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Editoriali

GIORNO DELLA MEMORIA, DONATO TAGLIENTE: UN MILITARE ITALIANO CHE SI RIFIUTÒ DI COLLABORARE CON I TEDESCHI

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Tempo di lettura 3 minuti L'intervista al Prefetto Francesco Tagliente, figlio di Donato, insignito della medaglia d’onore del Presidente della Repubblica.

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Red. Interni

“La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.” Questo è il testo integrale della legge del 20 luglio 2000 n.211 in cui viene istituito il Giorno della Memoria

Il 27 gennaio è un appuntamento che si rinnova di anno in anno per riflettere in modo approfondito sugli accadimenti del secondo conflitto mondiale, da collocarsi in un quadro storico complesso e sofferto, che ha comportato profondi turbamenti, grandi sofferenze e lutti.
In particolare, la tragedia si è consumata per il popolo ebraico, ma anche per i molti cittadini italiani, militari e civili, che furono deportati e internati in Germania, molti dei quali non fecero più ritorno in Patria.

La ricorrenza si celebra per non dimenticare e per far riflettere le giovani generazioni sulla immane tragedia che sconvolse il mondo intero, ma anche e soprattutto per far sì che analoghe catastrofi umanitarie non si ripetano mai più.
Il legislatore, per risarcire moralmente il sacrificio dei cittadini italiani, militari e civili, deportati ed internati nei lagher nazisti e destinati al lavoro coatto per l’economia di guerra nell’ultimo conflitto mondiale, nel 2006, ha istituito una apposita medaglia d’onore, quale riconoscimento simbolico. E’ oramai consuetudine che la consegna delle medaglie d’onore avvenga, ogni 27 gennaio, nel corso di una solenne cerimonia commemorativa presso la sede della Presidenza della Repubblica e presso tutte le Prefetture.


L’Osservatore d'Italia per non dimenticare ma soprattutto per far riflettere, intende ricordarlo con una intervista a un familiare di un reduce della deportazione, insignito della medaglia d’onore del Presidente della Repubblica.

Abbiamo voluto sentire il Prefetto Francesco Tagliente, figlio di Donato, militare che dopo l’8 settembre 1943, per essersi rifiutato di collaborare con i tedeschi, fu deportato nei campi nazisti in Germania.

D. Dott. Tagliente cosa raccontava suo padre della deportazione e dei Campi nazisti?
R. Mio padre, come molti reduci della deportazione, non amava parlare di quegli anni sottoposto a privazioni di ogni sorta, non voleva farci conoscere il terribile e lungo dolore della fame, di stenti e di inenarrabili sofferenze fisiche e soprattutto morali.
Tra i suoi ricordi del campo di concentramento – raccontati peraltro in famiglia solo negli ultimi anni di vita, sicuramente per non alimentare l’odio verso il popolo che lo aveva deportato e tenuto prigioniero – ricorrevano frequentemente due espressioni in lingua tedesca, rimastegli impresse: “Sie arbeiten mussen” e “Kartoffelscahalen” (“Bisogna lavorare” e “Bucce di patate”).
I suoi ricordi erano comunque legati a periodi di profonda sofferenza, non solo fisica, e alla fame, tanta fame fino al punto di rischiare la vita per andare a cercare negli scarti di cucina anche le bucce di patate.

