Connect with us

Editoriali

Conservatori di Musica a rischio integrità: un'altra 'buona scuola' all'ombra del 'Giglio d'oro'?

Clicca e condividi l'articolo

Tempo di lettura 11 minuti Abbiamo intervistato il maestro prof. Carlo Pari, che si sta occupando della questione in prima persona

Pubblicato

il

Clicca e condividi l'articolo
Tempo di lettura 11 minuti
image_pdfimage_print

di Roberto Ragone

È in corso un'iniziativa del ministro Giannini, che tenderebbe ad apportare modifiche strutturali ai Conservatori di Musica, dopo anni in cui essi sono apparsi come figure invisibili alle Istituzioni. In questo frattempo essi hanno assunto, in ogni caso, una loro fisionomia ed una logica di funzionamento. Volerli oggi modificare vuol dire distruggere una struttura che si è autocostruita nel tempo, nonostante tutto, trovando comunque un proprio equilibrio che la rende operativa.

La statizzazione degli istituti pareggiati favorirebbe in particolari quelli in Toscana, bacino di voti all'ombra del 'Giglio d'Oro'. A tale proposito abbiamo intervistato  il maestro prof. Carlo Pari, che si sta occupando della questione in prima persona, sacrificando il proprio tempo libero e non solo. L'impressione è che, come purtroppo accade quasi sempre nella nostra nazione, iniziative così importanti vengano gestite da chi poco o nulla ne capisce, senza coinvolgere chi invece in tali mari naviga e ha navigato da tempo, e guardando soltanto a volte a tagli trasversali che tolgono risorse e snaturano ogni situazione, vedi, ad esempio, la 'Buona Scuola', che, a detta di chi ci vive in mezzo, di buono non ha granchè. Vedi anche i recenti trasferimenti di docenti da sud a nord e viceversa, decretati senza alcun senso comune. Se l'iniziativa del ministro Giannini andasse in porto così com'è, senza tenere conto delle obiezioni di chi di queste cose ha fatto la propria vita, l'insegnamento musicale ad alto livello, una delle eccellenze della nostra nazione, andrebbe praticamente distrutto e ridotto a pochi capisaldi preda facile di chi ha santi in paradiso.

 

Giurisprudenza, politica, sindacato, mi dica un po’ Prof. Pari, qual è il suo ruolo in questa faccenda. Io so che esiste un progetto di revisione dei Conservatori di Musica, istituti dove anche lei insegna, da precario, del quale non ho capito granché. Comunque mi spieghi lei, qual è la sua veste ufficiale.

No, non è corretto parlare di veste ufficiale. Vede, ad un certo punto è stato purtroppo necessario prendere coscienza del fatto che il nostro lavoro non poteva più essere caratterizzato unicamente dall’attività didattica e artistica, come dovrebbe, ma proprio per poter continuare a svolgere quel lavoro che ci è peculiare, era necessario volgere verso un impegno più istituzionale. Così ci siamo dovuti rimboccare le maniche, e, con un gruppo di colleghi, ci siamo organizzati, divisi i compiti per aree di competenza, e ci siamo adoperati e lo stiamo facendo tuttora, per risolvere alcune criticità del sistema AFAM, Alta Formazione Artistica e Musicale, primo su tutte il precariato ultradecennale che affligge il settore.

 

Di precariato si parla tanto in questi mesi, soprattutto per la scuola, ma quale è la situazione nei Conservatori di Musica e Accademie delle Belle Arti?

