Metro Exodus, un’odissea post atomica

Metro Exodus,
l’ultimo capitolo della serie basata sui romanzi dello scrittore russo Dmitry
Glukhovsky è finalmente arrivato su Pc, Xbox One e Ps4. L’ultima fatica di 4A
Games e Deep Silver è stata attesa con molta ansia dai fan, considerando che
l’ultimo gioco della saga è stato rilasciato quasi sei anni fa e in questo
lasso di tempo gli appassionati hanno potuto solo giocare alle versioni
remastered del titolo originale e del suo seguito. Per chi non lo sapesse
l’universo di Metro è un universo catastrofico dove la storia dello scorso
secolo ha lasciato il genere umano ferito, saccheggiato nell’animo da due
guerre devastanti. I precari nuovi equilibri politico-economici fra Est e Ovest
che ne conseguirono scissero il mondo nella seconda parte del ventesimo secolo,
portando il pianeta sull’orlo di una guerra nucleare senza scampo, per nessuna
fazione. Nel 2010 lo sviluppatore ucraino 4A Games diede vita al racconto di
Dmitrij Gluchovskij ambientato nella metropolitana di Mosca con Metro 2033 e,
successivamente, Metro Last Light, first person shooters dalle sfaccettature
horror in cui meccaniche survival e stealth assecondano una caratterizzante
anima narrativa. Adesso con Metro Exodus, anch’esso ispirato al terzo e ultimo
romanzo dell’autore russo, le claustrofobiche meccaniche di gioco che hanno
caratterizzato la serie vengono accantonate a favore di una giocabilità più
esplorativa. Fuori dai tunnel della metropolitana di mosca il mondo ancora
esiste, ferito, irrimediabilmente mutato, ma in ogni caso vivo. Andando più
nello specifico, in Metro Exodus si vestono ancora una volta i panni di Artyom.
Egli, sposatosi con Anna, la bella e determinata figlia del Colonnello Miller,
il leader dell’Ordine di Sparta, sogna ancora un futuro lontano dal giogo
opprimente della metropolitana e delle mostruosità nate dalle radiazioni che
hanno reso Mosca una terra arida e inospitale. E proprio tenendo saldamente a
sé quest’idea che gli eventi del prologo del gioco conducono il protagonista e
suoi compagni ad abbandonare lo scenario in cui si sono svolti i precedenti
capitoli in cerca di una nuova speranza a bordo dell’Aurora, un treno a vapore
che li conduce in un vero e proprio esodo per la sopravvivenza che durerà un
anno intero. Lungo l’arco di questi 12 mesi l’alternanza delle stagioni
coincide con il sopraggiungere di nuove e differenti insidie, legate a filo
doppio alle novità di gameplay introdotte con Exodus: attraversando ciò che
resta della vecchia Russia, Artyom e compagni si trovano a esplorare vaste
regioni dalle caratteristiche uniche dove mostri e fanatici di ogni genere sono
pronti a fare di tutto per ostacolare la ricerca di una destinazione finale
tanto sfuggente quanto ambita. La trilogia di Metro è sempre stata
un’esperienza esplicitamente dedicata al single player, ed Exodus, nonostante
lo stravolgimento delle ambientazioni, non è da meno. Come nei vecchi capitoli
della serie, dove erano previsti dei finali multipli e di conseguenza anche
delle scelte morali che andavano a incidere direttamente sul karma del
protagonista, anche stavolta il sistema è il medesimo. Compiere determinate
scelte, adottare una certa condotta piuttosto che un’altra determinerà il
destino di Artyom, e anche il finale della storia. Anche stavolta sarà
necessario fare molta attenzione a ciò che si fa, in quanto la condotta non è
effettivamente rappresentata chiaramente mediante un qualsiasi indicatore. Se
si commette un errore, si avvertirà solo un lieve suono accompagnato da una
specie di flash. Fortunatamente basta tenere le orecchie bene aperte e prestare
attenzione alle parole dei compagni di d’avventura: quasi sempre, infatti,
consiglieranno la condotta più adatta, che in genere si basa sulla regola d’oro
del “non uccidere gli innocenti”. Il punto è che coloro che sono
liberi dal peccato non sono sempre riconoscibili, e per aggirare il problema
l’unica via è quella dell’approccio stealth. Tale modo di affrontare il gioco è
diventato ancor più centrale in questo capitolo, e lo sviluppo verticale di
alcuni livelli lo rende anche particolarmente stimolante. Per evitare
l’omicidio bisogna muoversi nell’ombra, o in alternativa è necessario arrivare
alle spalle del nemico per poi sferrargli un colpo deciso fra capo e collo. Le
soddisfazioni ci sono anche in questo caso, ma è chiaro che scegliendo la
“via del buono” si spara molto meno, e in alcuni casi il basso
profilo viene imposto per molto tempo, e forse non a tutti potrebbe piacere
tale tipo di approccio. D’altra parte, è bene sottolineare che bastano pochi
errori per compromettere il finale “positivo” e l’alternativa non è esattamente
un “happy ending”. Quindi se si desiderà un’esperienza più difficile, immersiva
e appagante, consigliamo la via del bene. Se invece si cerca un approccio più
action, più shooter e più adrenalinico, a patto di accettare un finale
negativo, Metro Exodus potrà garantire tanto divertimento anche in questo
senso.

