano mostrare un elevato concetto di sé, in realtà non hanno una buona immagine di sé, piuttosto un senso di narcisismo e un tentativo di sembrare ciò che non  si è. Nel caso dei bulli, per esempio, sembrerebbe che il comportamento prepotente da essi attuato sia efficace a fargli guadagnare potere, ammirazione e attenzione e, in questo modo, migliorare poi l’immagine di sé (Marsh e all, 2001).

Le conseguenze
Essere vittima o essere prepotente ed esserlo a lungo nel corso del tempo può rappresentare un fattore di rischio. Chi rimane a lungo nel ruolo di prepotente corre più rischi di altri di entrare in quella escalation di violenza che va da piccoli episodi di vandalismo, furti, piccola criminalità, fino a incorrere in problemi seri con la legge. Questi bambini hanno quindi più probabilità da adulti di venire condannati per comportamenti antisociali. Per contro chi rimane a lungo nel ruolo di vittima rischia di andare incontro a livelli di autostima sempre più bassi (“non valgo nulla”, “non sono capace di far nulla”, “gli altri ce l’hanno tutti con me”), a forme di depressione che possono aggravarsi sempre di più, fino a diventare forme di autolesionismo con conseguenze estreme come il suicidio.

Le cause
Sono molteplici e interagenti tra loro, infatti oltre alla personalità del soggetto, sono da considerare il sistema familiare ed il contesto culturale. Il bambino che vive in una famiglia in cui regnano un’educazione coercitiva, violenza e sopraffazione ha più probabilità di interiorizzare schemi di comportamento disadattivi, si sentirà quindi autorizzato ad utilizzare gli stessi modelli di comportamento anche nelle relazioni al di fuori della famiglia. Al contrario, se la famiglia presenta uno stile educativo permissivo e tollerante, il bambino sarà incapace di porre adeguati limiti al proprio comportamento. Inoltre, il bullismo è figlio di un contesto culturale più ampio, in cui si persegue un modello di forza e potere, in cui vige la distinzione dell’umanità tra vincenti e perdenti, l’esaltazione di leader autoritari e di immagini maschili e femminili di successo, in cui la sconfitta non è ben vista. I mass media, televisione, cinema, videogiochi, ci presentano modelli di violenza giovanile come espressione di forza e vitalità, risolutrice di conflitti e depurata da ogni segno di sofferenza o conseguenza per le vittime. In una cultura fondata sui (dis)valori della sopraffazione, dell’arroganza, della furbizia e della competizione, sarà naturale per il piccolo bullo prevaricare il compagno più debole. Infine, i coetanei hanno un ruolo importante nello sviluppo, mantenimento o modificazione del comportamento aggressivo nel gruppo. Il bullo non agisce da solo, alcuni compagni svolgono un ruolo di rinforzo, altri formano un pubblico che incita e sostiene, altri ancora si disinteressano a quello che accade, non manca poi chi tenta di opporsi alle prepotenze per proteggere la vittima, in questo ruolo di difesa si trovano spesso le bambine. Il bullismo è quindi un fenomeno di gruppo.

Cosa si può fare?
La strategia migliore per combattere il bullismo, nelle scuole e online, è la prevenzione, contro il bullismo si dovrebbero attivare sia la scuola che la famiglia. È importante che genitori e insegnanti comunichino tra loro, e si metta in atto un intervento condiviso e coerente. Se un genitore ha il sospetto che il proprio figlio sia vittima o autore di episodi di bullismo a scuola, la prima cosa da fare è parlare e confrontarsi con gli insegnanti. Viceversa, se è un insegnante ad accorgersi di atti di bullismo, dovrebbe individuare insieme ai genitori una strategia condivisa per porre fine alle prevaricazioni. Inoltre, anche il contesto terapeutico familiare è spesso molto utile in questi casi per sostenere i genitori nell’aiutare i propri figli in un momento particolare della loro crescita, per lavorare sul riconoscimento delle emozioni proprie ed altrui e ad aiutare il ragazzo vittima di prevaricazioni ad elaborare i propri vissuti.