La situazione dei Conservatori e Accademie delle Belle Arti, è, purtroppo, ancora più complessa e grave di quella della scuola. Sebbene i numeri siano nettamente inferiori, la percentuale di personale precario che oggi interessa il settore, circa il 30%, è destinata ad aumentare esponenzialmente in un periodo a breve termine, visto che il Ministero stima, dati alla mano, che nei prossimi tre o quattro anni andrà in pensione il 40% dell’attuale corpo docente. La cosa più grave è che Conservatori ed Accademie non sono capillarmente diffusi come le scuole secondarie, e il precariato non è equamente distribuito sul territorio nazionale. Esistono infatti istituti in cui sono i docenti precari a prevalere sul personale di ruolo per disciplina, o discipline, in cui il personale di ruolo non esiste più all’interno dell’istituto, il che, come lei comprende, rende difficoltoso lo svolgimento delle attività didattiche ed istituzionali. Non dimentichi che il docente precario, in quanto precario, è comunque discriminato nel suo ruolo istituzionale. Non può ricoprire il ruolo di Direttore a meno che lo statuto dell’istituto lo consenta (il che è raro), non può sedere nel Consiglio Accademico, e dipende dal collocamento in graduatorie nazionali o di istituto, quindi non può garantire la continuità didattica. 

 

Come si è arrivati a questo punto? Ci sono analogie con il mondo della scuola?

Il precariato formatosi nel settore dell’Alta Formazione Artistica e Musicale è stato generato da una assenza di procedure concorsuali “aperte” per ben 25 anni (L.417/90 ultimo concorso per titoli ed esami), e “riservate” per ben 16 (OM 247/99 ultimo concorso riservato a 360 giorni di servizio), nonché da una sovrapposizione normativa senza precedenti nella storia dell’istruzione. Ma cominciamo da un lontano inizio. I conservatori erano disciplinati dai regi decreti del 1918, 1930 e 1933. Tali decreti disciplinavano l’offerta formativa, governance e reclutamento, sottolineando già da allora la peculiarità, specificità e quindi atipicità del settore. Quasi ottant’anni dopo che queste norme diedero natali a musicisti illustri, il disposto normativo contenuto nel Decreto Luogotenenziale del 1918 fu assorbito nel D.Lgs n. 297 del 1994 il Testo Unico delle scuole di ogni ordine e grado. L’AFAM subisce un “downgrade” rispetto alla tutto sommato “superiorità̀” e “autonomia” che già gli istituti possedevano verso una gestione più centralizzata a livello ministeriale. Il Ministero avrebbe dovuto bandire i concorsi ogni quinquennio in presenza di posti liberi e vacanti, ma, ne vengono organizzati solo uno nel 1990 e uno nel 2000. Poco cambiò con le modifiche apportate nel maggio del 1999 con la Legge 124. Legge che è stata oggi censurata dalla consulta nei suoi tabella 4 e 11 a seguito della pronuncia della corte di giustizia europea C-418/14 (Mascolo). Qualche mese dopo le modifiche apportate al Testo Unico dalla Legge 124, (siamo a maggio del 1999), a distanza di qualche mese, la politica ci ripensa e, con il Governo D'Alema, vara la Legge di Riforma di Sistema n. 508 con l’ambizioso compito di traghettare il comparto verso l’università. In Europa le arti sono disciplina universitaria. L’Italia è un paese membro. Un sistema legato alla scuola non è più al passo con i tempi. Siamo nel dicembre dello stesso anno. In base alla nuova legge si dovrebbe provvedere ad uno specifico decreto attuativo che disciplini le norme per le assunzioni e nella fase transitoria, provvedere laddove non si possa far fronte con il personale in organico con contratti quinquennali rinnovabili, ma il Ministero, non emana i decreti attuativi, preferisce reclutare i supplenti secondo le regole pregresse ,  non stipula i contratti quinquennali, e da' vita a due graduatorie nazionali di merito che prendono il nome dalle Leggi da cui hanno tratto origine, 143 e 128

 

Quindi in sostanza lei sta dicendo che il problema è che non sono stati indetti concorsi.

No. Non è esatto. Di concorsi finalizzati alle supplenze ce ne sono stati tantissimi. Ricordo che si poteva arrivare ad una ventina di partecipazioni l’anno, ed erano procedure concorsuali altamente selettive. Ogni Istituto, in presenza di posti liberi e vacanti, ha bandito negli anni autonomamente il proprio concorso seguendo delle griglie valutative nazionali contenute nelle note ministeriali 1672 del 2002 e 3154 del 2011, le quali privilegiavano la valutazione artistica e fissavano severi criteri in cui il lavoratore non poteva in alcun modo preservare il proprio posto di lavoro grazie all’automatismo derivante dall’accumularsi dell’anzianità di servizio. Infatti non è raro vedere lo stesso concorrente essere valutato differentemente nei vari istituti e molto spesso anche nello stesso istituto. Non a caso nel disposto di legge della 128 è scritto che la graduatoria racchiude i possessori di tre anni accademici, ovvero 36 mesi, e i vincitori di concorso selettivo.