D. Quanto tempo è rimasto nei campi nazisti?
Due frasi apposte sul suo foglio matricolare, sintetizzano l’arco temporale e il periodo forse più duro e terribile di quegli anni: 9 settembre 1943: “catturato dalle truppe tedesche e condotto in Germania” 6 settembre 1945 “Rientrato in Italia”. Complessivamente però, sono quasi 11 gli anni trascorsi tra campagne di guerra in Libia, Albania, Grecia e Sicilia e deportazione nazista. 11 lunghi anni sottratti ai propri affetti e dedicati silenziosamente al servizio della Patria.
D. Quale è stato il periodo più duro della deportazione di suo padre
R. Dopo la proclamazione dell’Armistizio, l’8 settembre del 1943, i nostri soldati vennero posti davanti alla scelta di continuare a combattere nelle file dell’esercito tedesco o, in caso contrario, essere deportati nei campi di lavoro in Germania. Mio padre di fronte a quella difficile scelta, decise di non venire meno ai suoi doveri, nella consapevolezza che solo così la sua Patria un giorno avrebbe riacquistato la propria dignità di Nazione libera. Rifiutando l’arruolamento nelle file dell’esercito tedesco, venne fatto “prigioniero” e internato in un campo di concentramento in condizioni di vita disumane e sottoposto a privazioni di ogni sorta.
 D. Dott Tagliente che cosa le ha trasmesso suo padre?
R. Mio padre, ha trasmesso, a me e ai miei fratelli, principalmente dei valori morali che ritengo importanti come l’amore per la nostra Patria, la più completa dedizione ad essa, senza compromessi e a costo di rimetterci la propria vita nel corso di 4 campagne di guerra e due anni nei campi nazisti. Da mio padre abbiamo imparato a coltivare il rispetto, la dignità e la consapevolezza di cosa significa servire, amare, difendere il proprio Paese.
 

Editoriali

Corsi di recupero per i debiti formativi: dettagli ed efficacia

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Ogni scrutinio di classe è diverso e proprio per questo possono essere decretate promozioni, bocciature o sospensioni di giudizio, nonché i cosiddetti debiti formativi.

In questo articolo non si vuole tanto commentare la decisione di dare 1 o 2 o 3 debiti formativi in una o più discipline, quanto l’efficienza dei corsi formativi che dovrebbero aiutare lo studente, in sospensione di giudizio, a ripassare la materia/e per poi dare l’esame “riparativo” da fine agosto a inizio settembre.

La regola ministeriale sancisce che chi “salda” il debito/i passa all’anno scolastico successivo e chi non lo supera dovrà ripetere l’anno.

Quello che spesso ci si domanda, tra docenti, è quanto l’alunno riesca a comprendere dal corso formativo e quanto sia utile lo studio individuale.

Sicuramente, il corso formativo aiuta l’alunno a ristudiare i punti di fragilità della disciplina in cui ha il debito, ma un buono studio individuale può rendere maggiormente efficace il recupero.

In questo caso, sarebbe necessario avere un’insegnante esterno che possa aiutare lo studente a focalizzarsi sui punti chiave svolti a lezione.

Essenzialmente, per questi motivi sarebbe idoneo:

  • 1. Focalizzare per memorizzare, ma anche per comprendere;
  • 2. Produrre uno schema riassuntivo sugli argomenti che appaiono più fragili da apprendere;
  • 3. Leggere gli schemi e i riassunti ad alta voce;
  • 4. Non darsi un tempo nello studio poiché ogni persona ha i suoi di tempi;
  • 5. Ripetere i concetti chiave più e più volte;
  • 6. Passare ad argomenti successivi;
  • 7. Produrre testi o comprensioni scritte per esercitarsi;
  • 8. Nella fase finale ripassare tutto a scaglioni.

Pertanto, costruirsi uno schema mentale è molto utile sia per l’alunno che per l’insegnante che, caso mai segue, individualmente il ragazzo/a.

Ecco, secondo questa progettualità di recupero, lo studente con debito/i potrebbe arrivare a risultati efficaci e fare “bella figura” davanti alla commissione di recupero. Tuttavia, la proposta vincente è si ai corsi formativi, ma anche un grande si allo studio individuale oppure accompagnato da un docente in rapporto 1/1.

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La linguistica italiana: qual’è l’elemento che si oppone al suo cospetto?

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La lingua italiana nel corso dei secoli ci ha lasciato poemi, trattati, racconti e storie che al giorno d’oggi necessitano di essere interpretati da esperti ( o non ) per poterli conoscere nella loro anima. Pensiamo alla Divina Commedia di Dante Alighieri nella versione volgare dell’italiano … ecco in questo caso per interpretarla dobbiamo “tradurla nell’italiano che si parla oggi”.