Centro psicologia Castelli Romani-Dott.ssa Francesca Bertucci
Psicologa-Psicodiagnosta dell’età evolutiva-Mediatore familiare
Cell 3345909764-dott.francescabertucci@cpcr.it
www.psicologafrancescabertucci.com
piazza Pia 21 00041 ALBANO LAZIALE
 




DEGLUTIZIONE ATIPICA: CONOSCIAMOLA MEGLIO

A cura della Dottoressa Chiara Marianecci – Logopedista

Per deglutizione atipica si fa riferimento al persistere di uno schema deglutitorio prettamente infantile, in cui la lingua continua a spingere contro le arcate dentarie per compiere l’atto deglutitorio, anche oltre i 5-6 anni, età dopo la quale questo comportamento dovrebbe essere risolto e sostituito con una spinta verso il palato. La deglutizione atipica o infantile si presenta generalmente associata a respirazione orale con postura di riposo linguale contro o tra i denti.

È un’alterazione questa spesso poco conosciuta, su cui molti specialisti hanno posto l’attenzione in quanto le conseguenze a cui può condurre sono molteplici: può alterare il normale accrescimento delle strutture facciali, craniche e buccali, risultando causa o concausa di malocclusione, per tale ragione in molti casi intervenire con apparecchi ortodontici, senza minimamente valutare l’influsso linguale può risultare decisamente poco proficuo, si può perfino giungere a recidive, in quanto una volta tolto l’apparecchio il morso potrebbe, in alcuni casi, tornare al suo aspetto d’origine o modificarsi.

Una deglutizione disfunzionale può incidere sull’articolazione errata di alcuni suoni, come la “s” o la “r”. Un particolare accento va posto anche sulla postura corporea: molti dei fastidi al tratto cervicale, estremamente comuni possono essere aggravati o addirittura causati dall’atteggiamento linguale disfunzionale.

Tali squilibri possono ricadere su qualsiasi segmento del nostro corpo, che va immaginato come una catena in cui ogni anello va ad influenzare l’altro. Inoltre possiamo trovare disfunzioni tubariche con otiti, problemi di vista, di capacità attentiva, aerofagia e disfonia (alterazioni della voce). Le cause possono essere molteplici e non ancora del tutto conosciute: predisposizione genetica, perseverare di “abitudini viziate”, come l’uso di biberon, ciuccio, succhiamento del dito, o altri fattori come allergie ad esempio, i bambini allergici infatti tendono a respirare con la bocca a causa dell’ostruzione nasale, mantenendo la lingua in basso.

A fronte di quanto detto può risultare utile ed importante effettuare una valutazione specialistica d’equipe con logopedista, ortodontista, osteopata, otorinolaringoiatra, che possa verificare, anche a scopo preventivo, quanto descritto e rintracciare i giusti metodi riabilitativi in base alle caratteristiche dell’individuo. Il trattamento logopedico verte alla rieducazione della muscolatura e funzione linguale di riposo, deglutitoria e di masticazione; la collaborazione della famiglia risulta naturalmente indispensabile per far sì che il bambino elimini i comportamenti errati e automatizzi quelli corretti.

Contatti: Logopedista Chiara Marianecci 

3497296063 Chiara.marianecci@hotmail.it

Centro Psicologia Castelli Romani




SESSUALITA': DISFUNZIONI E PROBLEMI CONNESSI

A cura della dott.ssa Catia Annarilli – psicologa-psicoterapeuta

Sembrerebbe che spesso la problematica di carattere sessuale possa  nascondere aspetti conflittuali irrisolti di natura emotiva più profondi e fortemente radicati nella storia emotiva della persona. 

Talvolta, quando il problema sessuale è il principale disturbo che la persona riferisce al clinico, si tratta solo della punta dell'iceberg della questione. Il problema sessuale può essere una falsa traccia per distrarre il clinico da altri problemi assai più gravi ed urgenti, può servire a contenere/celare una varietà di altri problemi emotivi, coniugali e familiari intimamente connessi. 

Quando nel 1998 il Viagra fu lanciato sul mercato americano molti uomini fecero balzale alla stelle la vendita del farmaco portando alla luce del sole una gamma infinità di problematiche sessuali all'interno della vita coniugale di coppie che avevano raggiunto un equilibrio stabile rispetto all'intimità basato prevalentemente sulla cessazione delle relazioni sessuali.  Molte coppie si ritrovarono a rimettere in discussione quest equilibrio e a cercare una terapia di coppia che li potesse aiutare a riorganizzare in modo funzionale la loro intimità e a chiarire la natura delle problematiche intime che era stata mascherata dalla disfunzione erettile. Allo stesso modo  alcune donne cominciarono a preoccuparsi che i loro mariti, una volta risolti i problemi erettili, non più ansiosi rispetto  alla loro capacità di raggiungere o mantenere un erezione potessero dedicarsi a relazioni extraconiugali. 

