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Editoriali

REGGIO CALABRIA E NEW YORK CITY, NDRANGHETA E MAFIA: SCATTATA L'OPERAZIONE ITALO AMERICANA "NEW BRIDGE"

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Tempo di lettura 6 minuti Verranno eseguiti i provvedimenti di cattura di alcuni personaggi della organizzazione di New York City, emessi della Magistratura Americana

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Redazione

Reggio Calabria – Ieri, la Polizia di Stato (Servizio Centrale Operativo della Direzione Centrale Anticrimine e Squadra Mobile di Reggio Calabria), a seguito di complesse indagini,  ha dato esecuzione al decreto di fermo emesso dalla Direzione Distrettuale Antimafia presso la Procura della Repubblica di Reggio Calabria.
L’indagine, che ha disvelato un’organizzazione criminosa dedita al traffico internazionale di sostanze stupefacenti del tipo eroina e cocaina, è stata caratterizzata dalla sinergia tra Autorità Giudiziarie e Investigative Italiane e Statunitensi, nella specie del U.S. Department of Justicee e Federal Boureau of Investigation, e si è sviluppata, sin dall’inizio, in un costante scambio informativo e di proficua collaborazione mediante attività rogatoriali tempestivamente poste in esecuzione grazie al prezioso apporto dell’Ufficio del Magistrato di Collegamento presso l’Ambasciata degli Stati Uniti d’America a Roma.
In particolare, è stata data esecuzione al provvedimento di fermo di indiziati di delitto, emesso in data 5 febbraio u.s. dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria – Direzione Distrettuale Antimafia nei confronti dei sottoindicati soggetti accusati, a vario titolo, di aver preso parte ad un’organizzazione transazionale finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti del tipo eroina e cocaina tra la Calabria e l’America, avente come riferimento la famiglia di ‘ndrangheta degli URSINO di Gioiosa Jonica (RC) e quella mafiosa siciliana dei GAMBINO di New York City, collegata ad un altro gruppo mafioso armato insediatosi nel territorio di Montefalcone di Val Fortore (BN) e zone limitrofe avente lo scopo di commettere una serie di delitti in materia di armi, contro il patrimonio, la vita e l’incolumità individuale, nonché il commercio di sostanze stupefacenti:

1.    BRILLANTE Carlo, nato a Montefalcone di Valfortore (BN) il 7 ottobre 1965;
2.    CARROZZA Nicola, nato a Marina di Gioiosa Ionica il 24 aprile;
3.    CAVOTO Daniele, nato a Benevento il 21 maggio 1986;
4.    GERANIO Domenico, nato a Locri (RC) il 1° luglio 1982;
5.    IENCO Cosimo, nato a Monroe (U.S.A.) il 29 novembre 1991;
6.    IGNELZI Eugenio, nato in Montreal (Canada) il 31 gennaio 1976;
7.    LACATUS Daniel, nato in Romania il 7 novembre 1974;
8.    MARANDO Cosimo, nato a Gioiosa Ionica (RC) il 3 ottobre 1932; 
9.    MEMMOLO Andrea, nato a Benevento l’11 settembre 1986;
10.    MORABITO Giovanni, detto “u’Scassaporti”, nato a Melito di Porto Salvo (RC) il 26 ottobre 1952;
11.    PARRELLI Vincenzo, nato a Locri (RC) il 22 ottobre 1971;
12.    PISCIONERI Carlo, nato a Marina di Gioiosa Ionica (RC) il 9 agosto 1969;
13.    SIMONETTA Nicola Antonio, nato a Gioiosa Ionica (RC) il 6 luglio 1949;
14.    TAMBURELLO Antonino Francesco, detto “Nick”, nato a Partanna (TP) il 7 febbraio 1969;
15.    URSINI Mario, nato a Gioiosa Ionica (RC) il 20 aprile;
16.    URSINO Francesco, nato a Gioiosa Jonica (RC) il 26 dicembre 1982;
17.    VONELLA Francesco, nato a Catanzaro il 23 gennaio 1987;

Le fasi genetiche delle indagini, avviate dal mese di aprile del 2012 congiuntamente da codesto Servizio e da questa Squadra Mobile, si dipanano da un incontro avvenuto a Brooklyn (U.S.A.) tra  LUPOI Franco ed il  suocero SIMONETTA Nicola Antonio,  indicato quale organico di un potente gruppo criminale della Calabria avente come base logistica Marina di Gioiosa Jonica, nel corso del quale si programmava la gestione un vasto traffico internazionale di sostanze stupefacenti tra l’Italia e gli Stati Uniti d’America, attraverso il porto di Gioia Tauro.

