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GDPR, nuovo regolamento europeo sulla protezione dei dati: ecco come cambia il codice sulla privacy,

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Si tratta di una norma che sostituirà l’attuale codice privacy. Tutti i cittadini ne sono interessati. La nuova norma sta destando tanto interesse tra gli addetti ai lavori e altrettanta apprensione tra le imprese e le pubbliche amministrazioni, che dovranno adeguarsi a queste nuove regole.

A destare tanta preoccupazione sono le pesanti sanzioni che possono arrivare a 20 milioni di euro (o al 4% del fatturato mondiale annuo qualora i 20 MLN risultino inefficaci, quindi inferiori in valore al 4% del fatturato).

Tecnicamente il 25 Maggio con l’entrata in vigore del Regolamento Europeo viene abrogata la direttiva europea 95/46/CE, e non il DLgs 196/03 che ha recepito tale direttiva nel nostro ordinamento. Le sorti di quest’ultimo sono rimesse ad un nuovo decreto legislativo, i cui lavori sono in corso, che pare sia orientato alla sua totale abrogazione e che lo andrà a sostituire affiancando il GDPR (General Data Protection Regulation).

Ma andiamo per ordine

L’avvocato Enrico Pellegrini

Cerchiamo di capire innanzitutto perchè c’è stato bisogno di questo intervento normativo da parte dell’Unione Europea e quali sono le novità che verranno introdotte dal GDPR.

Il Regolamento Europeo n.679/2016, d’ora in poi GDPR, nasce dall’esigenza di adeguare il preesistente impianto normativo a tutela dei diritti e delle libertà fondamentali nonché della dignità delle persone fisiche, ad un contesto nel quale la quantità impressionante di informazioni personali trattate, le nuove tecnologie e l’abuso di tali informazioni da parte delle grandi multinazionali, ha portato il cittadino a perdere di fatto il controllo dei propri dati e ad essere continuamente monitorato, profilato e condizionato nella propria vita quotidiana e nelle proprie scelte, tanto da trasformarsi da consumatore a “prodotto”.

Il recente caso di Cambridge Analytica e di Facebook rappresenta solo l’ultima evidenza di questo preoccupante fenomeno, economico e sociale, di mercificazione di dati personali effettuato in via principale, ma non esclusiva, da parte dei BIG del Web.

Le tecnologie, sono diventate così pervasive, da essere entrate di prepotenza nella vita quotidiana di tutti noi. Applicazioni come i “Social network” e i sistemi di messaggistica riscuotono tanto successo e arrivano quasi a creare “dipendenza” perchè di fatto sfruttano una “debolezza umana”, manipolandoci.

Ma i risvolti della “disattenzione” che abbiamo nei confronti rispetto delle informazioni sulla nostra vita che cediamo quotidianamente e gratuitamente, attraverso foto, video, post, “like” e condivisioni, possono costarci caro, come nei casi di “furto di identità”, di quella identità digitale attraverso la quale si commettono frodi o altri reati, che poi ci vengono addebitati.

Questo è il difficile contesto in cui si colloca il GDPR, con l’obiettivo di fornire al cittadino strumenti per riprendere il controllo dei propri dati, e lo fa da un verso riconoscendogli nuovi diritti, come il “diritto all’oblio” e facilitandone l’esercizio, dall’altro imponendo alle aziende di rispettare nuovi obblighi per proteggere le informazioni riferite a persone fisiche, trattate nell’ambito delle proprie attività di business.

La scelta dello strumento normativo, il regolamento, è esso stesso uno strumento per facilitare al cittadino l’accesso ed il controllo sui propri dati, uniformando di fatto la normativa tra tutti gli stati membri, in quanto il regolamento è direttamente efficace e non richiede un recepimento da parte degli stati membri ed il conseguente rischio di “introdurre differenze” nella norma tra i diversi stati, come nel caso della “direttiva”. Questa è una facilitazione perchè il cittadino potrà rivolgersi alla sua Autorità Garante e non doversi preoccupare di affrontare istituzioni estere e norme differenti per esercitare i propri diritti.

Stesso beneficio lo ottengono le imprese operanti a livello internazionale, in quanto avranno un quadro normativo uniforme da dover rispettare.

Ma di fianco a questo principio direttamente connesso allo strumento normativo, il regolamento europeo adotta anche il principio del “targeting” che pone l’obbligo di rispetto delle norme del GDPR anche a imprese stabilite al di fuori dell’unione europea, per il trattamento di dati relativi a cittadini europei. Questo principio costringe anche le Big company del Web, stanziate principalmente oltre oceano, a dover rispettare il GDPR.

