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Editoriali

CONDANNA BUONINCONTI: LA CRIMINOLOGA URSULA FRANCO PUNTA IL DITO SU INQUIRENTI E GIUDICI

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Tempo di lettura 4 minuti "si è ridotto un procedimento penale dell’anno 2015 ad un procedimento più vecchio di almeno cent’anni e dal punto di vista della psichiatria ci troviamo catapultati in un era pre freudiana"

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di Domenico Leccese 

Dopo la condanna a 30 anni, inflitta in primo grado a Michele Buoninconti, torniamo ad intervistare la criminologa consulente della difesa Ursula Franco.

Che cosa si aspetta dalla motivazioni della sentenza del Tribunale di Asti ?
Nulla di nuovo, nessuna prova si è formata in dibattimento e le ordinanze che hanno condotto all’arresto di Buoninconti e poi al processo non sono sostenute da alcun indizio degno di questo nome, si è arrivati a condannare un innocente per un omicidio che non c’è stato sulla base di supposizioni illogiche che la procura non ha provato.

Le perizie dell’accusa, secondo lei non hanno provato nulla ma nonostante tutto Buoninconti è stato condannato a 30anni. Perché?

E’ proprio questo il punto, attraverso le errate interpretazioni degli inquirenti e dei giudici dei dati emersi dalle indagini si è ridotto un procedimento penale dell’anno 2015 ad un procedimento più vecchio di almeno cent’anni e dal punto di vista della psichiatria ci troviamo catapultati in un era pre freudiana, il goffo tentativo di affrancare la Ceste dalla malattia psichiatrica che già gli era stata diagnosticata dal perito dell’accusa è un segnale di un’arretratezza culturale che fa venire i brividi, coloro che negano la psicosi di Elena hanno grosse responsabilità nei confronti di Buoninconti perché hanno contribuito a farlo condannare per un omicidio che non c’è stato e sono responsabili pure dell’ulteriore dolore inflitto ai suoi figli ed anche dell’aver lasciato passare il messaggio che una malattia psichiatrica sia uno stigma di cui vergognarsi.

Che cosa intende dire quando sostiene che è stato un processo vecchio?
Intendo dire che non serve assolutamente a nulla fare delle perizie se non si è in grado di valutarne i risultati nel modo giusto. La perizia medico legale ha concluso che non si poteva ricavare una causa di morte dallo stato dei resti di Elena Ceste, l’inferenza dei medici legali che ipotizza una morte asfittica non ha valore di prova, non prova assolutamente l’omicidio, è un’idea che si sono fatta questi consulenti i quali non hanno potuto escludere l’assideramento ed hanno ripetuto in aula che era impossibile avere certezza della causa della morte della Ceste, quella dei consulenti medico legali rimane un’inferenza limitata allo studio dei resti della Ceste, l’inferenza finale su una causa di morte dubbia si fa dopo aver studiato gli atti. Il giudice Amerio ha condannato un uomo senza avere la certezza che fosse stato commesso un omicidio e niente di ciò che è emerso dalle indagini sorregge questa condanna.

La perizia sulle celle telefoniche invece cosa prova?
Prova l’esatto contrario di ciò che ha sostenuto la procura, prova che alle ore 9.00 Michele si trovava a casa e lo prova anche la testimonianza di Marilena Ceste, che è stata però completamente ignorata, la donna ha detto di aver visto Michele dalla finestra 5 minuti dopo le 8.55, quindi alle ore 9.00 proprio quando la procura sostiene che fosse ad occultare il corpo di Elena. L’interpretazione errata dei dati chiari delle due perizie telefoniche dell’accusa ha annullato il senso delle stesse. Se le celle hanno localizzato Michele al Rio Mersa solo alle 9.02.50 non vi è motivo di collocarlo lì prima, avendo invece a suo favore la testimonianza della vicina che lo vide dalla finestra proprio a quell’ora e tre telefonate tra le 8.55.4 e le 9.01.48 che agganciano la cella di casa sua.

Che cosa manca all’accusa secondo lei?
Manca la prova dell’omicidio, manca la prova del trasporto del cadavere in auto, manca la prova dell’avvenuto occultamento, mancano il movente ed eventuali intercettazioni probatorie, le intercettazioni presentate come tali sono paradossalmente un autogol per la procura, ma bisogna essere liberi da pregiudizi ed abili nell’analisi del linguaggio per leggerle nel modo giusto.