Questa graduatoria nazionale 128 è stata tuttavia da più parti criticata, lei cosa ne pensa?

Guardi, la verità è che la 128 è stata per un certo periodo un capro espiatorio nazionale. Si lamentava chi era stato escluso perché temeva di non lavorare, si lamentava chi riteneva di essere stato mal valutato perché temeva di perdere la sede, si lamentavano i direttori perché “oddio chissà ora che docente mi arriva”, ma già dopo un anno si è capito che era una delle graduatorie che racchiude il miglior personale docente, relativamente al settore AFAM, che il MIUR abbia mai prodotto e tutte le paure si sono mostrate totalmente infondate, così come le critiche fatte. Infatti i posti vacanti sono talmente tanti più degli inclusi in graduatoria che nessun docente è rimasto senza lavoro, neppure quelli esclusi, e i direttori si sono dovuti ricredere sulla qualità soggettiva dei docenti, tanto che in larga maggioranza hanno recentemente sostenuto delle mozioni in favore della graduatoria nazionale.

 

Molti accusano la mancanza della valutazione nella 128

Chi la contesta in questo senso non conosce la storia. Lei deve sapere che da un punto di vista giuridico la 128 è nata, per mano del governo Letta e l’allora ministro Carrozza, al fine di censire e tutelare il personale idoneo alla docenza, già pluriselezionato e valutato negli anni in ripetuti concorsi selettivi, con trentasei mesi di servizio. L’avvocato generale della Corte di Giustizia dell’Unione Europea Maciej Szpunar aveva infatti poco prima censurato la prassi italiana di ricoprire i posti liberi e vacanti con il personale a tempo determinato, e preconizzato la futura sentenza Mascolo sul precariato scolastico. L’intento del legislatore era quindi quello di dare una risposta al precariato storico, anche nel settore AFAM, predisponendo un piano pluriennale di assunzioni anche per Conservatori ed Accademie. Infatti nel corpo della Legge 128 all’art. 19 si evidenzia che l’accesso in graduatoria è consentito ai possessori di tre anni accademici di insegnamento, (quindi 36 mesi) e l’aver superato un concorso selettivo. Non bastasse questo, il MIUR ha predisposto una ulteriore valutazione di titoli per graduare i candidati, con un specifico decreto ministeriale. Che si sia scelto di valutare i titoli culturali, diplomi e certificazioni varie, piuttosto che i titoli artistico-professionali, è una scelta che seppur opinabile, non può essere imputata al personale incluso. Se questo non era l’intento del Legislatore, mi dica lei, cosa sarebbe servito costituire un'altra graduatoria nazionale?

 

Lei pare avere una buona conoscenza della normativa di settore. È notizia recente che la Corte Costituzionale, si sia pronunciata sul precariato scolastico, salvando la legge della "buona scuola" del governo Renzi, condannando le pregresse norme che consentivano il rinnovo infinito dei contratti a termine per consentire l’erogazione del servizio scolastico. Lei cosa ne pensa? In che misura questa pronuncia vi riguarda?