Dopo l’incontro di Brooklyn, grazie alle numerose intercettazioni telefoniche avviate sulle utenze riferibili all’entourage familiare di LUPOI Franco e SIMONETTA Nicola Antonio, emergeva il piano criminale del SIMONETTA, atteso che, dopo il suo rientro in Italia, egli aveva immediatamente avviato una serie di “singolari” contatti con alcuni parenti di suo genero, nonché con URSINO Francesco – figlio del noto URSINO Antonio, ‘alias “Toto”, nato a Gioiosa Jonica l’8 novembre 1949, capo ‘ndrangheta attualmente detenuto – al fine di predisporre la rete necessaria per l’approvvigionamento di droga da inviare in America.

Fin dalle fasi iniziali delle indagini è emersa le figura di PARRELLI Vincenzo, cugino di LUPOI Franco, il quale era in contatto col predetto SIMONETTA per accordarsi circa il traffico di stupefacenti.

Il contesto di riferimento ruota principalmente attorno all’area di Gioiosa Jonica e buona parte dei personaggi indicati sono legati direttamente o indirettamente ad una organizzazione di tipo ‘ndranghetistico che fa capo alla cosca URSINO; difatti, l’indagine ha consentito di individuare un legame, a doppio filo, tra famiglie di ‘ndrangheta, con particolare riguardo alla citata famiglia di Gioiosa Jonica e alcuni personaggi italo-americani, insediati a New York City, di chiara estrazione mafiosa.

In questo senso, è stato fondamentale per l’avvio delle indagini il contributo di un Agente Statunitense sotto copertura, il cui pseudonimo era quello di “Jimmy”, che grazie a un suo fiduciario, è riuscito a infiltrarsi nelle cosche newyorkesi ed a intrecciare rapporti con LUPOI Franco. Ciò ha consentito di svelare un’attività diretta ad assicurare un’esportazione di sostanza stupefacente del tipo eroina dalla Calabria a New York.

In questo senso, i personaggi calabresi hanno posto in essere operazioni funzionali al reperimento di eroina da mettere a disposizione dei partners statunitensi, acquistando stupefacente del tipo eroina sia nel versante Jonico-Reggino, dalla nota famiglia di ‘ndrangheta dei MORABITO di Africo (RC) facente capo a MORABITO Giovanni detto “U Scassaporti”, che nel Nord Italia.

E’ stato di fondamentale importanza il sequestro di un chilo e mezzo di eroina, avvenuto a Reggio Calabria il 27 agosto 2012, che URSINO, LUPOI e GERANIO Domenico consegnavano all’agente Jimmy, nella veste di interposta persona o comunque di ausiliario di Ufficiali di P.G. nominati agenti sotto copertura ai sensi dell’art. 9 Legge 146/06 dalla Direzione Centrale Servizi Antidroga (D.C.S.A.), a seguito dell’avvenuto pagamento di un corrispettivo pari a 30.000. 

Una seconda tipologia di attività ha permesso, in maniera inequivocabile, di individuare le modalità fattuali con le quali importare lo stupefacente del tipo cocaina attraverso il calabrese CARROZZA Nicola; questi, infatti, aveva preso parte ai dialoghi dai quali si evince che URSINO avrebbe elargito un prestito di poche migliaia di euro a PISCIONERI Carlo, un imprenditore nel settore ittico, al fine di aderire al loro progetto. In buona sostanza l’intendimento dei sodali era quello per cui sarebbe stata allestita una attività commerciale (lecita) che doveva fungere da schermo per la importazione e ciò mediante una impresa dedita al commercio di prodotti ittici.

Va evidenziato che la creazione di un canale per l’importazione in Italia di cocaina vedeva sempre come protagonisti, sul fronte americano, LUPOI Franco e, sul fronte italiano, tra gli altri URSINO e GERANIO. In quel contesto, LUPOI, nei periodi in cui si trovava negli Stati Uniti, si serviva di tale PARRELLI Rocco per fungere da “ambasciatore” dei messaggi afferenti il programmato traffico. 