Da quanti mesi lotta per dimostrare la sua tesi innocentista su Buoninconti?
È dal 31 ottobre 2014 che ho risolto questo caso e per fortuna non sono complice dello strazio che ha condotto alla condanna di un innocente a 30 anni, da questo punto di vista sono serena ma umanamente ciò che è stato fatto a Buonincont ed a i suoi figli non riesco ad accettarlo.

Se potesse parlare agli italiani colpevolisti che gli direbbe?

Mi piacerebbe dire agli italiani di non farsi manipolare, di ribellarsi a questo stato di cose, al modo di lavorare degli inquirenti, alle violenze che i media riservano alle famiglie colpite da disgrazie come quella di Buoninconti, violenze di cui sono responsabili in primis le procure che fanno filtrare gli atti solo perché gli fa comodo, i contenuti degli interrogatori delle persone informate sui fatti spesso sono noti prima alla stampa che agli avvocati degli indagati. Non mi sembra che sussistano più i presupposti per chiamare questo paese una democrazia. Aprano gli occhi coloro che urlano all’assassino senza le competenze per giudicare ed in specie quando non vi è prova, alcuna, potrebbero essere loro stessi a breve le vittime di un nuovo errore giudiziario.

Qual è la sua soluzione?
Forse è una guerra persa, ma credo che ci sia bisogno di un garante che tuteli gli indagati, che impedisca alle procure di divulgare gli atti giudiziari e che vieti lo strazio degli impuniti talk show televisivi dove si passa il tempo a manipolare informazioni sui vari casi ed ad infangare gli eventuali sospettati solo per soddisfare l’odio morboso dei telespettatori ed infine c’è bisogno di lavorare per migliorare le competenze di chi indaga perché è proprio da lì che comincia l’errore e poi si propaga.
 

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Corsi di recupero per i debiti formativi: dettagli ed efficacia

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Ogni scrutinio di classe è diverso e proprio per questo possono essere decretate promozioni, bocciature o sospensioni di giudizio, nonché i cosiddetti debiti formativi.

In questo articolo non si vuole tanto commentare la decisione di dare 1 o 2 o 3 debiti formativi in una o più discipline, quanto l’efficienza dei corsi formativi che dovrebbero aiutare lo studente, in sospensione di giudizio, a ripassare la materia/e per poi dare l’esame “riparativo” da fine agosto a inizio settembre.

La regola ministeriale sancisce che chi “salda” il debito/i passa all’anno scolastico successivo e chi non lo supera dovrà ripetere l’anno.

Quello che spesso ci si domanda, tra docenti, è quanto l’alunno riesca a comprendere dal corso formativo e quanto sia utile lo studio individuale.

Sicuramente, il corso formativo aiuta l’alunno a ristudiare i punti di fragilità della disciplina in cui ha il debito, ma un buono studio individuale può rendere maggiormente efficace il recupero.

In questo caso, sarebbe necessario avere un’insegnante esterno che possa aiutare lo studente a focalizzarsi sui punti chiave svolti a lezione.

Essenzialmente, per questi motivi sarebbe idoneo:

  • 1. Focalizzare per memorizzare, ma anche per comprendere;
  • 2. Produrre uno schema riassuntivo sugli argomenti che appaiono più fragili da apprendere;
  • 3. Leggere gli schemi e i riassunti ad alta voce;
  • 4. Non darsi un tempo nello studio poiché ogni persona ha i suoi di tempi;
  • 5. Ripetere i concetti chiave più e più volte;
  • 6. Passare ad argomenti successivi;
  • 7. Produrre testi o comprensioni scritte per esercitarsi;
  • 8. Nella fase finale ripassare tutto a scaglioni.

Pertanto, costruirsi uno schema mentale è molto utile sia per l’alunno che per l’insegnante che, caso mai segue, individualmente il ragazzo/a.

Ecco, secondo questa progettualità di recupero, lo studente con debito/i potrebbe arrivare a risultati efficaci e fare “bella figura” davanti alla commissione di recupero. Tuttavia, la proposta vincente è si ai corsi formativi, ma anche un grande si allo studio individuale oppure accompagnato da un docente in rapporto 1/1.

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La linguistica italiana: qual’è l’elemento che si oppone al suo cospetto?

