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ROMA, UNA STRADA DA INTITOLARE A GIOVANNI FRANCESCO MALAGODI, STORICO LIBERALE ITALIANO: PARTE LA PETIZIONE

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Tempo di lettura 18 minutiMassimiliano Giannocco: "Se siete liberali, non potete non firmare!"

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Redazione

Roma – Roma, la Capitale d’Italia, non ha una strada intitolata a uno dei più grandi liberali della storia italiana: Giovanni Francesco Malagodi, storico Segretario e Presidente onorario del Partito Liberale Italiano.

"Una gravissima mancanza a cui è indispensabile porre rimedio. – commenta Massimiliano Giannocco Consigliere nazionale del Partito Liberale Italiano –  Per questo motivo – prosegue Giannocco – è nostra intenzione formalizzare una richiesta al Sindaco di Roma Capitale e ai competenti Uffici della “Unità organizzativa Archivio Storico Capitolino e Toponomastica” affinché Malagodi, come il padre Olindo, riceva il giusto omaggio nella città dove ha trascorso gran parte della sua vita. Si consideri che la richiesta può essere presentata solo dopo almeno dieci anni dalla morte dell’interessato e, considerato che Giovanni Malagodi ci ha lasciato il 17 aprile 1991, siamo anche in ritardo nell’intraprendere una simile iniziativa. Anche se la domanda può essere inviata da un singolo individuo, abbiamo deciso di supportarla con una raccolta di firme on line, affinché  la Commissione competente all’esame prenda atto della volontà diffusa, del popolo liberale e non, di vedere intitolata una strada a un uomo di specchiata onestà, convinto sostenitore del Liberalismo, che diede un fondamentale contributo al progresso economico italiano e promosse con decisione la cooperazione internazionale. – Il consigliere conlcude – Per questo motivo il nostro è un invito convinto ed esplicito a firmare la petizione on line, consultabile attraverso il seguente link: http://www.change.org/it/petizioni/roma-capitale-una-strada-a-roma-per-giovanni-malagodi Se siete liberali, non potete non firmare!"

 

Giovanni Francesco Malagodi [Da Treccani.it]

di Giovanni Orsina

Malagodi, Giovanni (Giovanni Francesco). – Nacque a Londra, il 12 ott. 1904, da Olindo e da Gabriella Ester Levi. La madre era di origine torinese ed ebraica; il padre risiedeva a Londra dal 1895 quale corrispondente, dapprima per Il Secolo di Milano, poi per La Tribuna di Roma. Nel 1910 Olindo fece ritorno in Italia, chiamato alla direzione del quotidiano, e il figlio lo seguì a Roma, dove svolse per intero la sua carriera scolastica e universitaria.

Il M. crebbe all'ombra di un padre coinvolto ai massimi livelli nella vita politica e culturale italiana: quanto la figura di Olindo abbia contato per lui lo testimoniano i frequenti riferimenti al padre e l'attenzione con cui il M. seguì il destino delle sue opere storiche e letterarie. Più in generale, dalla famiglia il M. derivò la sua forma mentis cosmopolita, la convinzione di appartenere alla classe dirigente del suo Paese nonché un'educazione non comune per ricchezza di stimoli.

Nel 1926 il M. si laureò in giurisprudenza a Roma con 110 e lode, con una tesi che suscitò l'interesse di B. Croce – con il quale il M. era in contatto dal 1924 – e che fu pubblicata a Bari per i tipi di Laterza nel 1928 con il titolo Le ideologie politiche.

Difficilmente si potrebbe intendere questo primo lavoro del M. se si prescindesse dall'urgenza con cui la cultura crociana s'interrogava in quegli anni sull'irrazionalismo, tentando di ammodernare l'idea liberale davanti alla sfida totalitaria. In quello studio il M. ripercorreva il dibattito sulle ideologie dal XVIII secolo fino ai suoi giorni; le ideologie – questa la sua conclusione – sono un fenomeno ambiguo, perché hanno natura teorica ma ragion d'essere pratica; pur non essendo razionali sono tuttavia confutabili; sono un dato ineliminabile della vita pubblica.

Questa riflessione giovanile sulle ideologie, nel contesto culturale degli anni Venti, condizionò sempre l'attività pubblica del Malagodi. Egli concepì la politica contemporanea come uno scontro ultimativo tra fascismo e comunismo da un lato e liberalismo democratico dall'altro. Certo che il liberalismo fosse destinato a trionfare, si convinse pure che la sfida andasse vinta sul terreno delle religioni civili. Il liberalismo doveva per lui presentarsi come un sistema di valori certo della propria verità e non disponibile a cedere spazio ad avversari coi quali nessun compromesso era possibile.

