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Editoriali

L’INPS e la vigna dei coglioni a via Amba Aradam

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Forse qualcuno avrebbe preferito un titolo meno aggressivo. “Il pozzo di San Patrizio” come titolo non sarebbe stato male. Bello, ma non avrebbe espresso in pieno la gravità.

Papa Clemente VII, allora fece costruire il pozzo con l’intento di tutelarsi in caso di assedio della città di Orvieto in cui si era ritirato. “Essere come il pozzo di San Patrizio” a volte si è usata come espressione per riferirsi ad una riserva misteriosa e sconfinata di ricchezza, altre volte con l’espressione si vuole intendere qualcosa in cui si sprecano risorse ed energie inutilmente, perché non si riempie mai. L’espressione lascerebbe spazio a duplici interpretazioni e per questo è stata scartata.

La vigna dei coglioni, invece, e ci scusiamo per il francesismo, dà chiara l’immagine di quello che si intende descrivere

Una vigna, lavorata, curata, potata, irrigata e ramata, regolarmente e con passione da tanti lavoratori e datori di lavoro che versano nelle casse dell’istituto tanti contributi con l’intento di assicurarsi una degna pensione, una volta che smettono di lavorare.

L’INPS è la più grande gestione pensionistica obbligatoria all’interno dell’UE

Uno dei tre pilastri che reggono il welfare italiano: sanità, assistenza e previdenza. Quest’ultima si basa su prestazioni derivanti esclusivamente dai contributi versati durante l’attività lavorativa. In sostanza si tratta di un salario “differito”.
L’assistenza, al contrario, è ben delineata dall’art.38 della Costituzione, identificandola nel capitolo 1, tutelando i soggetti in condizioni di bisogno ed è attuata direttamente dallo Stato, Regioni ed Enti Locali con risorse derivanti da imposte.
A questo punto è chiara la natura della previdenza e quella dell’assistenza. L’una è frutto di contributi dei lavoratori e l’altra deriva da risorse provenienti da imposte a carico dell’intera collettività.

Come funziona effettivamente l’istituto INPS e la “Vigna dei coglioni” di via Amba Aradam?

Già dal lontano 1989, con la legge n. 88 del 9 marzo di quello stesso anno, il legislatore aveva cercato, inutilmente, di ristrutturare l’Istituto, tentativo fallito, di separare, all’interno del bilancio INPS la previdenza dall’assistenza. L’ultimo tentativo fu fatto nella finanziaria 1997/98, bloccando i trasferimenti generali e cancellando il pregresso debito verso l’INPS che allora era pari a 160 miliardi di euro. Dopo quella data le cose ripresero a camminare come prima ma i bilanci dell’INPS continuano a segnare sempre “rosso”. Con lo scorrere del tempo sono state trasformate molte prestazioni assistenziali in previdenziali e cioè cambiando la loro natura da imposte a carico dell’intera comunità a contributi a carico del lavoro.
La recinzione della Vigna dei Coglioni è stata abbattuta e quando “l’avente veramente diritto” ad usufruirne, gli viene lanciato l’allarme che il bilancio è in rosso e la pensione, “ salario differito” è in forse.

Alla sua vigna è toccata la sorte come quella della Vigna di Renzo, di manzoniana memoria dove:
“Una quantità di vilucchioni arrampicati e avvoltati a’ nuovi rampolli d’un gelso, gli avevan tutti ricoperti delle loro foglie ciondoloni, e spenzolavano dalla cima di quelli le lor campanelle candide e molli; là una zucca selvatica, co’ suoi chicchi vermigli, s’era avvitacchiata ai nuovi tralci d’una vite; la quale, cercato invano un più saldo sostegno, aveva attaccati a vicenda i suoi viticci a quella; e, mescolando i loro deboli steli e le loro foglie poco diverse, si tiravano giù, pure a vicenda, come accade spesso ai deboli che si prendono l’uno con l’altro per appoggio. Il rovo era per tutto; andava da una pianta all’altra, saliva, scendeva, ripiegava i rami o gli stendeva, secondo gli riuscisse; e, attraversato davanti al limitare stesso, pareva che fosse lì per contrastare il passo, anche al padrone”.