Secondo il programma criminoso, le famiglie calabresi avrebbero acquistato circa 1 milione di euro di cocaina. La droga sarebbe dovuta partire da un mercantile della Guyana per arrivare a Gioia Tauro, stivandola in partite di pesce surgelato.

Un importante riscontro circa il reale oggetto delle trattative è stato offerto da un’operazione di polizia (avvenuta tra il 12 e il 19 novembre 2012), posta in essere in Malesia che ha inciso sull’iter dell’organizzazione della fornitura di droga ostacolando i “programmi” dell'organizzazione italiana e di quella americana in quanto sono stati  sequestrati di circa 76 kg lordi di cocaina in Malesia nei confronti di esponenti dell'organizzazione fornitrice di cocaina della Guyana.
A seguito dell’arenarsi delle attività dirette all'importazione di cocaina attraverso il canale della Guyana, le indagini permettevano di individuare ulteriori proiezioni del traffico internazionale di stupefacenti.
 E invero gli esponenti della famiglia di New York, in particolare LUPOI e VALENTE Raffaele, facevano giungere in Italia, nel mese di aprile del 2013, un loro conoscente di nome TAMBURELLO Francesco Antonio, detto Nik, che, in quel periodo, era stato espulso dagli Stati Uniti d’America. Il coacervo indiziario permetterà di dimostrare come LUPOI e VALENTE abbiano “affidato” il TAMBURELLO  ad un’organizzazione criminosa di stanza nel territorio beneventano finalizzata non solo a commettere reati in materia di stupefacenti. In questo contesto, poi, è emerso un collegamento tra il gruppo criminoso di Gioiosa Jonica (RC) e quello beneventano che è stato rafforzato al punto che i singoli associati sono stati sottoposti a un vincolo più profondo, contrassegnato da affiliazioni e riti tipici di quelli di stampo mafioso.

L’indagine ha permesso di dimostrare chiaramente il ruolo di TAMBURELLO di fungere da collante con i più svariati gruppi criminosi e di sfruttare le proprie pregresse frequentazioni in altrettanto criminosi ambienti americani dove aveva potuto condividere gli stessi interessi. E d’altronde non è un caso se il predetto riusciva a interloquire con personaggi in contatto con narcotrafficanti sudamericani. In questo contesto deve essere messo in risalto il viaggio del TAMBURELLO alle Bahamas (settembre 2013), utilizzando la copertura economica che avrebbero assicurato LACATUS Daniel e un tale “Angelo” (poi identificato in HALILI Bledar) per acquistare il biglietto aereo,  al fine di poter stringere accordi con fornitori di stupefacenti.
A seguito del viaggio alle Bahamas, TAMBURELLO manteneva i contatti sia con i beneventani che con i calabresi ed, a partire dal 21 settembre 2013, egli tramite LUPOI, cominciava a intrattenere rapporti anche con PARRELLI Vincenzo, fino a recarsi in Calabria, a Gioiosa Jonica, insieme ad IGNELZI Eugenio,  il successivo 26 settembre, per mettere in atto i propri progetti criminosi.
Le attività di indagine hanno fatto emergere altresì i connotati mafiosi dell’associazione facente capo a BRILLANTE Carlo. In alcuni dialoghi intercettati, uno degli appartenenti al gruppo “beneventano”, VONELLA Francesco faceva riferimento a un giuramento di sangue esistenti all’interno del gruppo ed indicava i personaggi di spicco del clan in BRILLANTE Carlo, VALENTE Raffaele e AMABILE Michele. Il VONELLA, poi, addirittura parlava di simboli per il riconoscimento degli adepti al gruppo, quali un anello, un “collanone” e un bracciale.

Occorre sottolineare che nel provvedimento di Fermo sono confluiti gli esiti della Commissione Rogatoria richiesta dalla Procura della Repubblica di Reggio Calabria al U.S. Department of Justice di New York City, volta a potere disporre del materiale acquisito dall’agente sotto copertura Jimmy.