Concluso l'iter universitario e dopo aver prestato il servizio militare fra l'ottobre 1924 e il novembre 1925 quale ufficiale di cavalleria, nel dicembre 1926 il M. declinò l'invito di M. Maffii a diventare corrispondente da Londra della Gazzetta del popolo. A quella data aveva già accettato l'offerta, proveniente da G. Toeplitz su sollecitazione del capo della sua segreteria R. Mattioli, di entrare nella Banca commerciale italiana (Comit). In realtà era stato il padre a dissuaderlo, imperante il fascismo, dall'impegnarsi in politica o nel giornalismo, spingendolo verso il mondo bancario. Nel gennaio 1927 il M. cominciò la pratica presso l'avvocato U. Micali.

Nel 1927 entrò come "avventizio" nella sede di Venezia della Commerciale, per un apprendistato in tutti i servizi. All'inizio del 1928 fu in missione in Grecia con L. Toeplitz e in primavera accompagnò a New York Mattioli e G. Toeplitz. Il 26 giugno 1928 fu nominato procuratore di sede a disposizione della direzione centrale, e l'11 luglio fu inviato a Berlino perché studiasse il sistema bancario tedesco – il che il M. fece con uno stage presso la Berliner Handelsgesellschaft dal settembre 1928 al maggio 1929. Dal 13 ag. 1929 fu a Londra, per tornare il 21 genn. 1930 a Berlino, dove rimase fino a maggio. Nel frattempo, il 29 marzo 1930, era stato nominato procuratore addetto alla direzione centrale. Dalla fine di maggio il M. si trasferì a Milano quale vicecapo della segreteria dell'amministratore delegato. In quel ruolo avrebbe lavorato a strettissimo contatto con Mattioli, che fin dal suo ingresso in banca ne aveva seguito la formazione. All'inizio del 1932 il M. fu nominato vicedirettore e un anno dopo condirettore centrale.

In quegli anni il M. fu il principale collaboratore di Mattioli, divenuto nel 1933 amministratore delegato, nel salvataggio della Comit. Lavorò sia alla creazione della Sofindit prima e dell'Istituto per la ricostruzione industriale (IRI) poi – e in particolare al trasferimento in mani pubbliche degli affari finanziari liquidati dalla Comit -, sia, e soprattutto, alla riconversione della Comit da banca d'affari in banca di credito ordinario e all'ammodernamento della sua organizzazione.

Il 4 dic. 1930 il M. sposò Maria Luisa Bein, una berlinese di qualche anno più grande, da cui ebbe i figli Maria Grazia e Giorgio. Il M., che aveva fatto battezzare i figli, si fece battezzare lui stesso a Roma nel luglio 1937.

Nel 1935 aveva acquistato l'Aiola, una tenuta nel Chianti con una grande casa di campagna, che avrebbe conservato per tutta la vita, dove avrebbe trascorso molto tempo e dove si dedicò alla produzione di vino, fino a considerarsi un senese di adozione.

Nell'aprile 1937 il M. fu nominato direttore generale della Banca francese e italiana per l'America del Sud (Sudameris), posseduta al 61% dalla Comit e per larga parte dalla francese Paribas, e si trasferì a Parigi. Nel febbraio 1940 la direzione generale di Sudameris, e il M. ovviamente con essa, fu trasferita da Parigi a Buenos Aires: Comit e Paribas avevano stabilito che durante la guerra l'istituto si sarebbe mosso in autonomia.

Nel giugno 1940, all'indomani dell'invasione della Francia, il M. dovette faticare non poco per convincere il mondo bancario, soprattutto nordamericano, dell'avvenuto distacco di Sudameris dagli istituti europei. Negli anni seguenti, malgrado le crescenti difficoltà di comunicazione, Sudameris riuscì a realizzare utili.

Il M. rientrò in Italia nella primavera del 1947, con la carica di direttore centrale della Comit. Finita la seconda guerra mondiale, si era aperta una fase delicata della vita del Malagodi.

Egli desiderava partecipare alla ricostruzione del Paese, ma era deciso a farlo in posizione di responsabilità, e non intendeva rinunciare al suo tenore di vita. Dati questi presupposti, per sei anni, dal 1947 al 1953, avrebbe faticato a trovare una collocazione: per quanto le sue capacità fossero universalmente riconosciute, le condizioni che poneva, unite a un carattere non facile, rappresentarono ostacoli assai ardui.