Entrando nel merito del GDPR, il vero cambiamento risiede nel fatto che impone, per come è strutturato, un radicale cambio di approccio alla gestione del dato da parte delle imprese e della pubblica amministrazione, e lo fa attraverso il principio di “Responsabilizzazione” (in inglese Accountability) e imponendo l’effettuazione di una “analisi del rischio” per la determinazione di ogni misura di sicurezza da porre a protezione del dato personale, e di ogni intervento organizzativo per evitare effetti sul trattamento che portino ad intaccare i diritti e le liberta fondamentali, nonché la dignità degli interessati.

La “responsabilizzazione” del titolare si traduce nella libertà di autodeterminare “il come” garantire un trattamento conforme al GDPR, nel pieno rispetto dei diritti degli interessati e dei principi del trattamento, tra i quali la sicurezza di quest’ultimo, ma con l’onere di “documentare” e produrre “evidenze” in merito alle sue scelte e all’assolvimento dei suoi compiti, promuovendo l’efficacia degli interventi.

Scompaiono le “misure minime” di sicurezza lasciando spazio esclusivamente a misure di sicurezza che devono rivelarsi “idonee” e preventive a garantire il corretto trattamento dei dati personali e la sua protezione.

L’approccio “preventivo” trova il suo apice nell’introduzione di un nuovo obbligo di conformità che impone la “Protezione dei dati fin dalla progettazione e protezione per impostazione predefinita” (Privacy by design e by default), con il chiaro intento di voler “risolvere il problema alla radice”, di costringere cioè a valutare in anticipo gli effetti che si potrebbero avere sul trattamento dei dati personali e quindi sulle persone fisiche, attraverso un nuovo servizio, un nuovo software, valutando in anticipo le eventuali situazioni di rischio che si potrebbero introdurre ed eliminarne le cause alla fonte.

L’ “Analisi del rischio”, richiamata oltre 70 volte nel GDPR, è un mantra. Il titolare del trattamento non deve mai abbassare la guardia, deve assicurare la correttezza del trattamento e la protezione dei dati, e deve controllare, monitorare e testare le stesse misure di sicurezza che ha autodeterminato per verificarne regolarmente l’efficacia (art. 32, par.1, lettera d) e documentare in appositi registri, tenuti anche in forma elettronica, al fine di dare evidenza di esercitare il controllo e di garantire efficacia, insomma di governare le informazioni che gestisce.

Il livello di responsabilizzazione è tale che il GDPR estende a tutti i titolari del trattamento anche l’obbligo di denunciare all’autorità di controllo (il Garante) eventuali “Data Breach” subiti (violazioni alla sicurezza dei dati) e di farlo entro 72 ore dal momento in cui ne viene a conoscenza.

Una sorta di “autodenuncia” del fallimento delle misure di sicurezza che avrebbero dovuto evitare che la violazione all’integrità o alla riservatezza o alla disponibilità dei dati si verificasse, e delle condizioni che hanno consentito che l’evento avverso si verificasse, il Titolare deve tenerne traccia in un apposito registro oltre che comunicarlo al garante.

Anche in questo l’analisi del rischio ha un ruolo importante, perchè se il rischio rispetto ai diritti e alle liberta fondamentali degli interessanti, derivante dalla violazione, dovesse risultare “alto”, la comunicazione della violazione non dovrà limitarsi all’autorità di controllo, ma deve essere estesa a tutti gli interessati, con una comunicazione “ad personam” e fornendo ogni informazione necessaria in merito alla violazione ed eventuali istruzioni sul “cosa” l’interessato potrebbe fare per evitare ulteriori danni.

In tutto questo, il Garante invita i titolari del trattamento (obbligandoli nel caso della PA e dei titolari privati che effettuano trattamento a rischio) a nominare un “Responsabile per la Protezione dei Dati” (RPD o DPO) al quale affidare il delicato compito supportare il titolare nelle sue scelte, nell’analisi del rischio e di sorvegliare l’intera organizzazione affinché adotti e rispetti le direttive che il titolare vorrà impartire nella propria organizzazione per garantire il rispetto del GDPR, e di facilitare l’esercizio dei diritti da parte degli interessati nonchè le stesse ispezioni del Garante, fungendo da punto di contatto. Questa figura, che non necessità di essere “certificato” ma che deve avere sufficiente esperienza e competenza in merito ai temi connessi alla protezione dei dati personali, dovrà essere nominata entro il 25 maggio ed il suo nominativo congiuntamente alle sue coordinate di contatto, dovrà essere comunicato al Garante.

