Hong Kong nelle fauci del drago cinese

Hong Kong, ancora si poteva chiamare “porto profumato” fino al 30 giugno 1997. Fino a quella
data fu rispettato da tutti e cresceva prospero ed intoccabile. Era considerato una specie di
svizzera asiatica. Tutti lo osannarono fin quando conveniva, finché trovavano il loro tornaconto. Così scriveva Han Suyin, scrittrice cinese naturalizzata inglese Rosalie Elisabeth.
Dopo 156 anni di dominio coloniale britannico, il 1º luglio 1997 avvenne il trasferimento della sovranità di Hong Kong dal Regno Unito alla Repubblica Popolare Cinese.

A fine giugno 2020 il Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo, anziché il Consiglio legislativo di Hong Kong, ha emanato la legge della Repubblica cinese sulla salvaguardia della sicurezza nazionale nella regione amministrativa di Hong Kong.
Tutto ciò in deroga agli impegni sottoscritti dalla Cina e cioè la garanzia a Hong Kong di mantenere il sistema economico capitalista e tutti i diritti e le libertà ai suoi cittadini per i 50 anni successivi al rientro di Hong Kong sotto la sovranità cinese, ossia fino al 2047 .
Con questa legge Pechino si arroga la possibilità di estradare nella Cina continentale tutte le persone accusate di reati gravi, ovvero di crimini punibili con una pena superiore ai sette anni di detenzione. A
seguito di questa “legge bavaglio”, solo il 1 luglio gli arresti sono stati circa 300.
Trump, oramai non rappresenterà più un argine alla prepotenza di Xi Jinping e Joe Biden non fa
bene sperare.

La “dura” opposizione paroliera dell’Ue è stata molto politically correct ed è per
questo che a Pechino non ha sortito alcun effetto. Forse la mossa di Boris Johnson, offrendo la sua disponibilità a concedere passaporti a circa 3 milioni di residenti a Hong Kong è stata più incisiva, tanto vero che ha scatenato tensione tra il premier britannico e il Leader Comunista cinese Xi Jinping.
Davanti a una norma pretestuosa che punisce gli atti di sovversione, secessione, terrorismo e collusione con le forze straniere compiuti nell’ex colonia britannica, come risposta, il Regno Unito ha sospeso con effetto “immediato e a tempo indefinito” il suo trattato di estradizione con Hong Kong, definendo la misura come “necessaria e proporzionata”.

Il governo britannico è andato oltre. Ha annunciato l’imposizione di un embargo sulle forniture a Hong Kong di armi ed equipaggiamento di polizia utilizzabili dai reparti antisommossa contro le proteste, in vigore dal 1989.

Nathan Law ,  il noto politico e attivista cinese, ex leader studentesco, ex presidente del Consiglio di
rappresentanza dell’Unione degli studenti dell’Università di Lingnan, dal suo esilio lancia un specie di hashtag verso l’occidente e verso l’Europa in particolare: “Non fate affari con Pechino”.

L’Europa e per quanto interessa, l’Italia, nicchiano mentre fanno spallucce.

Les affaires sont les affaires come ben sosteneva nell’omonima commedia Octave Mirbeau. Hanno più senso le dichiarazioni universali dei diritti dell’uomo? I residenti di Hong Kong valgono quanto gli altri extra comunitari?

“Siamo tutti fratelli e non dobbiamo sopraffare l’altro”. Chi è che lo spiega a brutto muso a Xi Jinping? Le parole commuovono ma sono i fatti che muovono.