Nel giugno 1947 il direttore della Banca d'Italia, D. Menichella, gli propose la direzione dell'ufficio cambi, carica che rifiutò perché troppo esecutiva. Fra la fine di luglio e l'inizio di agosto P. Campilli chiese a Mattioli di poter utilizzare il M. alla Conferenza parigina sulla cooperazione economica europea quale consulente per le questioni bancarie e monetarie. Mattioli e il M. acconsentirono, superando l'ostilità anglo-americana nei confronti del M., inserito durante la guerra nella lista nera alleata insieme con Sudameris e, per ragioni ignote, rimastovi quando la banca ne era stata rimossa. Nell'aprile 1948 nacque l'Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE), e il M. fu chiamato a far parte della delegazione permanente italiana. Da quel momento al 1953 avrebbe rappresentato l'Italia in conferenze e organismi internazionali, oltre a svolgere opera di consulenza per il governo.

Nell'agosto 1949 fece parte del "comitato dei saggi" OECE che arbitrò la suddivisione degli aiuti del Piano Marshall. Dal 1950 al 1953 fu presidente del Comitato manodopera dell'OECE, incarico al quale dedicò molte energie e che lo portò a occuparsi dell'emigrazione italiana. Nel luglio 1950, con A. Cattani, fu l'estensore del memorandum italiano per l'integrazione economica europea, il cosiddetto Piano Pella. Fra la fine del 1950 e l'inizio del 1951 partecipò con A. De Gasperi e C. Sforza alla Conferenza di Washington sulle materie prime. Nel 1951-52 fu membro della delegazione italiana presso la NATO.

In quegli anni, malgrado il suo impegno non riuscì a collocarsi nella struttura dello Stato in una posizione soddisfacente per status e poteri.

Nel febbraio 1949 il ministero degli Esteri gli conferì un incarico di studi retribuito; nell'estate di quell'anno fu nominato consulente economico del ministero col rango di ministro plenipotenziario di 1ª classe, ma la nomina sarebbe giunta soltanto nell'ottobre 1950. Nell'estate del 1951 cominciò a spingere su G. Pella, ministro del Tesoro e Bilancio perché fosse creata la posizione di segretario generale del ministero del Bilancio con compiti di coordinamento complessivo della politica economica italiana, anche nei rapporti con l'economia internazionale. Si candidò per quella posizione ma, alla fine del marzo 1952, l'ipotesi sfumò definitivamente. Con ogni probabilità, a quella data il M. già si era dimesso da tutti i suoi incarichi, con l'eccezione della presidenza del Comitato OECE sulla manodopera; successivamente rifiutò la proposta di rappresentare l'Italia presso la Comunità europea del carbone e dell'acciaio (CECA) e la candidatura a segretario generale aggiunto della NATO. Dall'ottobre collaborò con la commissione parlamentare d'inchiesta sulla disoccupazione presieduta da R. Tremelloni, guidando il gruppo di lavoro sull'emigrazione; nell'agosto 1953 compì una missione in Somalia finalizzata alla preparazione di un piano economico da sottoporre alle Nazioni Unite.

Le pressioni che il M. aveva esercitato perché si creasse una figura di coordinamento della politica economica erano motivate da ambizione personale, ma anche dall'idea che s'era fatta delle necessità del Paese, oltre che dalla coscienza acuta delle proprie responsabilità verso la patria.

Il M. era persuaso che la ricostruzione non potesse avvenire che reintegrando il Paese nell'economia mondiale. Pertanto, considerava le questioni nazionali inseparabili da quelle relative alla cooperazione internazionale, e non nascondeva la propria frustrazione nel notare quanto politici, burocrati e imprenditori italiani fossero insensibili a quel che accadeva fuori dai confini nazionali, e quanto poco coordinati fossero i loro sforzi. Questo suo modo di affrontare i problemi, unito a un anticomunismo adamantino, lo portò a sostenere con forza la cooperazione europea, mai disgiungendola, tuttavia, da una prospettiva atlantica.

Dalla primavera del 1952 il M. cominciò a discutere col presidente della Confederazione generale dell'industria italiana (Confindustria), A. Costa, di un suo possibile impiego in Confederazione, e a stringere rapporti con esponenti dell'imprenditoria italiana, lombarda in particolare. Ben presto emerse tuttavia come in Confindustria non convergessero consensi unanimi sulla sua persona, soprattutto fuori dalla Lombardia. Il M. fu respinto almeno due volte dal comitato di presidenza, e a metà luglio rifiutò una collaborazione libera. Nel dicembre 1952 gli venne proposta da U. La Malfa, ministro del Commercio estero, la presidenza della Terni (secondo il M. anche per scongiurare l'ipotesi di un suo impegno politico); contemporaneamente anche la Confindustria, temendo che egli si legasse all'IRI, gli offrì una consulenza retribuita e la presidenza del costituendo Sindacato Italia e Oltremare, un centro studi finanziato da imprese private. Il M. respinse infine la proposta di La Malfa, avendo maturato la decisione di candidarsi a Milano per la Camera nelle liste del Partito liberale italiano (PLI).