Il GDPR consente di individuare la figura del DPO anche all’esterno dell’organizzazione, ma attenzione perché la mancata nomina del DPO, ove dovuta, sarà la prima evidenza di aver violato il GDPR.

Ricordatevi anche che le responsabilità restano in capo al Titolare del trattamento, e non si trasferiscono al DPO, quindi scegliete bene chi vi dovrà consigliare e vigilare sul corretto trattamento dei vostri dati, perché i vostri dati sono un bene prezioso.

Enrico Pellegrini

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Editoriali

Oriana Fallaci: Il coraggio della verità

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Scusaci Oriana,
non ti abbiamo proprio capito.

Non solo ci avevi messi in guardia ma avevi lasciato che quello che tu chiamavi “alieno che vive in me” ti divorasse perché ritenevi più importante educarci alla riscossa dell’Occidente che salvare la tua vita.

Dopo quasi 20 anni dalla tua scomparsa– te ne andasti via in silenzio quel 15 settembre 2006 – siamo ancora con quell’estremismo islamico mascherato da buonismo che si insinua nel nostro pianeta con la rapidità di un virus al quale non siamo un grado di porre rimedio o, meglio, non vogliamo porre rimedio.

Le tue parole, i tuoi gesti, anche estremi, il chador buttato a terra – cencio da medioevo -, non hanno fatto presa.

Purtroppo un ecumenismo buonista ci copre gli occhi.

Gli Stati Uniti, un tempo custodi di un ordine mondiale democratico, si inginocchiano per l’ennesima volta di fronte alle guerriglie talebane divenendo, ancora una volta, artefici di confusione e non di libertà.

Le donne afgane tornano ad essere al pari di animali da riproduzione e nessuna voce si scaglia più contro questa ignominia.

Il sangue di giovani soldati occidentali sparso sulla terra non grida solo giustizia ma verità e rispetto per la loro missione di democrazia.

Il sangue di troppe giovani vittime colpevoli solo di vivere “nella parte sbagliata del mondo” muoiono sotto “bombe intelligenti” che dimostrano, sempre di più, la “stupidità del genere umano”.

Senza dimenticare la continua corsa ad un riarmo che in apparenza vuole imporre la pace ma poi diventa solo “fabbrica di morti”.

Scusami se mi rivolgo a te solo oggi.

Ma sento attorno a me il silenzio della rassegnazione di un mondo prono alla violenza.
Sento l’ipocrisia di chi vorrebbe un mondo organizzato dall’alto con scelte di chi, nel mondo, ormai non vive più perché abituato alle mollezze di un cultura che vuole essere solo di morte e non più di vita.

Oggi saresti stata l’emblema vivente di una riscossa necessaria ad un mondo senza più attributi né coraggio.

Saresti quel punto di riferimento di chi, come me e tanti altri, crede ancora nella possibilità che questo martoriato mondo possa tornare ad essere luogo di pace, di rispetto reciproco, luogo in cui le “libertà individuali” possano divenire valore aggiunto.

Ma, purtroppo, non ci sei più e sentiamo terribilmente la tua mancanza.
Ci manchi, mi manchi!

15 settembre 2006 – 15 settembre 2024

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Editoriali

Omosessualità, il caso del Vescovo Reina e le ombre sulla formazione nei seminari

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L’inchiesta sul Vescovo Reina getta luce su presunte problematiche all’interno della Chiesa, alimentando il dibattito sulla formazione dei sacerdoti e il trattamento dell’omosessualità nei seminari cattolici

L’omosessualità, la maturità umana e i requisiti per il sacerdozio sono temi centrali di un dibattito che negli ultimi anni ha assunto una dimensione sempre più rilevante all’interno della Chiesa Cattolica.

Questo approfondimento de L’Osservatore d’Italia intende analizzare il contesto che coinvolge il Vescovo Baldo Reina, ex rettore del seminario di Agrigento, accusato di aver adottato pratiche discutibili nella formazione dei seminaristi, in particolare riguardo ai candidati con tendenze omosessuali.

La vicenda è stata approfondita in una recente inchiesta giornalistica, che solleva interrogativi sulle dinamiche di discernimento, il rispetto dei “fori” interno ed esterno e la condotta morale all’interno dei seminari cattolici.

La formazione nei seminari: un quadro confuso

Un primo elemento critico è la mancanza di un progetto formativo univoco che regoli la formazione dei seminaristi in modo uniforme in tutta la Chiesa cattolica.
I seminari, infatti, seguono orientamenti e approcci diversi, il che complica il processo di valutazione dei candidati al sacerdozio. In questo contesto, emergono problematiche legate alla gestione delle tendenze omosessuali e al modo in cui queste vengono affrontate durante la formazione.