Ahinoi anche nell’INPS, la vigna dei coglioni, si arrampicano e si avviticchiano alla “previdenza” una quantità di vilucchioni come gli assegni sociali, l’integrazione al trattamento minimo delle pensioni dei coltivatori diretti e le pensioni d’invalidità ante 1982, tutte e due appartenenti alla voce assistenza che da soli superano di gran lunga i 14 miliardi di euro. Mescolando i loro steli e le loro foglie soffocando la “previdenza” le varie domande di indennità per concedo di maternità, e ora anche di paternità, concedi straordinari per assistenza figli e affidati disabili, concedi straordinari per assistenza fratelli o sorelle, indennità disoccupazione /mobilità/trattamento speciale edili, assistenza familiari disabili in situazione di gravità, sostegno al reddito, assegno per il nucleo familiare e ora viene lecito il dubbio sulla sistemazione del Reddito di cittadinanza e la Pensione di cittadinanza.

La commistione tra previdenza e assistenza è stata da molti rilevata e le controversie sollevate hanno fino ad oggi solamente ritardato ed ostacolato una seria analisi della gestione. Fino ad oggi la confusione nel bilancio dell’INPS continua come sempre e la “vigna dei coglioni!” viene continuamente depauperata, devastata ed abbandonata agli avventurieri. Se per il caotico sviluppo della vigna di Renzo, soffocata da vilucchioni arrampicanti, per Manzoni non prospettava che la Provvidenza, per una sana gestione dell’INPS non rimane che lasciare la sola gestione della “previdenza” all’istituto, affidando le altre prestazioni di assistenza ad un altro da istituire.

E’ solamente un sogno, un desiderio. La confusione nella vigna dei coglioni, però, è realtà e facciamo gli scongiuri che alla Cassa Depositi e Prestiti S.p.A non tocchi la stessa sorte.

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Corsi di recupero per i debiti formativi: dettagli ed efficacia

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Ogni scrutinio di classe è diverso e proprio per questo possono essere decretate promozioni, bocciature o sospensioni di giudizio, nonché i cosiddetti debiti formativi.

In questo articolo non si vuole tanto commentare la decisione di dare 1 o 2 o 3 debiti formativi in una o più discipline, quanto l’efficienza dei corsi formativi che dovrebbero aiutare lo studente, in sospensione di giudizio, a ripassare la materia/e per poi dare l’esame “riparativo” da fine agosto a inizio settembre.

La regola ministeriale sancisce che chi “salda” il debito/i passa all’anno scolastico successivo e chi non lo supera dovrà ripetere l’anno.

Quello che spesso ci si domanda, tra docenti, è quanto l’alunno riesca a comprendere dal corso formativo e quanto sia utile lo studio individuale.

Sicuramente, il corso formativo aiuta l’alunno a ristudiare i punti di fragilità della disciplina in cui ha il debito, ma un buono studio individuale può rendere maggiormente efficace il recupero.

In questo caso, sarebbe necessario avere un’insegnante esterno che possa aiutare lo studente a focalizzarsi sui punti chiave svolti a lezione.

Essenzialmente, per questi motivi sarebbe idoneo:

  • 1. Focalizzare per memorizzare, ma anche per comprendere;
  • 2. Produrre uno schema riassuntivo sugli argomenti che appaiono più fragili da apprendere;
  • 3. Leggere gli schemi e i riassunti ad alta voce;
  • 4. Non darsi un tempo nello studio poiché ogni persona ha i suoi di tempi;
  • 5. Ripetere i concetti chiave più e più volte;
  • 6. Passare ad argomenti successivi;
  • 7. Produrre testi o comprensioni scritte per esercitarsi;
  • 8. Nella fase finale ripassare tutto a scaglioni.

Pertanto, costruirsi uno schema mentale è molto utile sia per l’alunno che per l’insegnante che, caso mai segue, individualmente il ragazzo/a.

Ecco, secondo questa progettualità di recupero, lo studente con debito/i potrebbe arrivare a risultati efficaci e fare “bella figura” davanti alla commissione di recupero. Tuttavia, la proposta vincente è si ai corsi formativi, ma anche un grande si allo studio individuale oppure accompagnato da un docente in rapporto 1/1.

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La linguistica italiana: qual’è l’elemento che si oppone al suo cospetto?