L'impegno che il M. aveva profuso negli organismi internazionali aveva già da tempo generato la sensazione che egli potesse entrare in politica. Fin dall'ottobre 1951 gli erano giunte proposte di collaborazione dal PLI, e dall'autunno del 1952 le relazioni col partito si erano infittite. La scelta di candidarsi si intrecciò strettamente con il definirsi dei rapporti con Confindustria. Meglio ancora, fu il risultato e la garanzia dell'avvicinamento fra il PLI, rappresentato dal suo segretario B. Villabruna, e gli industriali, rappresentati dal presidente di Assolombarda, A. De Micheli. Fin dall'inizio, del resto, la Confederazione aveva pensato di coinvolgere il M. proprio allo scopo di dare maggiore spessore politico alla propria azione. E il M. ne aveva accettato le proposte perché intenzionato ad appoggiare sulla parte più progressiva dell'industria un progetto politico teso a modernizzare il paese nel segno della libertà individuale, dell'integrazione nell'Occidente, dell'anticomunismo.

Così, contestualmente con l'avviarsi della campagna elettorale, all'inizio del 1953, prese forma definitiva il Centro per lo sviluppo economico (CISVE), versione definitiva del Sindacato Italia e Oltremare, del quale il M. fu nominato presidente e consulente generale. La consulenza, che insieme con la presidenza il M. conservò fino alla fine del 1954, prevedeva una retribuzione cospicua.

Nel giugno 1953 il M. fu eletto deputato nella circoscrizione di Milano-Pavia, che fino al 1976 lo avrebbe riconfermato in tutte le successive elezioni. Dal 1979 sarebbe invece passato al Senato, nel quale, fino alle elezioni del 1987, sarebbe stato eletto per il collegio di Milano I.

Egli esordì nella vita di partito con una relazione sulla politica economica italiana che, fatta propria da una commissione, fu approvata per acclamazione, nel gennaio 1953, dal VI congresso liberale.

La relazione si collocava senza incertezze sul terreno del liberalismo economico: la rinascita del Paese, da cui dipendeva anche la soluzione della questione sociale, andava affidata alle capacità imprenditoriali degli individui. Lo Stato doveva coordinare e stimolare le energie individuali conservando stabile la moneta, solido il bilancio pubblico, efficiente l'amministrazione, effettiva la concorrenza, aperte le frontiere.

Una volta eletto, il M. trovò nel PLI un'atmosfera non facile; per quanto desiderasse concentrarsi sugli obiettivi programmatici e restare alla larga dalle beghe di partito, la sua personalità, la sua vicinanza a Confindustria, la situazione politica generale gli impedirono di sottrarsi allo scontro in corso. Fra il dicembre 1953 e il gennaio 1954, convinto che il partito dovesse assumere una posizione più dura nei confronti del Partito socialdemocratico italiano (PSDI) anche a costo di approdare al governo con la Democrazia cristiana (DC) e il Partito nazionale monarchico (PNM), si scontrò civilmente con Villabruna, e più duramente con la sinistra liberale. Al contempo, però, Villabruna spingeva perché il M. si impegnasse nella riorganizzazione del partito, e utilizzasse i suoi rapporti con Confindustria per reperire risorse finanziarie; il che egli non intendeva fare in assenza di precise garanzie politiche.

L'elezione del M. alla segreteria del PLI, all'inizio dell'aprile 1954, maturò in questo contesto di crisi strutturale del partito e di dissenso sulla sua collocazione. Il M. fu eletto quale esponente del centro gradito alla destra, prevalendo di misura su F. Cocco-Ortu, esponente del centro gradito alla sinistra e sostenuto dal segretario uscente. Sull'elezione pesarono anche considerazioni relative alle sue capacità organizzative. Non appena asceso al vertice del PLI il M. cercò di attutire i dissensi interni, puntando nel contempo a rafforzare la propria posizione e a difendersi da quella che gli pareva l'ostilità preconcetta della sinistra e di una parte del centro liberali.

Preconcetta, quell'ostilità, in parte lo era davvero, soprattutto quando si tenga presente che l'alleanza centrista, rinata nel febbraio 1954, era approvata da tutto il partito; che nei primi mesi della sua segreteria il M. non poté assumere iniziative di rilievo; e che gli erano stati affiancati tre vicesegretari (A. Ferioli, G.P. Orsello e A. Bozzi) non aderenti alla sua linea.