La Chiesa Cattolica ha stabilito una distinzione tra due concetti fondamentali nella gestione della formazione: il foro interno e il foro esterno. Il primo riguarda l’intimità spirituale e personale del candidato, tutelato dal sigillo sacramentale e gestito da padri spirituali e confessori. Il secondo concerne la dimensione pubblica e formativa del seminarista, supervisionata da rettori e insegnanti. Tuttavia, il confine tra questi due “fori” non sempre viene rispettato, come dimostrato nel caso del seminario di Agrigento.

Tanto si potrebbe scrivere sulle origini e sviluppo della coscienza ecclesiale di questi due “fori” ma prendiamo un intervento di Papa Francesco che vale a spiegare bene in cosa consista: «E vorrei aggiungere – fuori testo – una parola sul termine “foro interno”. Questa non è un’espressione a vanvera: è detta sul serio! Foro interno è foro interno e non può uscire all’esterno. E questo lo dico perché mi sono accorto che in alcuni gruppi nella Chiesa, gli incaricati, i superiori – diciamo così – mescolano le due cose e prendono dal foro interno per le decisioni in quello all’esterno, e viceversa. Per favore, questo è peccato! È un peccato contro la dignità della persona che si fida del sacerdote, manifesta la propria realtà per chiedere il perdono, e poi la si usa per sistemare le cose di un gruppo o di un movimento, forse – non so, invento –, forse persino di una nuova congregazione, non so. Ma foro interno è foro interno. È una cosa sacra. Questo volevo dirlo, perché sono preoccupato di questo». (Papa Francesco – Presentazione della nota sull’importanza del Foro Interno e l’inviolabilità del sigillo sacramentale, 29 giugno 2019.)

La nota sull’intervento, ovviamente, ci aiuta a capire dalle stesse parole di Papa Francesco l’importanza e la serietà con cui vengono visti i due “fori”, specialmente quello interno.

Il caso di Agrigento: “Libertà” o pressioni?

Nel seminario di Agrigento, sotto la direzione di Baldo Reina, un giovane seminarista con tendenze omosessuali è stato inviato a seguire un percorso noto come “Verdad y Libertad”, un programma di guarigione dall’omosessualità, ampiamente criticato e condannato sia dalla comunità scientifica che dalla Chiesa stessa.

La decisione di sottoporre il giovane a questo programma, che ha provocato disorientamento e danni psicologici, è stata presa nel foro esterno, sotto la supervisione di Reina quando era rettore del seminario di Agrigento.

Questo solleva questioni etiche e pastorali, poiché la proposta di partecipare a tali programmi dovrebbe avvenire con il consenso del seminarista, che però si è trovato di fronte a pressioni implicite per conformarsi.

L’elemento più inquietante è l’assenza di separazione tra foro interno ed esterno: il seminarista, che si è confidato spiritualmente, è stato poi giudicato e obbligato a seguire un percorso di “cura” che violava i principi di riservatezza e rispetto del foro interno. Questo modus operandi è stato fortemente criticato, poiché ha sovrapposto il giudizio spirituale a quello formativo, con effetti devastanti sulla persona coinvolta.

Le critiche a Reina: Un giudice unico?

Reina ha agito come giudice unico nel caso del seminarista, dimostrando una gestione della formazione caratterizzata da un’autorità indiscutibile e da un’interpretazione rigida delle norme. L’inchiesta pubblicata su “Domani” evidenzia come il percorso imposto al giovane seminarista non solo mancasse di fondamento medico e psicologico, ma fosse anche moralmente discutibile. Le pratiche proposte dal programma “Verdad y Libertad” sono state condannate in vari paesi, compresa la Spagna, e ritenute contrarie agli insegnamenti della Chiesa stessa (QUI L’ARTICOLO DEL QUOTIDIANO DOMANI).

Un clima di tensione nella Diocesi di Roma

La nomina di Baldo Reina come vescovo ausiliare di Roma ha sollevato preoccupazioni anche per la gestione della Diocesi di Roma, in particolare per quanto riguarda la gestione del patrimonio immobiliare e le dinamiche interne al Vicariato. La presenza di figure discusse, come Don Renato Tarantelli Baccari, ex avvocato diventato sacerdote, e Mons. Michele Di Tolve, ex rettore del seminario lombardo, ha creato un clima di sfiducia e tensione tra i sacerdoti romani. La mancanza di trasparenza e il rischio di favoritismi hanno alimentato il malcontento.