Quindi, la mera risoluzione del problema esclusivamente sessuale non aveva comunque risolto altre problematiche più intime relative alla relazione di coppia e alla soddisfazione personale.

Molte persone soffrono generalmente solo di una leggera ansia da prestazione e rispondono bene ad una trattamento psicoterapuetico, che giova non solo al benessere del singolo ma anche alla relazione e all'intimità della vita coniugale. 

Il trattamento dei sintomi sessuali deve sempre essere centrato sull'unicità della persona, sulla sua storia personale affettiva ed emotiva; le cause organiche devono essere escluse .

Gran parte delle disfunzioni sessuali, secondo la categorizzazione del DSM-IV possono essere categorizzate come disturbi del desiderio, dell'eccitamento o dell'orgasmo.

La comprensione della problematica sessuale, sia per il maschio che per la femmina, deve sempre iniziare con un'attenta comprensione del contesto situazione in cui il sintomo emerge e si manifesta.

Se il paziente è coinvolto in una situazione intima esclusiva è importante capire se il problema si manifesta esclusivamente con quel partner o se invece si ravvisa una certa generalità. Difficoltà sessuali specifiche della coppia devono invece essere lette nel contesto delle dinamiche interpersonali della relazione.

Il tema delle disfunzioni sessuali purtroppo è intriso ed adombrato dalla questione moralistica e dallo stigma sociale in cui aspetti moralistici e aspetti legati all'onorabilità della mascolità rendono difficile l'accesso alla richiesta di aiuto da parte della persona, quello che sappiamo è che spesso la problematica sessuale è legata a nodi emotivi irrisolti che possono trovare uno spazio di comprensione e di risoluzione in un trattamento psicoterapuetico.

 

Dott.ssa Catia Annarilli

psicologa – psicoterapeuta

cell. 3471302714

catia.annarilli@gmail.com

www.centropsicologiacastelliromani.it

 

bibliografia

– Psichiatria Psicodinamica – 3' ed., Glen O. Gabbard, ed. Raffaello Cortina Milano 2002

– DSM-IV-TR, AAVV, ed. Masson, 2002 




ANSIA: PERCHE' VIENE L'ANSIA?

 a cura della Dott.ssa Vanessa Tartaglia, Psicologa-Psicoterapeuta Centro Psicologia Castelli Romani

Una larga parte di noi ha avuto o potrà avere un disturbo d’ansia nel corso della propria vita. L’ ansia, specie se non ha cause apparenti, è un’emozione che ci mette a dura prova. Stiamo facendo le nostre normali attività, quando all’improvviso prorompe in noi una fastidiosa sensazione che stia per accadere qualcosa di brutto e spesso non sappiamo cosa sia.

A volte l’ansia prende la forma dalla paura di morire, o dall’angoscia per il fatto che “un giorno” dovremo morire e che nulla ha senso. A volte siamo assaliti da un generico ma intenso terrore di essere soli, di non essere “reali”, di non farcela. In altri casi si ha la sensazione che qualcosa di terribile e di più grande di noi incomba nella nostra vita. E infine, a volte, si presenta un’acuta ansia “senza oggetto”, pura tensione, puro stato di allerta senza nessun’altra sfumatura.

L'ansia è una complessa combinazione di emozioni negative che includono paura, apprensione e preoccupazione, ed è spesso accompagnata da sensazioni fisiche come palpitazioni, dolori al petto e/o respiro corto, nausea, tremore interno. I segni somatici sono un'iperattività del sistema nervoso autonomo e in generale della classica risposta del sistema simpatico di tipo "combatti o fuggi".

L’ansia di per sé, tuttavia, non è un fenomeno anormale. Si tratta di un'emozione di base, che comporta uno stato di attivazione dell’organismo e che si attiva quando una situazione viene percepita soggettivamente come pericolosa. Nella specie umana l’ansia si traduce in una tendenza immediata all’esplorazione dell’ambiente, nella ricerca di spiegazioni, rassicurazioni e vie di fuga, nonché in una serie di fenomeni neurovegetativi come l’aumento della frequenza del respiro, del battito cardiaco (tachicardia), della sudorazione, le vertigini, ecc.. Tali fenomeni dipendono dal fatto che, ipotizzando di trovarsi in una situazione di reale pericolo, l'organismo in ansia ha bisogno della massima energia muscolare a disposizione, per poter scappare o attaccare in modo più efficace possibile, scongiurando il pericolo e garantendosi la sopravvivenza.

