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Editoriali

E la chiamavano Europa unita: fallimento e aborto di un sogno

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La chiamavano Europa Unita. Sognavano un comune sviluppo economico e quindi il benessere. Tutti solidali nel ripudiare la guerra. Sani principi, eroici propositi ma, ahinoi, onirici traguardi, miseramente disattesi affidati a mediocri statisti, sconosciuti che si spostano tra Bruxelles e Strasburgo. Così del nobile progetto non è rimasto che un indigeribile e puro monetarismo

Il naufragio del sogno dei padri fondatori nel mare del vuoto politico

Qualora ci fosse stato bisogno di dare prova della mancanza di unità tra gli Stati membri, la guerra del dazio di Trump sarebbe bastata. Questa volta la leggendaria ricchezza del vecchio continente rischia veramente. Come ha reagito a questa minaccia la così detta “Europa Unita? Autonomamente ed in ordine sparso i leader di ciascun Paese si sono recati a Washington, ognuno a curare il proprio orticello. Molti si domandano come mai i paesi di Visegrad e i vecchi alleati non risultano ostili e non sono critici verso questa “Unione Europea”. Si capisce perfettamente. Prima perché in molti non hanno aderito alla moneta unica e poi perché l’europeismo di Orban, Kurz ed altri a loro vicini gli fa comodo nel tenere in piedi il mercato unico e più importante perché beneficiano generosamente della spartizione dei fondi di sviluppo.

L’agenda del “poi poi” e la politica immigrazione del “mai mai” europea

Capifila ostili a una vera politica dell’emigrazione, sono sempre i paesi Visegrad, quelli stessi a favore e fruitori della spartizione dei fondi di sviluppo. Poi ci sono i paesi del nord che molto egoisticamente si sentono abbastanza lontani dagli sbarchi e chiudendosi bene dentro le frontiere proprie si sentono al sicuro. Francia e Germania fanno coppia e pretendono di dire agli altri quello che non vogliono che altri dicano a loro. Intanto l’emigrato africano sogna di integrarsi in questa società europea così “moderna”, così “opulenta”, i barconi continuano a partire dalle coste libiche e le Ong fanno la spola tra un barcone e l’altro, poi fanno rotta, destinazione Lampedusa, mentre l’Europa sta a guardare. Ultimo episodio del comportamento scorretto che gli Stati commettono l’uno contro l’altro lo abbiamo letto giorni fa: Poliziotti belgi fermati in Francia con autobus pieno di migranti irregolari. Gli agenti volevano semplicemente riaccompagnare i profughi al confine ma per errore lo hanno superato di cinquanta metri.

L’ambiguità e il paradosso del ripudio della guerra

A questa “Europa Unita” due terribili guerre mondiali non hanno insegnato niente. Forze armate dei suoi singoli Stati si trovano attualmente stanziate in zone dei peggiori conflitti come Siria, Iraq, Afghanistan, Libia e non solo. Li chiamano “peace makers”, portatori di pace. Sarà ma molte armi di distruzione in quelle zone sone di fabbricazione di paesi europei. I commercianti e quindi i fornitori ai paesi in guerra, sono di cittadinanza europea. Come si può coniugare ripudio della guerra e fornitura di armi di distruzione? Solo in un modo. L’Europa Unita non è unita e i vari Stati operano in ordine sparsa.

Continuano a chiamarla “Europa Unita”

Ventotto Stati quasi sovrani, sfilano a testa bassa davanti a una Commissione europea, come i capponi di Renzo, presi da una furibonda litigiosità, non fanno altro che beccarsi l’un l’altro, senza rendersene conto che senza il reciproco aiuto, tutti rischiano di finire in pentola come i capponi manzoniani.

Fra gli Stati membri una concorrenza senza quartiere

Così tutti i 28 aggiustano i loro comodi e non sdegnano di fare concorrenza l’un l’altro. Si citano alcuni esempi: Le retribuzioni nazionali minime sono una rappresentazione plastica di quanto siano distanti i paesi membri della tanto osannata Unione. Per fare chiaro il concetto secondo dati Eurofound/Eurostat, al primo gennaio 2019 queste retribuzioni minime variano dall’1,62 euro all’ora della Bulgaria alle 11,97 euro l’ora di Lussemburgo. Altro vulnus in questa Europa Unita è rappresentato dai differenti regimi fiscali adottati in piena autonomia dagli Stati membri. Spicca la pressione fiscale della Lituania al 20,9%, quella dell’Albania al 22,9%, la Croazia al 26,6%, così via per finire a sbattere in Italia che secondo l’Ufficio Studi della Cgil, nel 2019 rischia di sfiorare ed andare oltre il 43%. Onestà intellettuale vuole che si dica che l’Italia non è il Paese più tassato d’Europa. La Danimarca, la Svezia, la Finlandia e la Norvegia superano l’Italia ampiamente però garantiscono servizi efficientissimi, cosa che non sempre si può dire dell’Italia. Comunque tutto questo conferma che l’unione è solo una chimera.