Il caso del Vescovo Reina solleva questioni profonde su come la Chiesa Cattolica gestisce la formazione dei futuri sacerdoti, soprattutto quando si tratta di tematiche delicate come l’omosessualità. L’assenza di un progetto formativo chiaro e la mancata distinzione tra foro interno ed esterno espongono i candidati a pressioni psicologiche e morali che possono compromettere il loro percorso. La Chiesa dovrà riflettere su questi episodi per garantire un ambiente di formazione più rispettoso e trasparente, evitando che si ripetano errori simili.

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Cronaca

Renato Vallanzasca: L’ex boss della Comasina lascia il carcere dopo 52 anni. Dal mito criminale all’oblio di una RSA

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Affetto da gravi problemi cognitivi, l’ex criminale viene trasferito in una struttura per malati di Alzheimer. Ma il suo passato di violenza e crimini non verrà dimenticato

Dopo oltre mezzo secolo dietro le sbarre, Renato Vallanzasca, un nome che ha segnato la storia della criminalità italiana, lascia il carcere. L’ex capo della famigerata “banda della Comasina” ha ricevuto il differimento della pena per motivi di salute: a 74 anni, Vallanzasca è affetto da una grave forma di decadimento cognitivo che lo rende incompatibile con il regime carcerario. Il tribunale di Sorveglianza di Milano ha accolto la richiesta dei suoi legali, supportata anche dalla Procura generale, di trasferirlo in una RSA per malati di Alzheimer e demenza.

Il mito oscuro di Vallanzasca

Renato Vallanzasca non è un nome qualunque. Negli anni ’70 e ’80, la sua “banda della Comasina” terrorizzava l’Italia con una serie di crimini violenti: rapine, sequestri di persona, omicidi ed evasioni. Nato a Milano nel 1950, Vallanzasca crebbe nel quartiere popolare della Comasina, dove ben presto intraprese una carriera criminale che lo avrebbe reso celebre. Insieme ai suoi complici, organizzò rapine spettacolari, mostrando una spregiudicatezza e una violenza che lo resero uno dei criminali più temuti del Paese.

Negli anni, Vallanzasca divenne una figura quasi leggendaria: un bandito che sfidava apertamente le forze dell’ordine, riuscendo a evadere più volte dal carcere. Il suo fascino, costruito su un mix di audacia e ribellione, lo rese celebre non solo tra i criminali, ma anche in certi settori della società civile, che lo vedevano come un simbolo di resistenza all’autorità.

L’arresto e i processi

Dopo anni di crimini e inseguimenti, Vallanzasca fu arrestato definitivamente nel 1977. Il processo che ne seguì fu lungo e complesso, con testimonianze che svelarono la rete di crimini e connivenze che avevano permesso alla sua banda di prosperare. Condannato a quattro ergastoli per omicidi, rapine e sequestri, Vallanzasca è rimasto in carcere per oltre 50 anni, senza mai beneficiare di una riduzione della pena.

Il declino e la decisione del tribunale

Nel corso degli anni, l’ex boss ha visto il suo stato di salute peggiorare drasticamente. Affetto da Alzheimer e ormai incapace di badare a sé stesso, Vallanzasca è stato descritto dai medici come “disorientato nel tempo e nello spazio” e “incapace di esprimere con il linguaggio ciò che pensa”. Questa grave forma di decadimento cognitivo ha spinto i suoi legali a chiedere il differimento della pena, ritenendo il carcere ormai incompatibile con le sue condizioni di salute. La richiesta è stata accolta dal tribunale di Sorveglianza di Milano, che ha disposto il trasferimento di Vallanzasca in una RSA nella provincia di Padova, dove sarà sottoposto a un regime di detenzione domiciliare.

Un epilogo controverso

Il trasferimento di Vallanzasca in una struttura assistenziale segna l’epilogo di una storia criminale che ha lasciato cicatrici profonde nella società italiana. Nonostante il deterioramento delle sue condizioni di salute, il nome di Vallanzasca rimane legato a un passato di violenza e paura. La sua storia, che in passato aveva affascinato il pubblico per la sua audacia, oggi si conclude con l’immagine di un uomo fragile, incapace di riconoscere il mondo che lo circonda. Ma il ricordo dei suoi crimini, delle vittime e della sua sfida alle istituzioni resterà indelebile nella memoria collettiva.

Il trasferimento in RSA, previsto nei prossimi giorni, segna un momento storico: la fine della detenzione di uno dei più noti e controversi criminali italiani. Tuttavia, le cicatrici lasciate dai suoi crimini sono destinate a rimanere.

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