In parallelo, negli Stati Uniti, sono stati eseguiti provvedimenti di cattura per il reato di riciclaggio nei confronti di 7 persone residenti in New York e precisamente:
Charles Centaro (riciclatore legato alla famiglia Gambino)
Franco Lupoi (trafficante di stupefacenti legato alla famiglia Gambino e in collegamento diretto con la famiglia Ursino)
Charles Fasarakis (funzionario della Alma Bank di New York)
Dominique Ali (riciclatore collegato a Lupoi e alla famiglia Gambino)
Alexander Chan (mediatore per gli acquisti di cocaina per conto di Lupoi e del cartello sudamericano)
Valente Raffaele (sodale di Lupoi legato ai Gambino, responsabile della costituzione del sodalizio mafioso in provincia di Benevento)
Freddy (fornitore delle partite di eroina e mediatore per gli acquisti di cocaina con il cartello sudamericano)
verranno eseguiti i provvedimenti di cattura di alcuni personaggi della organizzazione di New York City, emessi della Magistratura Americana.
 

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Editoriali

Codice Rosso: un’arma spuntata contro la violenza? [PRIMA PARTE]

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L’intervista a Rosy Andreacchio vicepresidente del Centro Antiviolenza Margherita di Frascati

La violenza occupa sempre di più le pagine di giornali, televisione, web.
La legge 69/2019, nota come Codice Rosso, ha introdotto una serie di strumenti di materie di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere.

A Frascati opera ormai dalla fine del 2023 un Centro Antiviolenza, il Centro Antiviolenza Margherita sezione Castelli Romani, ospitato, grazie al parroco di Cocciano don Franz Vicentini, nei locali della Parrocchia di San Giuseppe Lavoratore.

Abbiamo incontrato Rosy Andreacchio, vicepresidente del Centro Antiviolenza Margherita sezione Castelli Romani al quale abbiamo rivolto alcune domande.

Nella foto don Franz Vicentini, parroco della Parrocchia San Giuseppe Lavoratore di Cocciano e Rosy Andreacchio vicepresidente del Centro Antiviolenza Margherita di Frascati

Innanzitutto grazie per la tua disponibilità e grazie per il servizio che gratuitamente riuscite ad offrire a decine di vittime di violenza che spesso trovano porte chiuse di fronte alle loro problematiche.

Io ho l’abitudine di andare dritto alla questione: cosa succede quando una persona, una vittima di violenza viene da te. Quale è il tuo approccio?
Loro si presentano da me al Centro ma sono molto restie, purtroppo, perché sanno che vanno incontro a tutta una serie di situazione che rischiano di trasformarle da vittime in “carnefici” di sé stesse.

Cioè spiegami meglio
Purtroppo, questo tipo di legislazione di legge che abbiamo porta, diciamo, a questo finale in quanto sono tante le donne che subiscono violenza ma solo 1 su 10 che la subisce poi arriva alla denuncia … le altre no e questo perché hanno paura. Hanno paura in quanto restano sole senza alcun aiuto concreto. Non c’è nessuno, o meglio sono pochissimi gli apparati, diciamo sociali, amministrativi, comunali che riescono a stare al fianco delle donne. La loro paura, che poi diventa realtà, è che alla fine tutto gli si ritorca contro, incominciando dagli altri.


Quindi sole durante la violenza, sole dopo la violenza, quindi il rischio diventa questo.
Si!

Quindi, per capire: io mi rivolgo al centro di violenza antiviolenza perché sono sola, trovo sicuramente te operatrice che mi dai una mano, ma poi chi dovrebbe compiere l’azione di blindare la persona non c’è! Giusto?
Sì! Non c’è perché la legge ti blocca. La legge, la norma li si blocca si ferma, cioè nel senso che poi è il Procuratore che gestisce il cosiddetto Codice rosso. È lui che, in quel momento vede, valuta se la donna deve essere messa in sicurezza o deve essere lasciata lì, così, nella sua quotidianità.