Il discorso è lungo e complesso. Nelle linee guida di cui alla direttiva europea 1990/70/CE, meglio conosciuta come “accordo quadro”, si dispone che gli Stati membri debbano prevedere nel proprio ordinamento interno almeno una su tre delle misure ostative contro l’abuso del contratto a termine: la ragione che giustifica il termine, o che spieghi perché i contratti vengono fatti a tempo determinato, oppure il numero dei rinnovi possibili e quando i medesimi contratti si trasformano a tempo indeterminato, o ancora la sanzione, che il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al lavoratore in caso di abuso. In Italia si è scelta la seconda, cioè il numero dei rinnovi possibili, e si è stabilito che, se due contratti non si interrompono, come quelli dei conservatori ed accademie ad esempio, si intendono a tempo indeterminato dal primo. A prescindere da interruzioni proroghe o rinnovi dopo 36 mesi si intendono in ogni caso a tempo indeterminato. Raggiunta una situazione critica e non più tollerabile relativamente al precariato nel pubblico impiego con particolare riferimento alla scuola, sono partite diverse azioni giudiziarie su tutto il territorio nazionale, che hanno dato vita ad un contenzioso che ha interessato tutti i gradi di giudizio e avuto epilogo nella oramai nota sentenza della Corte di Giustizia Europea Mascolo del 26 novembre 2014. Sentenza che ha censurato la normativa italiana sul reclutamento scolastico e sul contratto a termine nel pubblico impiego per assenza di misure dissuasive e sanzionatorie. A sua volta, la sentenza Mascolo è stata tradotta nell’ordinamento italiano dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite e dalla Corte Costituzionale, e anch’esse hanno censurato la normativa italiana in materia di contratto a termine.


Come mai il contenzioso non è però ancora giunto al termine,  nonostante le Supreme Corti si siano pronunciate in favore dei precari?

Ciò che è mancato è stato il coraggio. L’illecito era sotto agli occhi di tutti. Sarebbe stato molto difficile per le corti non censurare il comportamento illegittimo dello Stato Italiano. Però la risposta si è limitata ad accertare l’abuso, senza definire con chiarezza cosa si dovesse fare una volta accertato l’abuso, demandando costantemente la decisione di merito al giudice di ultima istanza, rimpallando così la responsabilità nel fare chiarezza su una questione che evidentemente si scontra con interessi molto più grandi anche del precariato scolastico. In sostanza, si potrebbe dire che, aperto il vaso di Pandora, si è cercato di limitare i danni per lo Stato, dando ai precari ragione sul problema, ma senza la soluzione. La SSUU della Corte di Cassazione, ha tentato di quantificare un risarcimento, stabilendo un indennizzo, dalle 2,5 alle 12 mensilità a seconda degli anni di servizio, ma è ovvio che questa misura risarcitoria è di portata irrisoria rispetto alla richiesta della CGUE – Corte di Giustizia dell'Unione Europea – di una norma che sanzionasse efficacemente il datore di lavoro e lo dissuadesse a commettere nuovamente l’abuso. Non ultimo le SSUU per ricavare la sanzione, non quantificata nell’ordinamento italiano, hanno riesumato una norma abrogata, privandola della sua efficacia originale. Infatti la Legge 183 del 2010 da cui si ricava la misura della sanzione, prevede che il datore di lavoro che commette abuso venga sanzionato con un indennizzo economico che va dalle 2,5 alle 12 mensilità, dopo la conversione del contratto a tempo indeterminato. Vi è inoltre una violazione del principio di equivalenza, stante che secondo la CGUE, si può prevedere una sanzione differente fra pubblico e privato, ma la sanzione deve essere proporzionata a ragioni analoghe di natura interna. Se nel privato si prevede la conversione del contratto e un risarcimento dalle 2,5 e 12 mensilità, va da sè che nel pubblico non possa esserci solo il risarcimento dalle 2,5 alle 12 mensilità. 

 

Dal canto suo la Corte Costituzionale, ha detto, precari avete ragione, ma è intervenuta la legge sulla scuola che ha sanato parzialmente il problema. E laddove il problema non è stato sanato come nei conservatori? La risposta? Ci pensi il giudice di ultima istanza. Si, ma come? Tuttavia gli Istituti Musicali Pareggiati hanno immesso in ruolo docenti secondo il principio dei 36 mesi. Non sono istituti equipollenti?