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La lingua italiana nel corso dei secoli ci ha lasciato poemi, trattati, racconti e storie che al giorno d’oggi necessitano di essere interpretati da esperti ( o non ) per poterli conoscere nella loro anima. Pensiamo alla Divina Commedia di Dante Alighieri nella versione volgare dell’italiano … ecco in questo caso per interpretarla dobbiamo “tradurla nell’italiano che si parla oggi”.

Gli studiosi, i docenti possono tradurla, ma chi non è erudito o non possiede le strumentazioni adatte (vocabolari, la conoscenza della storia della lingua italiana etc …) fa sicuramente più fatica a comprenderne il significato.
Tutto quello che la lingua italiana ci ha lasciato necessita di essere analizzato poiché come primo requisito per una giusta comprensione del poema è sapere quando è stato scritto? dove è stato scritto (in quale paese)? che influenze ha subito da parte di altre lingue? quale storia c’è dietro a quel racconto?

Parlare di interpretazione linguistica è banale, si necessità di una vera e propria traduzione, ad esempio dall’italiano volgare del 1200 a quello del 1800.
Ogni epoca ha delle caratteristiche linguistiche in termini diacronici che nessuno può modificare.

Come reca il titolo dell’articolo esiste un elemento che si oppone alla pura lingua italiana (così come la conosciamo oggi): il dialetto.

In molti paesi della nostra penisola il dialetto è conservato e tutt’ora oggi si mantiene vivo. Questo accade sia al nord, al centro che al sud Italia.

L’utilizzo del dialetto, considerato una lingua a tutti gli effetti, è molto in voga in Italia poiché molte persone vogliono mantenere le proprie origini e, non solo, anche la propria unicità/identità. Per tali motivi, assolutamente non banali, la lingua italiana si confronta anche con i vari dialetti.

La dialettofonia rappresenta il suono delle parole di un determinato registro linguistico tipico di una parte della nostra Italia. A volte il solo aspetto fonetico delle parole dialettali ci permette di riconoscere, ad esempio, da quale regione arriva quella tal persona.
Il dialetto “ricalca”, in senso figurato, uno stemma che ciascuno di noi porta nel suo DNA e che non può cancellare. Tuttavia, se una persona non parla il suo dialetto non vuol dire che non gli piaccia o che non sa esprimersi, ma semplicemente possono esserci delle abitudini pregresse che non gli consentono di utilizzare il dialetto.

Solitamente questo è il caso dei giovani d’oggi che preferiscono gli slang ai codici linguistici del proprio dialetto. Una caratteristica sicuramente positiva è mantenere vive le forme dialettali a favore di un loro utilizzo altrettanto diffuso.

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Un anno senza Silvio Berlusconi

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Era il maggio del 2016, mancavano pochi giorni alla sfida tra Beppe Sala e Stefano Parisi candidati sindaco di Milano.
Io ero un “semplice” candidato nel municipio 8 ove ero residente.
Una serata elettorale come tante io, ovviamente, giacca e cravatta come “protocollo detta”.
Si avvicina un amico e mi fa: vuoi venire a salutare il presidente?
Io tentenno – non lo nascondo, mi vergognavo un po’ – lo seguo entro in una stanza.
Presenti lui, il presidente, Maria Stella Gelmini, il mio amico ed un altro paio di persone.
Presidente lui è Massimiliano Baglioni è uno dei candidati del nostro schieramento, dice il mio amico.
Il presidente mi stringe la mano mi saluta e con un sorriso smagliante mi chiede:
Cosa pensa di me?
Ed io, mai avuti peli sulla lingua, rispondo:
Presidente non mi è particolarmente simpatico, lo ammetto, ma apprezzo in Lei quella Follia che ci unisce in Erasmo da Rotterdam.
Sorride si gira verso la Gelmini e dice:
Mary segna il numero di questo ragazzo, mi piace perché dice ciò che pensa.
Si toglie lo stemma di Forza Italia che aveva sulla giacca e lo appende sulla mia.
Non lo nascondo: sono diventato rosso.

Oggi, ad un anno dalla morte di Silvio Berlusconi riapro il cassetto della mia memoria per ricordare questo italiano che ha fatto della Follia un impero economico, una fede calcistica, una galassia di telecomunicazioni.
Conservo con cura quella spilla simbolo di  un sogno, simbolo di libertà.
Grazie ancora, presidente, ma si ricordi: non mi è, ancora oggi, simpatico.

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