Lo scontro fra il M. e la sinistra liberale, che alla fine del 1955 sarebbe sfociato in una scissione, diviene però più comprensibile se si considerano alcuni caratteri della segreteria Malagodi.

In primo luogo, egli riteneva che nell'alleanza centrista – di cui da segretario si fece strenuo difensore – il PLI dovesse svolgere una funzione di riequilibrio sulla destra, e criticava la sinistra liberale per aver abdicato a tale funzione scimmiottando il PSDI. Non era poi difficile, dato il carattere dell'uomo, indovinare fin dall'inizio che avrebbe tenuto il partito in pugno. Infine, era evidente quanto il M. fosse vicino a Confindustria, e disposto a utilizzarne i finanziamenti per rafforzare la propria posizione. Di qui l'accusa che gli mosse il settimanale Il Mondo, di aver consentito che "il nobile partito di Croce e di Einaudi" fosse "affittato (forse neppure comperato) dall'Assolombarda".

Per quanto non infondata, quell'accusa era sbagliata. Il M. era uomo di carattere e di convinzioni. Prioritario per lui rimaneva il disegno che era venuto elaborando fin dal suo rientro in Europa nel 1947. A quel disegno il PLI avrebbe fornito un corpo politico, mentre i ceti produttivi, soprattutto settentrionali, ne avrebbero rappresentato i finanziatori, gli elettori e i sostenitori. Se dagli industriali il M. avrebbe negli anni seguenti, almeno fino alla metà degli anni Sessanta, ottenuto per il PLI finanziamenti cospicui, è anche vero che quei soldi non furono mai sufficienti a sostenere i suoi piani ambiziosi, e che il PLI non fu certo l'unica forza politica sovvenzionata dalla Confindustria.

Che il M. non subordinasse le proprie idee ai rapporti con gli imprenditori lo dimostra in primo luogo il ruolo di rilievo che ebbe nella progettazione della Confintesa – l'organo di pressione politica generato nel 1956 da Confindustria, Confagricoltura e Confcommercio -, che dimostra come in quegli anni non fosse certo la Confindustria a condizionare il M., bensì il contrario. E, in secondo luogo, lo attesta lo scontro che si consumò fra il M. e gli industriali in seguito alla decisione di ritirare l'appoggio al governo Segni, che il PLI prese nel febbraio 1960.

Oltre che alla riorganizzazione del partito, il M. dedicò i primi anni della sua segreteria a precisare il ruolo del PLI quale contrappeso moderato dell'alleanza centrista.

Non si trattava di un ruolo diverso da quello che i liberali avevano svolto nella I legislatura. Tuttavia, la severità ben maggiore con cui il M. lo interpretava, il mutare delle circostanze e lo slittamento del quadro politico verso sinistra contribuivano, sul piano simbolico ancor più che su quello programmatico, a distanziare i liberali dai loro alleati.

I patti agrari furono il principale terreno di scontro fra il PLI e le altre forze della maggioranza. Già nel febbraio 1955 la decisione dei ministri liberali (Villabruna, G. Martino e R. De Caro) di accettare con riserva il compromesso Scelba, che il partito avversava, portò il M. alle dimissioni, poi rientrate nel successivo consiglio nazionale. Nelle estenuanti trattative che si sarebbero svolte fino all'aprile 1957, il M. assunse una posizione di difesa della proprietà che, se coincideva con quella della Confagricoltura, appariva pure coerente con i presupposti ideologici da lui sempre proclamati.

Le fratture interne all'alleanza centrista si aggravarono nella III legislatura, occupata dal tema dell'apertura al Partito socialista italiano (PSI). Il M. avversò duramente qualunque ipotesi di allargamento della maggioranza verso sinistra.

La sua ostilità verso il Partito socialista italiano scaturiva dalla coscienza della distanza ideologica fra liberalismo e socialismo, e soprattutto dalla timidezza con cui il PSI si era distanziato dal Partito comunista italiano (PCI). Più ancora che come formula politica, il centrismo andava salvaguardato come "atmosfera morale", ovvero espressione di fede nella libertà e nella democrazia. Aprire una trattativa col PSI avrebbe significato mettere in discussione le radici etiche, meglio ancora religiose, della scelta occidentale. Così costruito, il Centrosinistra avrebbe avuto conseguenze catastrofiche: avrebbe paralizzato l'azione di governo, portando nella maggioranza punti di vista inconciliabili; compromesso lo sviluppo economico; reintegrato nel gioco politico il PCI, tanto da spingere l'Italia su una china neutralista. Conservare l'alleanza centrista avrebbe invece significato tenere fermi i valori dell'Occidente, e grazie a essi realizzare un programma riformistico ambizioso, che indirizzasse il popolo italiano sulla via della libertà, sottraendo voti ai partiti marxisti e obbligandoli ad accettare la democrazia.