L’ansia, quindi, non è solo un limite o un disturbo, ma costituisce una importante risorsa, perché è una condizione fisiologica, efficace in molti momenti della vita per proteggerci dai rischi, mantenere lo stato di allerta e migliorare le prestazioni (ad es., sotto esame). 

Quando l'attivazione del sistema di ansia è eccessiva, ingiustificata o sproporzionata rispetto alle situazioni, però, siamo di fronte ad un disturbo d'ansia, che può complicare notevolmente la vita di una persona e renderla incapace di affrontare anche le più comuni situazioni.

Si distingue dalla paura vera e propria per il fatto di essere aspecifica, vaga o derivata da un conflitto interiore.

 

Che cosa nasconde realmente l’ansia?

Paradossalmente, l’ansia è una delle più forti pulsioni vitali di cui siamo dotati, uno dei sintomi che maggiormente esprimono un’immensa voglia di vivere, di creare, di manifestarsi con pienezza. Proprio così: anche quando è venata di atmosfere mortifere – anzi, ancor di più in questi casi – questa angoscia è da interpretare come una parte di noi stessi che dice: voglio assolutamente vivere. È importante allora comprendere perché questa voglia debba manifestarsi in un modo così violentemente negativo. E la risposta risiede nel fatto che, attraverso di essa, il nostro cervello si fa carico di scuoterci alla radice per segnalarci che stiamo escludendo dalla nostra vita una parte essenziale di noi stessi, una parte che evidentemente non si può sopprimere. Può essere qualsiasi cosa: creatività, sessualità, sentimenti, libertà, desideri, modi di essere ecc. L’atmosfera di morte e di pericolo è lì a dirci che vivere senza questa parte è pericoloso e ci conduce alla depressione. È il momento di farla vivere, per riprendere a stare bene. Ecco come

 

Come possiamo curare l'ansia?

Eliminare l'ansia con gli psicofarmaci ci toglie la possibilità di mettere in atto ciò che di prezioso essa ci suggerisce. Un danno doppio, perché essi, annebbiando il problema, lo fanno diventare sempre meno comprensibile. 

La strategia migliore, quindi, non è sopprimere l’ansia, ma carpirne il senso e attuarlo, fino a renderla inutile.

È necessario che qualcuno, lo psicoterapeuta, ci aiuti a comprendere il senso nascosto nell’ansia e a trasformarlo in scelte e comportamenti liberatori.

Il terapeuta ci può aiutare a prendere coraggio nelle scelte. Spesso, paradossalmente, chi soffre di quest’ansia non mette in atto le scelte che, una volta individuate, potrebbero farlo star bene. La paura di qualcosa di nuovo va a sua volta a nutrire il problema. Tuttavia è necessario tirare fuori un po’ di coraggio e fare i passi necessari. Altrimenti, se si resta passivi, l’ansia la farà da padrona.

Contatti: 

Dott.ssa Vanessa Tartaglia

Psicologa-Psicoterapeuta

Cell.3388558488 email: dott.vanessatartaglia@cpcr.it

www.centropsicologiacastelliromani.it

p.zza Salvatore Fagiolo n. 9 00041 Albano laziale




DISFONIA: QUANDO LA NOSTRA VOCE CAMBIA

A cura della D.ssa Chiara Marianecci – Logopedista

Sono estremamente frequenti casi in cui la voce di una persona subisca importanti abbassamenti, sino alla quasi completa afonia, tali eventi risultano improvvisi, frequenti o magari consequenziali ad uno sforzo eccessivo o prolungato; in altri casi possono esserci variazioni di qualità vocali, in cui la persona percepisce la propria voce cambiata, più rauca o “sporca”, sintomi che magari si esprimono diversamente in base al momento della giornata. Tutto questo si accompagna spesso ad improvvisa affaticabilità durante l’eloquio, senso di corpo estraneo in gola, improvvise tensioni nella zona di collo e spalle, necessità di dover “raschiare” o tossire continuamente per togliere la sensazione di “velo”, imbarazzo nel comunicare con gli altri e quindi ripercussioni di carattere emotivo. Tutto ciò e altri sintomi di questa natura si verificano spesso in soggetti che per motivazioni personali e più comunemente lavorative, si trovano a dover sfruttare per più ore durante il giorno la loro voce: la categoria più a rischio, in cui dati statistici riportano un’incidenza altissima, è quella degli insegnanti.