Allora, premesso, io non conosco nel dettaglio la norma relativa al cosiddetto codice rosso a differenza di te che operi in tale ambito . Ma su che parametri dovrebbe decidere? Cioè, mi spiego meglio: io allora io vengo da te e ti dico guarda c’è una persona che mi picchia. A questo punto cosa succede? Quindi tu accerti il caso, allerti gli organi di polizia giudiziaria si arriva davanti al giudice e lui decide. Ma su parametri oggettivi o in base alla sua discrezionalità?
Allora al giudice arriva la denuncia che viene fatta presso gli organi di polizia giudiziaria, caserma dei carabinieri, commissariato di pubblica sicurezza. Deve essere improntata in una certa maniera, cioè bisogna mostrare che esiste un pericolo imminente e quando arriva questa denuncia al procuratore, è poi a sua discrezione decidere se “bloccare” l’aggressore con un braccialetto elettronico o far continuare a far vivere l’aggredito nella sua quotidianità. Il fatto è che purtroppo poi subentrano i servizi sociali nel senso che al momento in cui ad esempio una donna con un figlio, dei figli, si trova ad essere vittima di violenza e, come spesso succede, l’aggressore è il marito che è l’unico che porta reddito in casa, si corre anche il rischio di vedere i figli allontanati da una madre perché questa non è in grado, a loro avviso, di sostenerli economicamente e socialmente. E questo, te lo garantisco, genera davvero ancora più paura nelle donne che si vedono, ancora di più, allontanate dai propri affetti vicini. Ed allora di fronte a queste “concrete possibilità”, questi ostacoli decidono di non denunciare più.

Noi prima di incontrarci ci siamo sentiti al telefono e ci siamo detti una cosa: ho letto di casi di donne che si sono trovate nella situazione che tu mi dicevi – figlio tolto perché non era in grado di sostenerlo economicamente. Queste donne si lamentavano del fatto che nelle case famiglie per la gestione dei bambini lo Stato spende circa 50 euro al giorno. Se faccio i cosiddetti “conti della nonna”: 50 euro al giorno per 30 giorni vengono fuori 1500 euro. Tu sei donna, sei mamma, anche nonna mi hai detto … sappiamo bene che una madre con anche la metà, anche un terzo farebbe di suo figlio davvero un principe, o sbaglio?
Sì! Io vorrei cercare di far arrivare la mia voce, come quella degli altri operatori dei centri antiviolenza, sul tavolo di chi ci governa. È stato tolto il reddito di cittadinanza in quanto troppe lacune nella gestione dei controlli ma di fronte a questi fatti non avrebbe senso di provvedere “immediatamente” ad un reddito che possa tamponare le necessità impellenti di queste donne


Quindi tu saresti d’accordo a che il governo possa generare una sorta di “paracadute economico” per gestire queste situazioni proprio in virtù di quello che ci siamo detti cioè evitare l’isolamento in cui rischiano di finire poi le donne?
Certo che si sarebbe uno degli elementi che metterebbe in sicurezza le persone vittime di violenza, ti dico, tra le altre cose, che ci sono anche molti uomini che vivono la stessa situazione. Cioè permetterebbe loro di vivere in una situazione di maggiore tranquillità. E lo dico perché da prima linea vivo costantemente le paure di queste persone vittime di violenza che si trovano davvero alla mercè, oltre che fisica e psicologica, a dovere dipendere, per sopravvivere, dai loro aggressori dal punto di vista economico.
Quindi, se non ho capito male, quando parli di “prima linea” mi stai confermando il mio pensiero: vengono prima da te che dai carabinieri a denunciare le aggressioni?
Certo che si in quanto la difficoltà maggiore che incontrano queste vittime di violenza è strettamente collegata al fatto di sentirsi sole e di non avere alcun appoggio di fronte a queste situazioni e noi abbiamo il dovere di renderle coscienti anche dei rischi che si troverebbero di fronte ad una eventuale denuncia che rischia di isolarla ancora di più.

In che senso, scusami?
Per quello che ci siamo detti fin ora. Io denuncio resto da sola con mio figlio, il mio aggressore è l’unico che lavora … mi spieghi dove va questa donna a vivere e con quali soldi? E se ci aggiungiamo che in queste situazioni vengono allontanate dal contesto violento e messe in sicurezza senza, molte volte, neanche la possibilità di poter uscire mentre, troppe volte, assistiamo agli aggressori che se la spassano tranquillamente in giro. Quindi una protezione che diventa una sorta di “arresto domiciliare” che non fa altro che generare ulteriore disequilibrio per la persona vittima di aggressione che diventa così isolata, spesso anche senza la possibilità di telefonare a quei pochi amici o amiche. Faccio io una domanda a te: tu riusciresti a vivere cosi?