La stessa concezione "religiosa" della libertà che faceva del M. un anticomunista e un oppositore del Centrosinistra, lo portava pure ad avversare l'inclusione del Movimento sociale italiano (MSI) nella maggioranza di governo.

Un rifiuto, quello della "grande Destra", che, su sollecitazione del M., fu approvato quasi all'unanimità dal consiglio nazionale liberale del novembre 1957. La vigilanza ideologica doveva essere esercitata su entrambi i versanti della sfida totalitaria, pure se il M. non aveva dubbi che nella contingenza il pericolo neofascista fosse assai minore del comunista.

Nel passaggio dal centrismo al Centrosinistra, e dunque nella vicenda politica del PLI e del M., il 1960 fu un anno cruciale. Fu proprio il M. ad aprire nel febbraio la crisi del secondo governo Segni, appoggiato da una maggioranza di Centrodestra. Il M. fu criticato per questa scelta, e i suoi rapporti con Confindustria ne furono deteriorati. Si difese sottolineando come quel governo fosse una copertura, atta a tener fermi i partiti moderati mentre si preparava l'apertura al PSI. Nei mesi seguenti il M. continuò a sostenere la necessità che si ricostituisse l'alleanza centrista. Si schierò all'opposizione contro il governo Tambroni, sia per pregiudizio ideologico contro la "grande Destra", sia per sfiducia verso il presidente del Consiglio e il presidente della Repubblica, G. Gronchi. Dopo i fatti di luglio, che condannò fermamente, il M. ebbe un ruolo essenziale nella formazione del governo Fanfani di convergenza quadripartita. Essendosi opposto a Tambroni e avendo sempre sostenuto la necessità di un'alleanza neocentrista, dopo una crisi di quattro mesi culminata con gravissimi incidenti di piazza, il M. non poteva che accettare quella soluzione. Il bilancio del 1960, a ogni modo, non fu per lui positivo: aveva fatto cadere il gabinetto Segni per ritrovarsi con un avvocato dell'apertura al PSI quale A. Fanfani a capo di un governo che tutti, tranne lui, consideravano propedeutico al Centrosinistra.

Negli anni seguenti il M. si dedicò prima a esercitare una funzione di freno nel governo di convergenza, in particolare sulla questione delle "giunte difficili"; poi, a partire dalla formazione del quarto ministero Fanfani, nel febbraio 1962, all'aperta opposizione al Centrosinistra in generale, e in particolare alla nazionalizzazione dell'energia elettrica e all'attuazione dell'ordinamento regionale. In positivo, soprattutto con il IX congresso del PLI dell'aprile 1962, lanciò la proposta dell'alternativa liberale, che recuperava e amplificava gli argomenti sostenuti fino ad allora: il liberalismo doveva rappresentare l'anima ideale di una coalizione centrista che, saldamente attestata dietro una diga anticomunista, avrebbe promosso con una politica riformistica ambiziosa la modernizzazione del Paese.

Presentatosi alle elezioni del 1963 sulla piattaforma dell'alternativa liberale, il PLI arrivò al 7%, la percentuale più alta che avrebbe mai raccolto. In poco meno d'un decennio il M., riorganizzandolo e dandogli un'identità robusta, era riuscito a raddoppiare i voti del partito.

Per quanto le più catastrofiche fra le sue previsioni sul Centrosinistra, soprattutto in politica estera, si fossero rivelate erronee, non vi è dubbio che il M. avesse intuito meglio di altri alcuni fra gli effetti negativi dell'apertura al PSI. Né nel 1963, tuttavia, né ad alcuna delle elezioni successive, si verificò mai la prima condizione dell'alternativa liberale, ovvero che liberali e democristiani potessero governare da soli. La recisa opposizione che, attenuandola talvolta per ragioni tattiche, il M. continuò a fare al Centrosinistra per tutti gli anni Sessanta chiuse dunque il PLI in un angolo dal quale sarebbe uscito solo a discrezione della DC.

Non mancarono di accorgersene gli elettori, che nel 1968 tolsero al partito, alla Camera, più d'un punto percentuale. L'alternativa liberale si allontanava ancora. E a partire dall'XI congresso nazionale, nel gennaio 1969, cominciò a crescere nel partito l'opposizione al Malagodi.

Trovatasi sbarrata la via della costruzione politica, nella seconda metà degli anni Sessanta il M. si impegnò soprattutto sul terreno ideologico.