Non finisce qui, si può andare ancora avanti

Sebbene l’Iva venga imposta in tutta l’Unione, sempre per non smentirci, ogni Stato membro fissa le proprie aliquote. L’osare a sindacare i vari sistemi dell’istruzione scolastica diventa un’impresa. A che età i bambini dei singoli Stati cominciano la scuola primaria? Quanto dura l’istruzione secondaria in Spagna, in Svezia, in Irlanda ed in Portogallo? Quali sono le materie obbligatorie? Le università? Andare avanti non conviene se non si vuole entrare in un labirinto. Il percorso diventa più arduo se si intraprende la strada del Welfare state, il benessere sociale. Se poi si vuole informarsi sul sistema pensionistico dell’Unione bisogna interpellare ogni singolo Stato. Non c’è un sistema comune. In Germania il sistema varia secondo categoria e settore produttivo. In Spagna c’è un unico regime, statale e obbligatorio, con pensione minima che sostituisce la vecchia “assistenza sociale”. In Italia un altro sistema ancora. Sempre un‘Europa che marcia disorganizzata in ordine sparso.

Nota dolente è la gestione dei sistemi sanitari negli Stati membri dell’Unione

Questi, del resto come ogni altra gestione, nell’Unione sono gestiti in modi molto diversi. Per fare un esempio basti dire che l’assistenza sanitaria tedesca non è gratuita ed è obbligatoria dal momento in cui si registra come residente nel Paese. Questo solleva il caso di immigranti non registrati come residenti! Cosa succede? Al lettore l’ardua risposta. Paese che vai usanza che trovi. Stato membro che vai sistemi autonomi che trovi. Così è se vi pare. Aveva più che ragione Bartali: L’è tutto sbagliato… l’è tutto da rifare.

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Corsi di recupero per i debiti formativi: dettagli ed efficacia

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Ogni scrutinio di classe è diverso e proprio per questo possono essere decretate promozioni, bocciature o sospensioni di giudizio, nonché i cosiddetti debiti formativi.

In questo articolo non si vuole tanto commentare la decisione di dare 1 o 2 o 3 debiti formativi in una o più discipline, quanto l’efficienza dei corsi formativi che dovrebbero aiutare lo studente, in sospensione di giudizio, a ripassare la materia/e per poi dare l’esame “riparativo” da fine agosto a inizio settembre.

La regola ministeriale sancisce che chi “salda” il debito/i passa all’anno scolastico successivo e chi non lo supera dovrà ripetere l’anno.

Quello che spesso ci si domanda, tra docenti, è quanto l’alunno riesca a comprendere dal corso formativo e quanto sia utile lo studio individuale.

Sicuramente, il corso formativo aiuta l’alunno a ristudiare i punti di fragilità della disciplina in cui ha il debito, ma un buono studio individuale può rendere maggiormente efficace il recupero.

In questo caso, sarebbe necessario avere un’insegnante esterno che possa aiutare lo studente a focalizzarsi sui punti chiave svolti a lezione.

Essenzialmente, per questi motivi sarebbe idoneo:

  • 1. Focalizzare per memorizzare, ma anche per comprendere;
  • 2. Produrre uno schema riassuntivo sugli argomenti che appaiono più fragili da apprendere;
  • 3. Leggere gli schemi e i riassunti ad alta voce;
  • 4. Non darsi un tempo nello studio poiché ogni persona ha i suoi di tempi;
  • 5. Ripetere i concetti chiave più e più volte;
  • 6. Passare ad argomenti successivi;
  • 7. Produrre testi o comprensioni scritte per esercitarsi;
  • 8. Nella fase finale ripassare tutto a scaglioni.

Pertanto, costruirsi uno schema mentale è molto utile sia per l’alunno che per l’insegnante che, caso mai segue, individualmente il ragazzo/a.

Ecco, secondo questa progettualità di recupero, lo studente con debito/i potrebbe arrivare a risultati efficaci e fare “bella figura” davanti alla commissione di recupero. Tuttavia, la proposta vincente è si ai corsi formativi, ma anche un grande si allo studio individuale oppure accompagnato da un docente in rapporto 1/1.