Quello che sta accadendo negli istituti musicali pareggiati, dimostra solo che l’Italia non è un paese democratico e la giustizia non opera in egual misura per tutti, creando così una evidente discriminazione fra lavoratori dello stesso settore. La cosa è apprezzabile in sè. Gli istituti fanno bene a stabilizzare il proprio personale. Ciò che è assolutamente censurabile è che questo comportamento, nell’individuare la soluzione del problema, sia isolato solo all’istituto pareggiato e non estesa a tutti i dipendenti del comparto, inclusi i dipendenti di Conservatori ed Accademie. Ancora più censurabile è che il Ministero, nonostante abbia già avuto varie segnalazioni in merito, non prenda provvedimenti, in un senso o nell’altro, lasciando nello stesso tempo intendere che il resto dell’AFAM, quindi i docenti con i medesimi diritti e anzianità, non in servizio nei pareggiati, dovranno assoggettarsi all’art. 97 e quindi sottoporsi ad un ulteriore concorso pubblico, quando nello stesso tempo però, si è permessa nei pareggiati la stabilizzazione di personale con trentasei mesi, sempre incluso in graduatoria nazionale, senza ulteriori procedure valutative. La domanda in buona sostanza è, se nei pareggiati si entra con i 36 mesi, perché nel Conservatorio, che è la stessa cosa, sarebbe necessario un ulteriore passaggio concorsuale? Del resto una discriminazione simile si è consumata nel 2013 quando proprio la stessa legge ha permesso al personale, incluso nella  143 con soli 365 giorni di servizio, di avere accesso ai ruoli dello Stato senza ulteriori passaggi concorsuali, e ha destinato personale con 36 mesi di servizio e vincitore di concorso selettivo al solo tempo determinato, in violazione degli artt. 3 e 117 della costituzione.

 

Che rapporto avete avuto con la politica e con i sindacati?

La politica è stata molto gentile e disponibile. Ci hanno incontrato, ci hanno ascoltato, hanno preso nota dei problemi, chiesto documenti, ma l’impressione è quella che gli incontri avvengano più per cortesia che per merito. Il sindacato invece, devo dire con rammarico, ha perso molto del suo valore originale, ed assomiglia più ad un cacciatore di facili risultati nel fitto bosco del ministero, che ad un organismo che lotta per i diritti dei dipendenti e del sistema. Hanno dimostrato più unione, determinazione  e ottenuto più risultati i precari, che le sigle sindacali riunite. Questo mi sembra un segnale da non sottovalutare.

 

Quali sono gli obiettivi a medio e lungo termine?

In tutti gli incontri politici ci siamo messi in gioco e ci siamo dimostrati disponibili ad una soluzione condivisa del problema. Ci auguriamo che anche per i conservatori la piaga del precariato possa presto cessare e noi si possa ritornare, sia fisicamente, visto che molti di noi lavorano a migliaia di chilometri da casa, che psicologicamente,  alle nostre famiglie e al nostro vero lavoro.  Del resto sarebbe ora, la media della nostra graduatoria nazionale è di 51 anni e già una collega è andata in pensione da precaria. Vede, la nostra professione ci porta giro per il mondo e le posso assicurare che il mondo ride di questa situazione. Sfortunatamente è un riso amaro. In Italia tutti avvertono che c’è qualcosa che non va, ma per una qualche ragione la politica identifica il problema sempre nella norma, considerata obsoleta o sbagliata, sentendosi in dovere di cambiarla. Mentre invece, a mio avviso, il problema non risiede nella norma, ma nel rispetto della norma e quindi nell’educazione civica al rispetto delle norme e all’efficacia e sanzione volta a garantire il rispetto della norma. Parliamoci chiaro, all’estero un professore che non va a lavorare, o si comporta male, viene licenziato e basta. Non si cambia la normativa per l’intera categoria in caso di comportamenti illeciti.

 

Un' ultima domanda, professor Pari: che appello si sente di fare al Ministero?