In questo titolo,
come già nei suoi predecessori, per forza di cose la narrativa riveste un ruolo
fondamentale. Essa, infatti, deve invogliare il giocatore a proseguire il
viaggio, e per farlo necessita di uno scopo e di una tavolata di personaggi di
spessore su cui poter contare. A bordo dell’Aurora, il treno con cui si muovono
i protagonisti, tutto questo c’è, e il tema dell’esodo verso la terra promessa
è affrontato con grande pathos. Esempio clou ne è uno dei primi filmati che con
una dissolvenza catapulta il giocatore nel passato, all’interno di un vagone
della metro, ancora brulicante di persone. Le ruote si muovono verso chissà
dove, mentre chi sta con il pad in mano osserva dal finestrino il teatro della
condizione umana; fuori la città cambia, dapprima sferzata dai venti di guerra
lontana e poi demolita dal fragore nucleare, e infine il silenzio, poi le porte
si aprono. Davvero di grande effetto. All’inizio di Metro Exodus ci si trova
ancora a Mosca, a poca distanza dagli eventi di Last Light, ed Artyom, fra
un’uscita e l’altra, non ha ancora abbandonato l’idea che ci sia vita oltre i
confini della città. Per una serie di sfortunati eventi, spiegati purtroppo in
maniera un po’ brusca e superficiale, la comitiva degli Spartani si ritrova ad
apprendere una terribile verità, e ovviamente poco dopo la situazione
precipita, costringendoli a fuggire per sempre dalla capitale russa. Il loro
mezzo è un vecchio treno corazzato, denominato in seguito Aurora, che fungerà
da nuova casa per tutto il viaggio. A bordo ci sono tutti: Artyom, sua moglie
Anna, Miller, Alyosha, Idiota e anche qualche nuovo arrivo. Ognuno di loro ha
le sue paure, i suoi sogni, e anche se non sono disponibili delle vere e
proprie interazioni, dal momento che il protagonista è ancora una volta
completamente muto, durante il pellegrinaggio verso est ci saranno numerose
occasioni per fare la loro conoscenza; girovagando per il campo base, di volta
in volta allestito in modo diverso, capita spesso di origliare scambi di
battute, storie di folklore, dialoghi e perfino litigi che contribuiscono a
tratteggiale i loro profili. In Metro Exodus il giocatore sarà sempre uno
spettatore passivo, ed è una scelta che oggi mostra più che mai i suoi limiti,
eppure dopo ogni missione, quando si ritorna all’Aurora, viene sempre voglia di
ascoltare i discorsi dei compagni di viaggio, di osservarli mentre sono seduti
su uno sgabello intenti a fumare una sigaretta piegata o a sorseggiare una
vodka di pessima qualità, e nonostante la scarsa possibilità d’interazione, ci
si sente a casa, al sicuro e circondati da persone amiche. Proprio queste
atmosfere speciali sono il punto di forza di Metro Exodus. Infatti il gioco
riesce a coinvolgere emotivamente chi gioca e tutto ciò dà energia alla voglia di
proseguire nell’avventura e di scoprire cosa accadrà proseguendo nella storia.