I sintomi descritti nella maggior parte dei casi possono essere ricondotti ad una quadro di “disfonia”, tale patologia generalmente può essere di natura organica, quasi sempre secondarie ad interventi chirurgici o per neoformazioni come polipi o granulomi, o di natura disfunzionale. Per disfonia disfunzionale ci riferiamo ai casi prima descritti, ovvero quando professionisti della voce, sfruttando a lungo ed intensamente il loro organo fonatorio si ritrovano gradualmente o improvvisamente a sentirne un mutamento. Il primo consiglio da dover specificare è la necessità di un controllo specialistico di un otorino o meglio del foniatra, che attraverso strumentazioni può diagnosticare la natura e le caratteristiche della disfonia, tutto questo soprattutto se il disturbo persiste oltre i dieci giorni. Secondo passo da percorrere è quello di una valutazione ed eventualmente terapia logopedica, mirata ad un recupero e rieducazione della corretta funzione fonatoria; saranno poi tali specialisti a consigliare la supervisione di altri medici o terapisti. Tuttavia, ci sono dei suggerimenti che si possono seguire a scopo preventivo, che possono notevolmente agevolare il quotidiano di chi inizia a riscontrare tali sintomi, o chi pur non percependo nulla di tutto questo è a rischio per le proprie attività quotidiane. I consigli più utili sono: evitare sbalzi di temperatura, non bere bevande troppo ghiacciate; limitare lunghe conversazioni telefoniche (a telefono tutti siamo portati ad urlare e sforzare); parlare a distanza ravvicinata e non urlare inutilmente; evitare, soprattutto di sera, pasti abbondanti e di difficile digestione, in quanto ciò potrebbe accrescere il reflusso (spesso concausa o aggravante delle disfonie) e limitare la  normale  respirazione. Estremamente utile risulta respirare a bocca chiusa il più possibile, respirare correttamente (con una respirazione diaframmatica) e frequentemente quando si parla facendo attenzione a non rimanere senza fiato alla fine della frase; non parlare durante l’attività fisica  e in posture alterate; non fare “vocine” o sussurrare; non raschiare (in alternativa è più salutare un colpo di tosse o idratare bevendo); bere piccoli e frequenti sorsi d’acqua; evitare di bere alcolici, caffeina e di fumare (tutti questi fattori possono alterare la salute delle mucose). In alcuni casi può essere importante trovare dei momenti o periodi di riposo vocale ed utilizzare eventualmente strumenti vicarianti, come ad esempio il microfono. Questi sono consigli sfruttabili da chiunque, saranno poi gli specialisti a personalizzare e approfondire altri suggerimenti in base alle caratteristiche di ciascun “individuo disfonico”. Fondamentale è comprendere che i propri mezzi vocali non sono illimitati, anche la voce si stanca!    

Logopedista Chiara Marianecci – Centro Psicologia Castelli Romani, Albano Laziale

Tel: 3497296063, e-mail: chiara.marianecci@hotmail.it        




BAMBINI E DISTURBI NELL'EVACUAZIONE

A cura della Dottoressa Francesca Bertucci – Psicologa, Mediatore famigliare

Si parla di disturbi dell’evacuazione quando il bambino non ha un controllo sfinterico adeguato all’età di sviluppo (dopo i 4/5 anni): si parla di enuresi per la mancanza di controllo della pipì, di encopresi per il mancato controllo delle feci. Entrambi i disturbi possono avere una forma primaria, se il bambino non ha mai raggiunto il controllo dell’evacuazione, secondaria se il bambino ha raggiunto il controllo e successivamente lo ha perso.

Cause

Alla base dei disturbi, soprattutto nella forma secondaria, può esserci una componente emotiva, si tratta di segnali che indicano dei momenti di difficoltà psicologica, che trovano espressione attraverso una regressione nell'evoluzione del bambino, spesso associata e conseguente ad eventi della vita quotidiana, quali: la nascita di un fratellino, l'inserimento a scuola, il cambiamento di scuola, un trasloco, la separazione dei genitori, un periodo prolungato di ospedalizzazione, la morte di un genitore o di un familiare. Eventi che influenzano il ritmo e lo stile della vita familiare e che hanno delle ripercussioni sul bisogno di sicurezza, di attenzione e di dipendenza del bambino.