Già nel 1962 aveva promosso la costituzione della Fondazione Einaudi di Roma, quale sostegno culturale del PLI. Nelle relazioni ai congressi liberali del 1966 e 1969, nell'intervento al convegno della Gioventù liberale del 1968, a Sarnano, l'obiettivo del M. rimaneva quello di dimostrare che il liberalismo non era una forza di conservazione, ma al contrario l'unica davvero progressiva, meglio ancora rivoluzionaria: l'unica che potesse valorizzare la modernità disinnescandone la carica antindividualistica.

Questa riflessione fu amplificata e rilanciata dalla contestazione studentesca, nella quale il M. individuava due componenti: una distruttiva che bisognava combattere, e una libertaria che solo il PLI poteva esprimere. Tali temi il M. sviluppò non solo in patria, ma anche nell'Internazionale liberale (IL), di cui era diventato vicepresidente nel 1955 e presidente nel 1958. Sarebbe rimasto presidente fino al 1966 (fu eletto altre tre volte), e si impegnò a fondo nella carica.

Dell'Internazionale volle soprattutto attivare gli sforzi intellettuali, incentrandone i congressi annuali su specifici argomenti che commissioni apposite dovevano istruire. Nel 1964, per dare ai rapporti che si intrecciavano intorno all'Internazionale liberale uno sbocco più specificamente politico, introdusse la prassi degli incontri periodici fra i leader liberali. In particolare, preparò la bozza della Dichiarazione di Oxford del 1967, aggiornamento del Manifesto del 1947 sul quale l'Internazionale si fondava. La Dichiarazione ribadiva la supremazia dell'individuo sullo Stato, e la necessità di limitare la burocrazia, il potere pubblico e i vincoli al mercato. Come gli altri testi coevi del M., tuttavia, anch'essa attribuiva grande rilievo alle sfide che l'epoca poneva al liberalismo e dava di esso un'interpretazione progressiva: strumento di liberazione dell'individuo, di diffusione del potere e delle risorse, di trasformazione e non conservazione dell'esistente.

Nel 1971 gli equilibri politici cominciarono a mutare e, nel 1972, si costituì una maggioranza centrista comprendente il PLI; il 26 giugno il M., lasciando la segreteria del partito e divenendone presidente, entrò come ministro del Tesoro nel secondo governo Andreotti, che sarebbe rimasto in carica fino al 7 luglio 1973.

La parola d'ordine di quest'unica esperienza ministeriale del M. fu "compatibilità": fra bilancio pubblico e stimolo alla produzione; consumi e investimenti; sviluppo interno e circostanze internazionali; programmazione e libertà; crescita e inflazione.

La politica economica del governo Andreotti-Malagodi è stata molto discussa sia all'epoca, sia nella storiografia, e spesso giudicata negativamente. Da un lato il ministero presiedette a una ripresa economica considerevole; dall'altro vi fu in quei mesi un aumento consistente del deficit pubblico. Più in generale, nel controllo della spesa il governo apparve debole nel resistere alle pressioni parlamentari e sociali e poco rigoroso, per una consapevole strategia del consenso politico e dello stimolo alla crescita economica. La decisione di svalutare la lira facendola uscire dal "serpente monetario" europeo, cui si giunse al principio del 1973, inoltre, avrebbe contribuito in misura considerevole ad accelerare l'inflazione. Nel valutare la politica economica del governo Andreotti-Malagodi, d'altra parte, bisogna tener conto del quadro politico di quegli anni, e dei vincoli entro i quali l'esecutivo dovette muoversi. Il deficit era cresciuto negli anni precedenti e ancor più sarebbe cresciuto nei successivi, seguendo una tendenza di medio periodo che un singolo governo non poteva certo arrestare. Il M. avrebbe rivendicato il merito di aver almeno incrementato in misura assai maggiore le spese in conto capitale di quelle correnti. L'uscita dal "serpente monetario" era una scelta obbligata, semmai tardiva. Il gabinetto, infine, era frenato dalla propria fragilità politica, che andò crescendo col passare dei mesi; e al suo interno il peso del PLI e del M. rimaneva comunque relativo. Nel complesso sembra che la maggiore critica al governo Andreotti-Malagodi debba derivare, più che dal giudizio su quel che fece, dalla distanza esistente fra quel che fece e le aspettative di mutamento che ne avevano accompagnato il nascere.

Proprio i limiti della "centralità", uniti alla subordinazione del PLI agli equilibri interni alla DC e al suo continuo decremento elettorale, portarono alla metà degli anni Settanta i liberali a una grave crisi interna. La maggioranza del M. era infine messa in discussione.