Di certo no, te lo posso assicurare. Quindi questa in apparenza “blindatura” diventa un vero e proprio isolamento mentre il “mostro”, l’aggressore, se la spassa in giro?
Certo ho assistito ed assisto a numerosi casi di questo genere dove la vittima è isolata e l’aggressore se la spassa in totale tranquillità e se ci sono bambini questi finiscono per la loro “sicurezza” in una casa famiglia spesso separati dal genitore vittima di aggressione.
Io faccio un salto indietro perché mi frulla una cosa in testa: tu all’inizio mi hai parlato di “pericolo imminente” all’interno della denuncia ma poi è il giudice che deve decidere se il “pericolo è imminente o meno”?
No, vuole tutte le fotografie, vuole tutte gli audio che devi mettere da parte a testimonianza delle aggressioni. Per cui se una donna, per esempio, non ce l’ha queste queste cose, o magari ha cambiato telefono bisogna predisporre un altro iter che ovviamente allunga ancora di più i tempi di intervento.

Allora, se ho ben capito, è sempre la soggettività di un giudice che decide.
Sì!

Quindi se lui ravvisa che non c’è rischio se ne assume pure la responsabilità?
Si, dovrebbe essere così

Ragionando per ipotesi: la donna o l’uomo vittima di aggressione vengono uccise dall’aggressore la responsabilità, teoricamente, andrebbe in capo al giudice?
In teoria si, ma non lo è! Ed è questo che non riesco a capire: questa norma che, nella visione, dovrebbe garantire non ha strumenti concreti ed immediati per aiutare le vittime di violenza.

Allora provo a girare la domanda. Se tu domani avessi la possibilità, conoscendo, perché le vivi, le necessità ed i bisogni delle vittime di violenza, quali correzioni porteresti al cosiddetto “Codice Rosso”?
Attuare immediatamente un programma di protezione alla vittima, ma lasciandola libera nella sua casa, magari con i suoi figli, aiutandola magari economicamente ed il carnefice deve essere allontanato. Ti dico che, ad esempio, perché a me piace parlare sul dato concreto, io ho donne che stiamo assistendo e l’unico modo è mandarle in delle strutture in Calabria allontanadole dal loro contesto sociale, famigliare che è invece da sempre qui ai Castelli Romani e la loro colpa è essere vittime di violenza. Quindi oltre il danno la beffa di essere allontanate dai loro spazi di vita.

Anche perché, correggimi se sbaglio, in questo modo gli eventuali figli e anche le condizioni psicologiche di queste persone subirebbero ulteriori danni davvero poi non più quantificabili.
Correttissimo perché, sempre per esperienza, si assiste davvero ad uno sfilacciamento anche del rapporto, ad esempio, tra la mamma, vittima di aggressione, con dei figli. Questi poi si sentono davvero isolati con è un padre violento, con tutte le ripercussioni che questo può generare loro, ed una madre lontana che spesso fatica pure nel mantenere con loro dei rapporti genitoriali completi.

Questa è la prima parte dell’intervista rilasciataci da Rosy Andreacchio, vicepresidente del Centro Antiviolenza Margherita, sezione Castelli Romani, di Frascati.

Domani pubblicheremo la seconda parte nella quale verranno evidenziati anche i problemi delle violenze effettuate da minori verso i loro famigliari.

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Oriana Fallaci: Il coraggio della verità

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Scusaci Oriana,
non ti abbiamo proprio capito.

Non solo ci avevi messi in guardia ma avevi lasciato che quello che tu chiamavi “alieno che vive in me” ti divorasse perché ritenevi più importante educarci alla riscossa dell’Occidente che salvare la tua vita.

Dopo quasi 20 anni dalla tua scomparsa– te ne andasti via in silenzio quel 15 settembre 2006 – siamo ancora con quell’estremismo islamico mascherato da buonismo che si insinua nel nostro pianeta con la rapidità di un virus al quale non siamo un grado di porre rimedio o, meglio, non vogliamo porre rimedio.