Direi che l’AFAM è un settore strategico. Lo studio delle arti è parte determinante nella nostra tradizione. Gli istituti AFAM hanno caratterizzato quasi un secolo di storia dando i natali ad artisti illustri. Mi sento quindi di suggerire  al Ministero di prendere coscienza della storia di questi istituti, ed operare un confronto vero con tutti gli operatori del settore a partire dai precari, che oggi mandano avanti questi istituti, prima di modificare con leggerezza il nostro sistema ispirandosi a modelli stranieri. Del resto, un pianista italiano in finale ad un concorso internazionale importante c’è sempre, possiamo dire lo stesso di un tedesco, un inglese, o un francese? E dove si è formato questo italiano? Forse bisognerebbe partire da qui, chissà, magari si arriverebbe alla conclusione che ciò che realmente non funziona, è principalmente la mancanza di risorse e non il governo degli istituti, l’offerta formativa, o il personale impiegato.

 

Continua a leggere
Commenta l'articolo

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Editoriali

Corsi di recupero per i debiti formativi: dettagli ed efficacia

Pubblicato

il

Clicca e condividi l'articolo
Tempo di lettura 2 minuti
image_pdfimage_print


Ogni scrutinio di classe è diverso e proprio per questo possono essere decretate promozioni, bocciature o sospensioni di giudizio, nonché i cosiddetti debiti formativi.

In questo articolo non si vuole tanto commentare la decisione di dare 1 o 2 o 3 debiti formativi in una o più discipline, quanto l’efficienza dei corsi formativi che dovrebbero aiutare lo studente, in sospensione di giudizio, a ripassare la materia/e per poi dare l’esame “riparativo” da fine agosto a inizio settembre.

La regola ministeriale sancisce che chi “salda” il debito/i passa all’anno scolastico successivo e chi non lo supera dovrà ripetere l’anno.

Quello che spesso ci si domanda, tra docenti, è quanto l’alunno riesca a comprendere dal corso formativo e quanto sia utile lo studio individuale.

Sicuramente, il corso formativo aiuta l’alunno a ristudiare i punti di fragilità della disciplina in cui ha il debito, ma un buono studio individuale può rendere maggiormente efficace il recupero.

In questo caso, sarebbe necessario avere un’insegnante esterno che possa aiutare lo studente a focalizzarsi sui punti chiave svolti a lezione.

Essenzialmente, per questi motivi sarebbe idoneo:

  • 1. Focalizzare per memorizzare, ma anche per comprendere;
  • 2. Produrre uno schema riassuntivo sugli argomenti che appaiono più fragili da apprendere;
  • 3. Leggere gli schemi e i riassunti ad alta voce;
  • 4. Non darsi un tempo nello studio poiché ogni persona ha i suoi di tempi;
  • 5. Ripetere i concetti chiave più e più volte;
  • 6. Passare ad argomenti successivi;
  • 7. Produrre testi o comprensioni scritte per esercitarsi;
  • 8. Nella fase finale ripassare tutto a scaglioni.

Pertanto, costruirsi uno schema mentale è molto utile sia per l’alunno che per l’insegnante che, caso mai segue, individualmente il ragazzo/a.

Ecco, secondo questa progettualità di recupero, lo studente con debito/i potrebbe arrivare a risultati efficaci e fare “bella figura” davanti alla commissione di recupero. Tuttavia, la proposta vincente è si ai corsi formativi, ma anche un grande si allo studio individuale oppure accompagnato da un docente in rapporto 1/1.

Continua a leggere

Editoriali

La linguistica italiana: qual’è l’elemento che si oppone al suo cospetto?

Pubblicato

il

Clicca e condividi l'articolo
Tempo di lettura 2 minuti
image_pdfimage_print


La lingua italiana nel corso dei secoli ci ha lasciato poemi, trattati, racconti e storie che al giorno d’oggi necessitano di essere interpretati da esperti ( o non ) per poterli conoscere nella loro anima. Pensiamo alla Divina Commedia di Dante Alighieri nella versione volgare dell’italiano … ecco in questo caso per interpretarla dobbiamo “tradurla nell’italiano che si parla oggi”.