Sia l'enuresi che l'encopresi sono disturbi che interferiscono negativamente con uno sviluppo equilibrato e sereno della personalità del bambino, è quindi fondamentale intervenire precocemente per prevenire l'insorgere ed il mantenimento di situazioni di disagio e di ansia.

Cosa fare per educare

La prima tappa importante nel percorso di sviluppo del controllo sfinterico è che il bambino deve avere consapevolezza della propria urina e delle proprie feci, cioè deve accorgersi di aver bagnato o sporcato il pannolino. In un secondo momento deve riuscire a riconoscere lo stimolo, pur non essendo ancora in grado di controllarlo, deve poi desiderare di provare a usare il vasino e successivamente deve saper controllare e posticipare di qualche minuto quando “gli scappa”. È importante avere pazienza ed aspettare quando il bambino è pronto, senza forzarlo prima del tempo. Infine, va anche tenuto conto del grado di sviluppo linguistico: non solo deve essere in grado di trattenere e di riconoscere il bisogno fisiologico, ma deve anche essere in grado di esprimerlo e comunicarlo.

Vi sono alcuni indicatori che segnalano quando un bambino può iniziare a essere abituato al controllo sfinterico, utili per non rischiare di anticipare di troppo l’uso del vasino:

• I pannolini sono asciutti per almeno due ore durante l'arco della giornata o dopo il sonnellino e i movimenti del suo intestino stanno diventando regolari e prevedibili. 


• Le espressioni del viso o la postura indicano quando sta lasciando andare pipì o feci, inoltre, quando sporca il pannolino non sembra a suo agio e si agita o chiede di essere cambiato.

• Quando è in bagno, aiuta a farsi svestire ed è pronto a seguire semplici istruzioni.

• Sa nominare la pipì o la cacca e, anche solo per gioco, chiede di usare il vasino o di mettere le mutandine.

Se l’età lo consente, è più facile abituare i bambini al vasino nel periodo estivo perché la minor quantità di indumenti rende più facile svestirli o cambiarli se non si arriva in tempo. È importante anche non iniziare il percorso di educazione all’uso del vasino in un periodo in cui vi siano grandi cambiamenti nella famiglia.

Inoltre è necessario che si crei un clima positivo intorno al bambino e che lo si prepari al grande evento, rendendolo il protagonista. Quindi, spetta a lui la scelta delle mutande, del vasino e i giochi da portare con se nel momento in cui dovrà andare in bagno, affinché non si stanchi e non si annoi.

In questa fase delicata è importante non scoraggiarsi e soprattutto non umiliare il bambino, ma gratificarlo quando riesce nel controllo dell’evacuazione.

Come intervenire per risolvere

I problemi psicologici che accompagnano l’enuresi o l’encopresi possono essere spesso importanti, soprattutto se la situazione è mal gestita con rimproveri, con un atteggiamento squalificante o mortificando il bambino. Il rifiuto e l'atteggiamento punitivo di chi si prende cura del bambino influiscono sul suo livello di autostima e sul suo sentirsi inadeguato e non all’altezza.

Rispetto all’enuresi, spesso si tratta di famiglie in cui uno o entrambi i genitori hanno  aspettative elevate verso il bambino, tendono ad essere molto attenti alla buona qualità delle prestazioni in vari contesti, dalla scuola allo sport, faticando ad accettare gli insuccessi. Rispetto all’encopresi, si tratta spesso di famiglie in cui i padri sono periferici, timidi e riservati, mentre le madri sono ansiose, emotive e iperprotettive, con una condotta abbastanza rigida rispetto al controllo dell’evacuazione (per esempio: metterli nel vasino fin dai primi mesi di vita). Inoltre, spesso tali bambini tendono ad essere oppositivi e con il loro comportamento manifestano il rifiuto a sottomettersi alle regole.

In questi casi l'intervento psicologico ha due obiettivi: da una parte individuare e modificare, in base al contesto in cui il bambino vive, determinati atteggiamenti che possano aggravare l'imbarazzo e il senso di colpa del bambino stesso; dall’altra intervenire su quest’ultimo per facilitare l’espressione del disagio e dell’ansia, per poi innalzare l’autostima.