Le tue parole, i tuoi gesti, anche estremi, il chador buttato a terra – cencio da medioevo -, non hanno fatto presa.

Purtroppo un ecumenismo buonista ci copre gli occhi.

Gli Stati Uniti, un tempo custodi di un ordine mondiale democratico, si inginocchiano per l’ennesima volta di fronte alle guerriglie talebane divenendo, ancora una volta, artefici di confusione e non di libertà.

Le donne afgane tornano ad essere al pari di animali da riproduzione e nessuna voce si scaglia più contro questa ignominia.

Il sangue di giovani soldati occidentali sparso sulla terra non grida solo giustizia ma verità e rispetto per la loro missione di democrazia.

Il sangue di troppe giovani vittime colpevoli solo di vivere “nella parte sbagliata del mondo” muoiono sotto “bombe intelligenti” che dimostrano, sempre di più, la “stupidità del genere umano”.

Senza dimenticare la continua corsa ad un riarmo che in apparenza vuole imporre la pace ma poi diventa solo “fabbrica di morti”.

Scusami se mi rivolgo a te solo oggi.

Ma sento attorno a me il silenzio della rassegnazione di un mondo prono alla violenza.
Sento l’ipocrisia di chi vorrebbe un mondo organizzato dall’alto con scelte di chi, nel mondo, ormai non vive più perché abituato alle mollezze di un cultura che vuole essere solo di morte e non più di vita.

Oggi saresti stata l’emblema vivente di una riscossa necessaria ad un mondo senza più attributi né coraggio.

Saresti quel punto di riferimento di chi, come me e tanti altri, crede ancora nella possibilità che questo martoriato mondo possa tornare ad essere luogo di pace, di rispetto reciproco, luogo in cui le “libertà individuali” possano divenire valore aggiunto.

Ma, purtroppo, non ci sei più e sentiamo terribilmente la tua mancanza.
Ci manchi, mi manchi!

15 settembre 2006 – 15 settembre 2024

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Omosessualità, il caso del Vescovo Reina e le ombre sulla formazione nei seminari

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L’inchiesta sul Vescovo Reina getta luce su presunte problematiche all’interno della Chiesa, alimentando il dibattito sulla formazione dei sacerdoti e il trattamento dell’omosessualità nei seminari cattolici

L’omosessualità, la maturità umana e i requisiti per il sacerdozio sono temi centrali di un dibattito che negli ultimi anni ha assunto una dimensione sempre più rilevante all’interno della Chiesa Cattolica.

Questo approfondimento de L’Osservatore d’Italia intende analizzare il contesto che coinvolge il Vescovo Baldo Reina, ex rettore del seminario di Agrigento, accusato di aver adottato pratiche discutibili nella formazione dei seminaristi, in particolare riguardo ai candidati con tendenze omosessuali.

La vicenda è stata approfondita in una recente inchiesta giornalistica, che solleva interrogativi sulle dinamiche di discernimento, il rispetto dei “fori” interno ed esterno e la condotta morale all’interno dei seminari cattolici.

La formazione nei seminari: un quadro confuso

Un primo elemento critico è la mancanza di un progetto formativo univoco che regoli la formazione dei seminaristi in modo uniforme in tutta la Chiesa cattolica.
I seminari, infatti, seguono orientamenti e approcci diversi, il che complica il processo di valutazione dei candidati al sacerdozio. In questo contesto, emergono problematiche legate alla gestione delle tendenze omosessuali e al modo in cui queste vengono affrontate durante la formazione.

La Chiesa Cattolica ha stabilito una distinzione tra due concetti fondamentali nella gestione della formazione: il foro interno e il foro esterno. Il primo riguarda l’intimità spirituale e personale del candidato, tutelato dal sigillo sacramentale e gestito da padri spirituali e confessori. Il secondo concerne la dimensione pubblica e formativa del seminarista, supervisionata da rettori e insegnanti. Tuttavia, il confine tra questi due “fori” non sempre viene rispettato, come dimostrato nel caso del seminario di Agrigento.