Gli studiosi, i docenti possono tradurla, ma chi non è erudito o non possiede le strumentazioni adatte (vocabolari, la conoscenza della storia della lingua italiana etc …) fa sicuramente più fatica a comprenderne il significato.
Tutto quello che la lingua italiana ci ha lasciato necessita di essere analizzato poiché come primo requisito per una giusta comprensione del poema è sapere quando è stato scritto? dove è stato scritto (in quale paese)? che influenze ha subito da parte di altre lingue? quale storia c’è dietro a quel racconto?

Parlare di interpretazione linguistica è banale, si necessità di una vera e propria traduzione, ad esempio dall’italiano volgare del 1200 a quello del 1800.
Ogni epoca ha delle caratteristiche linguistiche in termini diacronici che nessuno può modificare.

Come reca il titolo dell’articolo esiste un elemento che si oppone alla pura lingua italiana (così come la conosciamo oggi): il dialetto.

In molti paesi della nostra penisola il dialetto è conservato e tutt’ora oggi si mantiene vivo. Questo accade sia al nord, al centro che al sud Italia.

L’utilizzo del dialetto, considerato una lingua a tutti gli effetti, è molto in voga in Italia poiché molte persone vogliono mantenere le proprie origini e, non solo, anche la propria unicità/identità. Per tali motivi, assolutamente non banali, la lingua italiana si confronta anche con i vari dialetti.

La dialettofonia rappresenta il suono delle parole di un determinato registro linguistico tipico di una parte della nostra Italia. A volte il solo aspetto fonetico delle parole dialettali ci permette di riconoscere, ad esempio, da quale regione arriva quella tal persona.
Il dialetto “ricalca”, in senso figurato, uno stemma che ciascuno di noi porta nel suo DNA e che non può cancellare. Tuttavia, se una persona non parla il suo dialetto non vuol dire che non gli piaccia o che non sa esprimersi, ma semplicemente possono esserci delle abitudini pregresse che non gli consentono di utilizzare il dialetto.

Solitamente questo è il caso dei giovani d’oggi che preferiscono gli slang ai codici linguistici del proprio dialetto. Una caratteristica sicuramente positiva è mantenere vive le forme dialettali a favore di un loro utilizzo altrettanto diffuso.

Continua a leggere

Editoriali

Un anno senza Silvio Berlusconi

Pubblicato

il

Clicca e condividi l'articolo
Tempo di lettura < 1 minuto
image_pdfimage_print

Era il maggio del 2016, mancavano pochi giorni alla sfida tra Beppe Sala e Stefano Parisi candidati sindaco di Milano.
Io ero un “semplice” candidato nel municipio 8 ove ero residente.
Una serata elettorale come tante io, ovviamente, giacca e cravatta come “protocollo detta”.
Si avvicina un amico e mi fa: vuoi venire a salutare il presidente?
Io tentenno – non lo nascondo, mi vergognavo un po’ – lo seguo entro in una stanza.
Presenti lui, il presidente, Maria Stella Gelmini, il mio amico ed un altro paio di persone.
Presidente lui è Massimiliano Baglioni è uno dei candidati del nostro schieramento, dice il mio amico.
Il presidente mi stringe la mano mi saluta e con un sorriso smagliante mi chiede:
Cosa pensa di me?
Ed io, mai avuti peli sulla lingua, rispondo:
Presidente non mi è particolarmente simpatico, lo ammetto, ma apprezzo in Lei quella Follia che ci unisce in Erasmo da Rotterdam.
Sorride si gira verso la Gelmini e dice:
Mary segna il numero di questo ragazzo, mi piace perché dice ciò che pensa.
Si toglie lo stemma di Forza Italia che aveva sulla giacca e lo appende sulla mia.
Non lo nascondo: sono diventato rosso.

Oggi, ad un anno dalla morte di Silvio Berlusconi riapro il cassetto della mia memoria per ricordare questo italiano che ha fatto della Follia un impero economico, una fede calcistica, una galassia di telecomunicazioni.
Conservo con cura quella spilla simbolo di  un sogno, simbolo di libertà.
Grazie ancora, presidente, ma si ricordi: non mi è, ancora oggi, simpatico.

Continua a leggere

SEGUI SU Facebook

I più letti