Gli studiosi, i docenti possono tradurla, ma chi non è erudito o non possiede le strumentazioni adatte (vocabolari, la conoscenza della storia della lingua italiana etc …) fa sicuramente più fatica a comprenderne il significato.
Tutto quello che la lingua italiana ci ha lasciato necessita di essere analizzato poiché come primo requisito per una giusta comprensione del poema è sapere quando è stato scritto? dove è stato scritto (in quale paese)? che influenze ha subito da parte di altre lingue? quale storia c’è dietro a quel racconto?

Parlare di interpretazione linguistica è banale, si necessità di una vera e propria traduzione, ad esempio dall’italiano volgare del 1200 a quello del 1800.
Ogni epoca ha delle caratteristiche linguistiche in termini diacronici che nessuno può modificare.

Come reca il titolo dell’articolo esiste un elemento che si oppone alla pura lingua italiana (così come la conosciamo oggi): il dialetto.

In molti paesi della nostra penisola il dialetto è conservato e tutt’ora oggi si mantiene vivo. Questo accade sia al nord, al centro che al sud Italia.

L’utilizzo del dialetto, considerato una lingua a tutti gli effetti, è molto in voga in Italia poiché molte persone vogliono mantenere le proprie origini e, non solo, anche la propria unicità/identità. Per tali motivi, assolutamente non banali, la lingua italiana si confronta anche con i vari dialetti.

La dialettofonia rappresenta il suono delle parole di un determinato registro linguistico tipico di una parte della nostra Italia. A volte il solo aspetto fonetico delle parole dialettali ci permette di riconoscere, ad esempio, da quale regione arriva quella tal persona.
Il dialetto “ricalca”, in senso figurato, uno stemma che ciascuno di noi porta nel suo DNA e che non può cancellare. Tuttavia, se una persona non parla il suo dialetto non vuol dire che non gli piaccia o che non sa esprimersi, ma semplicemente possono esserci delle abitudini pregresse che non gli consentono di utilizzare il dialetto.

Solitamente questo è il caso dei giovani d’oggi che preferiscono gli slang ai codici linguistici del proprio dialetto. Una caratteristica sicuramente positiva è mantenere vive le forme dialettali a favore di un loro utilizzo altrettanto diffuso.

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Un anno senza Silvio Berlusconi

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Era il maggio del 2016, mancavano pochi giorni alla sfida tra Beppe Sala e Stefano Parisi candidati sindaco di Milano.
Io ero un “semplice” candidato nel municipio 8 ove ero residente.
Una serata elettorale come tante io, ovviamente, giacca e cravatta come “protocollo detta”.
Si avvicina un amico e mi fa: vuoi venire a salutare il presidente?
Io tentenno – non lo nascondo, mi vergognavo un po’ – lo seguo entro in una stanza.
Presenti lui, il presidente, Maria Stella Gelmini, il mio amico ed un altro paio di persone.
Presidente lui è Massimiliano Baglioni è uno dei candidati del nostro schieramento, dice il mio amico.
Il presidente mi stringe la mano mi saluta e con un sorriso smagliante mi chiede:
Cosa pensa di me?
Ed io, mai avuti peli sulla lingua, rispondo:
Presidente non mi è particolarmente simpatico, lo ammetto, ma apprezzo in Lei quella Follia che ci unisce in Erasmo da Rotterdam.
Sorride si gira verso la Gelmini e dice:
Mary segna il numero di questo ragazzo, mi piace perché dice ciò che pensa.
Si toglie lo stemma di Forza Italia che aveva sulla giacca e lo appende sulla mia.
Non lo nascondo: sono diventato rosso.

Oggi, ad un anno dalla morte di Silvio Berlusconi riapro il cassetto della mia memoria per ricordare questo italiano che ha fatto della Follia un impero economico, una fede calcistica, una galassia di telecomunicazioni.
Conservo con cura quella spilla simbolo di  un sogno, simbolo di libertà.
Grazie ancora, presidente, ma si ricordi: non mi è, ancora oggi, simpatico.

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