I genitori, vanno quindi aiutati ad accogliere quelle che ai loro occhi sono imperfezioni o mancanze del bambino, diminuendo la pressione su quest’ultimo. Nel caso in cui il sintomo è legato alla nascita di un fratellino (o sorellina) è utile cercare degli spazi e dei momenti in cui stare con il bambino, giocare insieme, fare una cosa speciale, ritagliare uno spazio solo suo,  facendogli sentire di nuovo il senso di unicità che forse avverte di aver perduto.

È importante gratificare il bambino quando riesce nel controllo, ma è altrettanto importante reagire non in modo punitivo quando non riesce, in quanto l’atteggiamento punitivo non fa altro che rimandare nel tempo la risoluzione del problema. I sintomi dei bambini sono sempre legati alla relazione con le figure di riferimento e nella qualità o tipo di relazione troviamo il loro significato più profondo.

È importante rendere l’andare in bagno un momento connotato da tranquillità e serenità, in cui l’adulto e il

bambino stanno bene insieme, dentro una buona e calda relazione affettiva.

 

Dott.ssa Francesca Bertucci

Psicologa – Mediatore familiare

Cell 3345909764-dott.francescabertucci@cpcr.it

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piazza Salvatore Fagiolo n. 9 00041 ALBANO LAZIALE




ANORESSIA: FATTORI DI INSORGENZA E INTERVENTO PSICOTERAPEUTICO

A cura della Dottoressa Catia Annarilli, Psicologa – Psicoterapeuta

L’anoressia nervosa è un disturbo del comportamento alimentare che comporta essenzialmente il rifiuto di mantenere il peso corporeo al di sopra del peso minimo normale, o intenso timore di acquistare peso, con alterazione dell’immagine corporea ovvero, ci si continua a vedere grassi e brutti nonostante vi sia una chiara ed eccessiva magrezza.
La perdita di peso è ottenuta tramite la riduzione della quantità di cibo assunta, in aggiunta a ciò possono associarsi condotte di auto eliminazione come il vomito autoindotto e l’uso inappropriato ed eccessivo di diuretici e lassativi.
Nelle persone anoressiche i livelli di autostima sono fortemente influenzati dalla forma fisica e dal peso corporeo: la perdita di peso è considerata come una straordinaria conquista ed un segno di ferrea autodisciplina, mentre l’incremento del peso viene vissuto come una inaccettabile perdita di controllo.
Tipicamente le persone con questo disturbo negano le gravi conseguenze sul piano della salute fisica.
Dipendenza dai familiari e bassa stima di Sé sembrerebbero essere gli agenti promotori del comportamento anoressico

I disturbi associati a questa manifestazione patologica sono diversi sia mentali come sintomi depressivi, come un umore depresso, ritiro sociale, irritabilità, insonnia e diminuito interesse sessuale. Sono spesso presenti marcati sintomi ossessivo-compulsivi relativi o meno al rapporto con il cibo (collezionare ricette ad ammassare cibo); è presente disagio nel mangiare in pubblico, sentimenti di inadeguatezza, bisogno di tenere sotto controllo l’ambiente circostante, rigidità mentale e perfezionismo. Altri disturbi sono associati a condizioni mediche generali e comprendono amenorrea, stipsi, dolori addominali, letargia, freddo, ipotermia e secchezza della cute. Nei soggetti che si auto inducono il vomito si possono manifestare erosioni dello smalto dentale e cicatrici o callosità sul dorso delle mani.

L’insorgenza è tipicamente nella media e tarda adolescenza 14-18 anni, spesso coincide con la presenza di un evento della vita stressante. Il decorso può essere diverso: in alcuni casi si può parlare di un unico evento con remissione completa e recupero del peso corporeo in altri casi di un andamento cronico recidivante .

Le manifestazioni essenziali dell’anoressia sono :
– rifiuto di mantenere il peso corporeo al di sopra o al peso minimo normale per età e statura (perdita di peso che porta a mantenere il peso al di sotto dell’85% rispetto al previsto);
– paura di acquistare peso o di diventare grassi, anche quando si è sottopeso;
– alterazione del modo in cui il soggetto vive il peso o la forma del corpo , o eccessiva influenza del peso … sui livelli di autostima, o rifiuto di ammettere la gravità della attuale condizione di sottopeso;
– nelle femmine amenorrea, cioè assenza di almeno 3 cicli mestruali consecutivi;

L’anoressia può essere “con restrizioni” : non sono presenti abbuffate o condotte di eliminazione come vomito autoindotto o uso inappropriato di lassativi o diuretici, oppure può essere “con abbuffate/condotte di eliminazione” sono presenta abbuffate o condotte di autoeliminazione.