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La lingua italiana nel corso dei secoli ci ha lasciato poemi, trattati, racconti e storie che al giorno d’oggi necessitano di essere interpretati da esperti ( o non ) per poterli conoscere nella loro anima. Pensiamo alla Divina Commedia di Dante Alighieri nella versione volgare dell’italiano … ecco in questo caso per interpretarla dobbiamo “tradurla nell’italiano che si parla oggi”.

Gli studiosi, i docenti possono tradurla, ma chi non è erudito o non possiede le strumentazioni adatte (vocabolari, la conoscenza della storia della lingua italiana etc …) fa sicuramente più fatica a comprenderne il significato.
Tutto quello che la lingua italiana ci ha lasciato necessita di essere analizzato poiché come primo requisito per una giusta comprensione del poema è sapere quando è stato scritto? dove è stato scritto (in quale paese)? che influenze ha subito da parte di altre lingue? quale storia c’è dietro a quel racconto?

Parlare di interpretazione linguistica è banale, si necessità di una vera e propria traduzione, ad esempio dall’italiano volgare del 1200 a quello del 1800.
Ogni epoca ha delle caratteristiche linguistiche in termini diacronici che nessuno può modificare.

Come reca il titolo dell’articolo esiste un elemento che si oppone alla pura lingua italiana (così come la conosciamo oggi): il dialetto.

In molti paesi della nostra penisola il dialetto è conservato e tutt’ora oggi si mantiene vivo. Questo accade sia al nord, al centro che al sud Italia.

L’utilizzo del dialetto, considerato una lingua a tutti gli effetti, è molto in voga in Italia poiché molte persone vogliono mantenere le proprie origini e, non solo, anche la propria unicità/identità. Per tali motivi, assolutamente non banali, la lingua italiana si confronta anche con i vari dialetti.

La dialettofonia rappresenta il suono delle parole di un determinato registro linguistico tipico di una parte della nostra Italia. A volte il solo aspetto fonetico delle parole dialettali ci permette di riconoscere, ad esempio, da quale regione arriva quella tal persona.
Il dialetto “ricalca”, in senso figurato, uno stemma che ciascuno di noi porta nel suo DNA e che non può cancellare. Tuttavia, se una persona non parla il suo dialetto non vuol dire che non gli piaccia o che non sa esprimersi, ma semplicemente possono esserci delle abitudini pregresse che non gli consentono di utilizzare il dialetto.

Solitamente questo è il caso dei giovani d’oggi che preferiscono gli slang ai codici linguistici del proprio dialetto. Una caratteristica sicuramente positiva è mantenere vive le forme dialettali a favore di un loro utilizzo altrettanto diffuso.

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Un anno senza Silvio Berlusconi

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Era il maggio del 2016, mancavano pochi giorni alla sfida tra Beppe Sala e Stefano Parisi candidati sindaco di Milano.
Io ero un “semplice” candidato nel municipio 8 ove ero residente.
Una serata elettorale come tante io, ovviamente, giacca e cravatta come “protocollo detta”.
Si avvicina un amico e mi fa: vuoi venire a salutare il presidente?
Io tentenno – non lo nascondo, mi vergognavo un po’ – lo seguo entro in una stanza.
Presenti lui, il presidente, Maria Stella Gelmini, il mio amico ed un altro paio di persone.
Presidente lui è Massimiliano Baglioni è uno dei candidati del nostro schieramento, dice il mio amico.
Il presidente mi stringe la mano mi saluta e con un sorriso smagliante mi chiede:
Cosa pensa di me?
Ed io, mai avuti peli sulla lingua, rispondo:
Presidente non mi è particolarmente simpatico, lo ammetto, ma apprezzo in Lei quella Follia che ci unisce in Erasmo da Rotterdam.
Sorride si gira verso la Gelmini e dice:
Mary segna il numero di questo ragazzo, mi piace perché dice ciò che pensa.
Si toglie lo stemma di Forza Italia che aveva sulla giacca e lo appende sulla mia.
Non lo nascondo: sono diventato rosso.

Oggi, ad un anno dalla morte di Silvio Berlusconi riapro il cassetto della mia memoria per ricordare questo italiano che ha fatto della Follia un impero economico, una fede calcistica, una galassia di telecomunicazioni.
Conservo con cura quella spilla simbolo di  un sogno, simbolo di libertà.
Grazie ancora, presidente, ma si ricordi: non mi è, ancora oggi, simpatico.

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