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di Daniele Rizzo
A quasi un mese dal fermo di Massimo Giuseppe Bossetti per l’omicidio di Yara Gambirasio tutti sembrano essere d’accordo: Bossetti è l’assassino di Brembate di Sopra. E nessuno ha più dubbi. Colui che fino al 15 giugno era un buon padre, un buon marito, un lavoratore onesto, dal 16 è diventato un mostro. Anzi, non “un”, ma “il” mostro, la persona che per tre anni e mezzo ha tenuto sotto scacco le forze dell’ordine mettendo in scena l’omicidio quasi perfetto.
Bossetti, individuato grazie al DNA trovato sui vestiti di Yara, continua a professarsi innocente, e a più riprese ha dichiarato di non aver mai visto né conosciuto la vittima. Ma quali sono le prove a sostegno dell’accusa? Innanzitutto il DNA. Il sangue rinvenuto sul corpo della vittima è stato per tre anni cercato dalle forze dell’ordine, fino a quando il famoso “Ignoto 1” è stato rintracciato grazie ad un posto di blocco e al conseguente test dell’etilometro: il fermato era proprio Bossetti.
Ma poi anche tracce di calce rinvenute sui vestiti sarebbero riconducibili al lavoro di muratore condotto da Bossetti. Un video poi mostrerebbe il camioncino del muratore mentre sfreccia tra le vie di Brembate proprio nell’ora e nella zona in cui scomparve la ragazza. Il video, sgranato e buio, consentirebbe però solo parzialmente il riconoscimento del camioncino; la targa, ad esempio, non si riesce a vedere. Ma oltre a queste prove sembrerebbe che gli inquirenti abbiano verificato che il cellulare del presunto omicida si sia agganciato alla stessa cella in cui nel giro di pochi minuti si agganciò anche il telefonino di Yara, e questo testimonierebbe che i due si trovavano nella stessa zona nel medesimo momento.
Ma Bossetti continua a dirsi innocente giurando sui suoi stessi figli. Il sangue rinvenuto sarebbe giustificato dal fatto che il muratore soffre di epistassi, ossia perde spesso sangue dal naso. Il sangue in questione sarebbe quindi finito sulla cassetta degli attrezzi nella quale c’era anche il taglierino con cui è stata seviziata Yara. La cassetta degli attrezzi però, secondo quanto sostiene la difesa, fu rubata al muratore prima dei fatti.
La coincidenza secondo la quale i due telefonini in questione si sarebbero agganciati alla stessa cella sarebbe invece giustificata dal fatto che Bossetti stava in quel periodo lavorando in un cantiere della zona, e quindi passando con la macchina per tornare a casa il suo cellulare si sarebbe casualmente collegato alla cella sott’accusa.
Dall’interrogatorio dello scorso 19 giugno, il primo dopo il fermo, continuano intanto ad emergere nuovi particolari: l’omicidio, secondo una dichiarazione di Bossetti, sarebbe riconducibile ad una vendetta verso il padre di Yara, il geometra Fulvio Gambirasio.
La pista della vendetta personale già da tempo era stata vagliata dagli investigatori, senza che però conducesse ad una svolta. Le indagini ora sono invece indirizzate ad accertare la colpevolezza del muratore bergamasco. Se Bossetti è l’omicida lo scopriremo col tempo. Certo è che se verrà dimostrata la sua non colpevolezza assisteremo al difficile reinserimento nella vita di tutti i giorni di un uomo ormai universalmente etichettato come bestia.
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