Consapevole del rischio che la sinistra del partito prendesse il sopravvento, o che una scissione riducesse i liberali all'irrilevanza, e di quanto l'ipotesi del compromesso storico avesse mutato i termini dello scontro, nell'estate del 1975 il M. aprì una trattativa per trovare un compromesso fra le tendenze interne al PLI.

Un primo tentativo di soluzione concordata, previsto per il consiglio nazionale dell'ottobre 1975, fallì: la maggioranza malagodiana elesse il M. presidente d'onore del partito, ma non volle eleggere segretario l'esponente della sinistra V. Zanone, com'era stato stabilito. Il M. continuò tuttavia a perseguire la via dell'accordo, che si concretizzò infine nel consiglio nazionale del gennaio 1976. Zanone fu eletto segretario, ma al presidente d'onore e al nuovo presidente, il malagodiano A. Bignardi, furono attribuiti poteri sostanziali, che nei mesi seguenti il M. avrebbe utilizzato al fine di evitare che il PLI superasse il limite per lui insuperabile: l'opposizione a qualunque patto di governo, di qualsiasi genere, col PCI. Si arrivò, così, alle dimissioni nel luglio 1977, quando il PLI firmò la mozione Piccoli che sanciva l'accordo fra la DC e i partiti dell'astensione – una frattura che solo il consiglio nazionale di ottobre sanò, ribadendo l'opposizione al compromesso storico. Nel gennaio 1979, al XVI congresso liberale, la corrente di Zanone conquistò la maggioranza assoluta e il M. perse del tutto il controllo del partito.

La stagione della solidarietà nazionale, d'altra parte, stava ormai tramontando. Zanone avrebbe portato i liberali a quell'incontro col Partito socialista che il M. aveva sempre avversato. Ma il PSI di B. Craxi era ormai sceso sul terreno del riformismo: là dove, sostenne il M. in più di un'occasione, egli lo stava attendendo fin dal 1940.

Negli anni Ottanta il M. si impegnò nell'Internazionale liberale, nella quale era rimasto attivo anche dopo il 1966, prima tornando alla carica di vicepresidente, poi dal 1974 come presidente d'onore e infine ancora come presidente nel 1982.

Nel 1980-81 presiedette il comitato incaricato di preparare la bozza d'un nuovo documento programmatico. Ne sarebbe uscito l'appello di Roma del 1981, che in continuità con la Dichiarazione di Oxford del 1967 avrebbe definito il liberalismo come forza di rinnovamento, aggiornandolo ai bisogni di un'epoca ricca di opportunità ma anche di pericoli. Il M. cercò di rafforzare i legami dell'Internazionale con i singoli partiti liberali e di consolidarne le finanze; sollecitò una revisione dello statuto che rendesse l'Internazionale più agile e politicamente efficace; creò dei collegamenti con le Nazioni Unite e promosse la collaborazione con le altre internazionali, socialista e democristiana, sui temi della democratizzazione, soprattutto dell'America Latina. Nel congresso di Parigi del 1989 il M. fu nuovamente presidente d'onore dell'Internazionale liberale, restando fino all'anno successivo membro attivo della presidenza.

Anche all'interno del PLI, del quale rimase presidente d'onore, negli anni Ottanta il M. si impegnò soprattutto sul terreno ideologico. Nel 1980 fondò la rivista Libro aperto e nelle assise di partito tornò spesso sulla necessità di un maggiore respiro intellettuale del partito, in particolare nel 1985 con una Lettera ai liberali.

Il liberalismo, in questi suoi appelli, appariva un'ideologia d'avanguardia collocata in una posizione centrale. Proprio perché convinto della "centralità" liberale, il M. non apprezzò le novità rappresentate nel mondo anglosassone da Margaret Thatcher e R. Reagan, spintisi a suo avviso in una posizione troppo estrema.

Il 22 apr. 1987, a ridosso dello scioglimento delle Camere e delle elezioni, il M. fu eletto presidente del Senato, carica che avrebbe tenuto per poche settimane, fino all'inaugurazione della X legislatura, avvenuta il 2 luglio.

Nel discorso di insediamento sottolineò il carattere consensuale e unificante della sua elezione, che pure era avvenuta in un momento di aspro scontro politico. Proprio nei mesi in cui ricopriva la carica di presidente del Senato il M. perse la moglie. Un anno dopo sposò Elena Jannotta.

Dal febbraio 1989 al maggio 1990 il M. fu professore a contratto presso l'Università di Siena, e tenne lezioni sulle questioni inerenti al processo di unificazione europea. Proprio all'Europa – alla sua storia e identità, alle complesse vicende del XIX e XX secolo, alla sua integrazione economica e politica – fu dedicato il suo ultimo libro, Lettere senesi a un cittadino d'Europa (Milano 1990).

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