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Editoriali

La figura di Leonardo Vitale. Il primo pentito di mafia per conversione

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di Paolino Canzoneri

Il pentitismo ha da sempre evidenziato la propria importanza quale elemento fondamentale per una maggiore comprensione delle dinamiche strutturali delle organizzazioni criminali su tutto il territorio nazionale e internazionale. Che si tratti di mafia, 'ndrangheta o camorra poco cambia; con la collaborazione dei pentiti si è potuto smascherare un sistema occulto che nell'ombra tesseva trame criminali che il più delle volte erano del tutto sconosciute in primis ai palazzi di giustizia e ai cittadini in genere che, per la poca fiducia nelle istituzioni e per timore di ritorsioni, hanno sempre assunto un atteggiamento omertoso coprendo di fatto le malefatte criminali fino a divenire una celata complicità che ha aggiunto danno al danno. Il pentitismo ha comunque evidenziato anche che può esistere umanità anche in coloro che hanno trascorso una vita "sbagliata" a servizio del crimine e compiendo anche delitti efferati. Quindi se da un lato si ottiene un vantaggio in termine di acquisita perizia sulle strutture organizzative criminali e sulle gerarchie che gestiscono le organizzazioni, dall'altro si intuisce come le strutture possano essere vulnerabili grazie ad un elemento non indifferente e potente più di un arma da fuoco che è la coscienza. Nella sentenza di rinvio a giudizio per il Maxiprocesso tenutosi a Palermo nel 1986, il giudice Giovanni Falcone rese omaggio al coraggio di Leonardo Vitale, primo pentito di mafia per conversione religiosa che pagò con la vita la scelta di assecondare il suo cuore e la sua mente rivelando importanti informazioni che i corleonesi punirono pochi mesi dopo uccidendo il pentito all'uscita dalla messa domenicale. Vitale nasce nel 1941 in una famiglia già inserita in una mentalità mafiosa e poco meno che 18enne fu affiliato ad una cosca locale di Altarello di Baida che gli impose quale prova di coraggio l'uccisione di un rivale a cui seguirono una serie di sequestri commissionati dallo zio e dal capomafia Calò. Nel 1972 fu costretto ad una detenzione di poco meno di un mese causata da un arresto che si tramutò presto in un isolamento durissimo che portò a galla una sua sofferenza psicologica e un suo tormento interiore che, una volta libero, non sembrò più abbandonarlo. L'atteggiamento defilato, schivo e sofferente portò la famiglia a preoccuparsi per una possibile instabilità psicologica dovuta a qualche malessere di tipo fisico e psichico. Una sindrome paranoide depressiva gli fu pronosticata da un professore neuropsichiatra che ne consigliò un ricovero. In un mese di cure  prevalentemente a base di psicofarmaci ed elettroshock, Vitale fu condotto al carcere di massima sicurezza dell'isola di Asinara dove trascorse un breve periodo prima di tornare nuovamente in una diversa clinica in Sardegna per un altro ciclo di "cure" che peggiorarno il suo stato di salute rendendolo spesso nervoso ed aggressivo. Iniziarono però a fare breccia spiccati sensi di colpa e consapevolezza di essere un uomo diverso da prima. Nel 1973 Leonardo Vitale si recò in questura dinanzi al commissario Bruno Contrada tutto quello che sapeva su cosa nostra; struttura, vertici, comando, nomi ed affiliati assumendosi le responsabilità della sua affiliazione. Le rivelazioni fruttarono una cinquantina di arresti di esponenti del clan. La prima grave ritorsione alle rivelazioni di Vitale la pagò un cugino che fu ucciso senza scrupoli quale messaggio chiaro rivolto proprio a lui. In un giro vorticoso di accuse di inattendibilità e di infermità mentale fra il suo avvocato e un collegio di periti composto da professori di spicco, a Lenonardo Vitale venne riconosciuta una diagnosi di sindrome schizoide. In carcere fino al 1984, Vitale ebbe una forte conversione spirituale e il 2 dicembre venne ucciso mentre tornava a casa dalla messa domenicale. La mafia non aveva dimenticato il suo "tradimento".

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