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La linguistica italiana: qual’è l’elemento che si oppone al suo cospetto?

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La lingua italiana nel corso dei secoli ci ha lasciato poemi, trattati, racconti e storie che al giorno d’oggi necessitano di essere interpretati da esperti ( o non ) per poterli conoscere nella loro anima. Pensiamo alla Divina Commedia di Dante Alighieri nella versione volgare dell’italiano … ecco in questo caso per interpretarla dobbiamo “tradurla nell’italiano che si parla oggi”.

Gli studiosi, i docenti possono tradurla, ma chi non è erudito o non possiede le strumentazioni adatte (vocabolari, la conoscenza della storia della lingua italiana etc …) fa sicuramente più fatica a comprenderne il significato.
Tutto quello che la lingua italiana ci ha lasciato necessita di essere analizzato poiché come primo requisito per una giusta comprensione del poema è sapere quando è stato scritto? dove è stato scritto (in quale paese)? che influenze ha subito da parte di altre lingue? quale storia c’è dietro a quel racconto?

Parlare di interpretazione linguistica è banale, si necessità di una vera e propria traduzione, ad esempio dall’italiano volgare del 1200 a quello del 1800.
Ogni epoca ha delle caratteristiche linguistiche in termini diacronici che nessuno può modificare.

Come reca il titolo dell’articolo esiste un elemento che si oppone alla pura lingua italiana (così come la conosciamo oggi): il dialetto.

In molti paesi della nostra penisola il dialetto è conservato e tutt’ora oggi si mantiene vivo. Questo accade sia al nord, al centro che al sud Italia.

L’utilizzo del dialetto, considerato una lingua a tutti gli effetti, è molto in voga in Italia poiché molte persone vogliono mantenere le proprie origini e, non solo, anche la propria unicità/identità. Per tali motivi, assolutamente non banali, la lingua italiana si confronta anche con i vari dialetti.

La dialettofonia rappresenta il suono delle parole di un determinato registro linguistico tipico di una parte della nostra Italia. A volte il solo aspetto fonetico delle parole dialettali ci permette di riconoscere, ad esempio, da quale regione arriva quella tal persona.
Il dialetto “ricalca”, in senso figurato, uno stemma che ciascuno di noi porta nel suo DNA e che non può cancellare. Tuttavia, se una persona non parla il suo dialetto non vuol dire che non gli piaccia o che non sa esprimersi, ma semplicemente possono esserci delle abitudini pregresse che non gli consentono di utilizzare il dialetto.

Solitamente questo è il caso dei giovani d’oggi che preferiscono gli slang ai codici linguistici del proprio dialetto. Una caratteristica sicuramente positiva è mantenere vive le forme dialettali a favore di un loro utilizzo altrettanto diffuso.

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Un anno senza Silvio Berlusconi

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Era il maggio del 2016, mancavano pochi giorni alla sfida tra Beppe Sala e Stefano Parisi candidati sindaco di Milano.
Io ero un “semplice” candidato nel municipio 8 ove ero residente.
Una serata elettorale come tante io, ovviamente, giacca e cravatta come “protocollo detta”.
Si avvicina un amico e mi fa: vuoi venire a salutare il presidente?
Io tentenno – non lo nascondo, mi vergognavo un po’ – lo seguo entro in una stanza.
Presenti lui, il presidente, Maria Stella Gelmini, il mio amico ed un altro paio di persone.
Presidente lui è Massimiliano Baglioni è uno dei candidati del nostro schieramento, dice il mio amico.
Il presidente mi stringe la mano mi saluta e con un sorriso smagliante mi chiede:
Cosa pensa di me?
Ed io, mai avuti peli sulla lingua, rispondo:
Presidente non mi è particolarmente simpatico, lo ammetto, ma apprezzo in Lei quella Follia che ci unisce in Erasmo da Rotterdam.
Sorride si gira verso la Gelmini e dice:
Mary segna il numero di questo ragazzo, mi piace perché dice ciò che pensa.
Si toglie lo stemma di Forza Italia che aveva sulla giacca e lo appende sulla mia.
Non lo nascondo: sono diventato rosso.

Oggi, ad un anno dalla morte di Silvio Berlusconi riapro il cassetto della mia memoria per ricordare questo italiano che ha fatto della Follia un impero economico, una fede calcistica, una galassia di telecomunicazioni.
Conservo con cura quella spilla simbolo di  un sogno, simbolo di libertà.
Grazie ancora, presidente, ma si ricordi: non mi è, ancora oggi, simpatico.

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