Tanto si potrebbe scrivere sulle origini e sviluppo della coscienza ecclesiale di questi due “fori” ma prendiamo un intervento di Papa Francesco che vale a spiegare bene in cosa consista: «E vorrei aggiungere – fuori testo – una parola sul termine “foro interno”. Questa non è un’espressione a vanvera: è detta sul serio! Foro interno è foro interno e non può uscire all’esterno. E questo lo dico perché mi sono accorto che in alcuni gruppi nella Chiesa, gli incaricati, i superiori – diciamo così – mescolano le due cose e prendono dal foro interno per le decisioni in quello all’esterno, e viceversa. Per favore, questo è peccato! È un peccato contro la dignità della persona che si fida del sacerdote, manifesta la propria realtà per chiedere il perdono, e poi la si usa per sistemare le cose di un gruppo o di un movimento, forse – non so, invento –, forse persino di una nuova congregazione, non so. Ma foro interno è foro interno. È una cosa sacra. Questo volevo dirlo, perché sono preoccupato di questo». (Papa Francesco – Presentazione della nota sull’importanza del Foro Interno e l’inviolabilità del sigillo sacramentale, 29 giugno 2019.)

La nota sull’intervento, ovviamente, ci aiuta a capire dalle stesse parole di Papa Francesco l’importanza e la serietà con cui vengono visti i due “fori”, specialmente quello interno.

Il caso di Agrigento: “Libertà” o pressioni?

Nel seminario di Agrigento, sotto la direzione di Baldo Reina, un giovane seminarista con tendenze omosessuali è stato inviato a seguire un percorso noto come “Verdad y Libertad”, un programma di guarigione dall’omosessualità, ampiamente criticato e condannato sia dalla comunità scientifica che dalla Chiesa stessa.

La decisione di sottoporre il giovane a questo programma, che ha provocato disorientamento e danni psicologici, è stata presa nel foro esterno, sotto la supervisione di Reina quando era rettore del seminario di Agrigento.

Questo solleva questioni etiche e pastorali, poiché la proposta di partecipare a tali programmi dovrebbe avvenire con il consenso del seminarista, che però si è trovato di fronte a pressioni implicite per conformarsi.

L’elemento più inquietante è l’assenza di separazione tra foro interno ed esterno: il seminarista, che si è confidato spiritualmente, è stato poi giudicato e obbligato a seguire un percorso di “cura” che violava i principi di riservatezza e rispetto del foro interno. Questo modus operandi è stato fortemente criticato, poiché ha sovrapposto il giudizio spirituale a quello formativo, con effetti devastanti sulla persona coinvolta.

Le critiche a Reina: Un giudice unico?

Reina ha agito come giudice unico nel caso del seminarista, dimostrando una gestione della formazione caratterizzata da un’autorità indiscutibile e da un’interpretazione rigida delle norme. L’inchiesta pubblicata su “Domani” evidenzia come il percorso imposto al giovane seminarista non solo mancasse di fondamento medico e psicologico, ma fosse anche moralmente discutibile. Le pratiche proposte dal programma “Verdad y Libertad” sono state condannate in vari paesi, compresa la Spagna, e ritenute contrarie agli insegnamenti della Chiesa stessa (QUI L’ARTICOLO DEL QUOTIDIANO DOMANI).

Un clima di tensione nella Diocesi di Roma

La nomina di Baldo Reina come vescovo ausiliare di Roma ha sollevato preoccupazioni anche per la gestione della Diocesi di Roma, in particolare per quanto riguarda la gestione del patrimonio immobiliare e le dinamiche interne al Vicariato. La presenza di figure discusse, come Don Renato Tarantelli Baccari, ex avvocato diventato sacerdote, e Mons. Michele Di Tolve, ex rettore del seminario lombardo, ha creato un clima di sfiducia e tensione tra i sacerdoti romani. La mancanza di trasparenza e il rischio di favoritismi hanno alimentato il malcontento.

Il caso del Vescovo Reina solleva questioni profonde su come la Chiesa Cattolica gestisce la formazione dei futuri sacerdoti, soprattutto quando si tratta di tematiche delicate come l’omosessualità. L’assenza di un progetto formativo chiaro e la mancata distinzione tra foro interno ed esterno espongono i candidati a pressioni psicologiche e morali che possono compromettere il loro percorso. La Chiesa dovrà riflettere su questi episodi per garantire un ambiente di formazione più rispettoso e trasparente, evitando che si ripetano errori simili.

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