Caratteristiche psicologiche familiari e individuali.
La famiglia dell’anoressica agisce su modelli altamente invischiati, chi cresce in tale sistema familiare impara a subordinare il proprio sé agli altri e l’approvazione dell’altro diventa una condizione imprescindibile di equilibrio interno e stima di sé. La protettività è una delle caratteristiche tipica di questo tipo di famiglia, si cresce sotto un controllo eccessivo ed intrusivo dei genitori, che si focalizzano solo sul benessere del figli, troppo attenti ai bisogni psicofisiologici dei figli, tutte le loro preoccupazioni investono ed invadono i figli, specie le figlie femmine. Le bambine percepiscono che quello che fanno è dominio di chi è attorno a loro, si è sempre soggetti all’approvazione altrui, in tale quadro si tende a sviluppare un perfezionismo ossessivo e un’attenzione particolare su sé e sui segnali di approvazione.

L’autonomia individuale dell’anoressica è limitata dall’intrusività e dall’iperprotettività della famiglia, ampie aree del funzionamento corporeo restano sotto il controllo genitoriale, questo la condiziona non permettendole di sviluppare le abilità necessarie per potersi relazionare con i suoi coetanei investendo e preferendo sempre di più i rapporti con gli adulti. In genere l’invischiamento viene proclamato come orgoglio delle famiglie anoressiche, in quanto esse si vedono leali, protettive, sensibili e responsabili, cosa che in effetti non sono. L’anoressica che si affaccia all’adolescenza entra in uno stato di conflitto profondo, il desiderio di contatto con il gruppo dei pari è ostacolato dall’eccessivo invischiamento familiare, le difficoltà che si incontrano nel rapporto con il gruppo dei pari incrementano l’ipercoinvolgimento familiare rafforzandone i confini che sono spesso rigidi.

La psicoterapia sistemica relazionale con riferimento alle dinamiche familiari è particolarmente efficace anche se estremamente complessa e ricca di resistenze al cambiamento da parte di tutti i componenti. I famigliari si presentano come accompagnatori sostenendo che c’è qualcosa che non va nella paziente, qualcosa che sfugge al loro controllo e che condiziona l’intera famiglia. Il terapeuta sa che quell’individuo sintomatico è parte si un sistema che inserisce il sintomo nella sua rete comunicazionale utilizzandolo per il proprio funzionamento e per la propria comunicazione.

La comparsa ed il mantenimento del sintomo anoressico è spesso collegata e sostenuta da determinate dinamiche come l’invischiamento, l’iperprotettività, la rigidità, l’evitamento del conflitto e la deviazione del conflitto, l´insieme di tutte queste condizioni sembra essere ritenuto l’assetto tipico di un sistema familiare con un membro anoressico.

La psicoterapia sarà indirizzata alla comprensione di queste modalità di transazione e comunicazione familiare, finalizzata a permettere al sistema familiare di rinnovare il proprio funzionamento interno; il terapeuta è attivamente coinvolto nel sistema come agente di rinnovamento e di stimolo al fine di spingere il sistema a ricercare un nuovo equilibrio di sistema più funzionale che possa permettere ai propri membri una maggiore libertà all’interno e all’esterno di esso.

La psicoterapia sistemico relazionale lavora per la comprensione e il cambiamento delle interazioni tra paziente e sistema familiare favorendo il naturale processo di individuazione del figlio.
 

Dott.ssa Catia Annarilli
Psicologa – Psicoterapeuta
Cell. 347.130714
catia.annarilli@gmail.com


www.centropsicologiacastelliromani.it
Piazza Salvatore Fagiolo n. 9 00041 Albano laziale
bibliografia di riferimento

Bibliografia:
1. Salvador Minuchin, Famiglie psicosomatiche. L'anoressia mentale nel contesto familiare, Casa editrice Astrolabio;
2. Selvini Palazzoli, M. (1963). L'anoressia mentale. Milano, Feltrinelli;
3. AA.VV., Diagnostic and statistical manual of mental disorders: DSM-IV-TR, American Psychiatric Pub, 4ª ed: 2000