Nell’ultima fatica di 4A Games e Deep Silver c’è spazio per la speranza e il
desiderio personale, per la delusione e la disillusione, e anche per la ricerca
della tranquillità. Peccato che quest’ultima sia una merce molto rara, anche
perché nel cuore della Russia post nucleare si incontrano personaggi bizzarri e
strane tribù dalle intenzioni poco pacifiche, come fanatici che ripudiano la
tecnologia e anche schiavisti della peggior specie, e alcune di queste
riusciranno a far rimpiangere i tempi delle buie gallerie della metropolitana.
Le atmosfere sono sempre magnifiche e quando la trama riprende la narrazione
lineare il risultato è sempre alto.

A livello di
giocabilità, come vi dicevamo all’inizio, Metro Exodus propone qualcosa di
molto diverso rispetto a quanto è stato visto nei capitoli precedenti. Una
volta entrati in contatto con le aree denominate Volga e Caspio, la sensazione
è quella di perdersi da un momento all’altro. La mappa a disposizione di Artyom
dice poco o nulla su ciò che bisogna fare, almeno finché qualcuno non indica la
strada al protagonista. Ogni location è stata creata a misura d’uomo, e a parte
rari casi dove bisogna aggirare ostacoli, si riesce a correre da una parte
all’altra in una manciata di minuti, a patto però di sopravvivere ai mutanti e
ad altri temibili orrori, ovviamente. Il rischio di una struttura del genere
era alto, anche perché in realtà non esistono delle vere e proprie missioni
secondarie, non ci sono personaggi opzionali da scoprire e neppure le solite
vecchie fetch quest, eppure 4A Games è riuscita a trovare l’equilibrio
perfetto. in Metro: Exodus la storia ci porta costantemente da un punto A ad un
punto B, ma nel mentre è impossibile non lasciarsi contagiare dalla voglia di
esplorare i piccoli centri abitati e le numerose rovine disseminate in giro,
magari a bordo di un piccolo quattroruote di fortuna o di una barchetta a remi
da cui entra acqua da tutte le parti. Il più delle volte ad attirare
l’attenzione del giocatore sarà proprio il paesaggio stesso, magari grazie a
uno scorcio particolarmente ispirato, un dettaglio o un’architettura che si
staglia in lontananza. Tali aree spingono ad “abbandonare” momentaneamente la
missione principale per scoprire cosa si nasconde fra quelle misteriose case o
in quella fabbrica allontanata o fra quei rottami apparentemente abbandonati.
Tutto questo arricchisce l’esperienza di gioco e ne espande la longevità.
Naturalmente, oltre a quanto detto, sulla mappa sono presenti anche alcuni
dungeon, che spesso prendono le sembianze di bunker abbandonati, fogne e
fabbriche prebelliche diroccate. Tali aree sono sezioni relativamente piccole,
caratterizzate da una progressione lineare e dall’utilizzo della maschera
antigas, ma svolgono benissimo il loro lavoro. Esse servono a staccare dal free
roaming, ma sono comunque location curatissime e articolate, che riportano in
primo piano il vecchio e glorioso feeling dei primi due capitoli. Che si tratti
di rovistare fra gli archivi sepolti dell’esercito o di farsi strada attraverso
una diga pericolante, quelli appena citati sono senza dubbio fra i momenti più
riusciti della produzione, e riescono ad incastrarsi perfettamente con il resto
dell’avventura. In Metro Exodus la pratica del frugare fra i rifiuti per
trovare oggetti utili veste ancora una volta un ruolo centrale e lo fa più di
quanto visto in passato, anche perché in questo capitolo non esistono mercanti,
e tutto passa per un pugno di pezzi di metallo e qualche oncia di sostanze
chimiche. All’inizio questo sistema può apparire un po’ macchinoso, ma una
volta che si sarà familiarizzato con il “trova e ricicla” sarà un vero piacere
poter creare tutto ciò che occorre attraverso i materiali di scarto. Si può
creare praticamente tutto in regolare autonomia, dai medikit ai filtri per la
maschera, passando anche per le migliorie per le armi. Insomma, il concetto di
base è: più si passa tempo a cercare materiali utili fra i rifiuti, maggiore
sarà la possibilità di creare equipaggiamento per sopravvivere. Ovviamente per
montare gli oggetti più complessi e ingombranti sarà necessario servirsi di un
banco da lavoro, sempre reperibile al campo base o all’interno delle zone
disseminate in giro per la Russia post nucleare. Assemblare le proprie scorte e
prepararsi prima di ogni singola spedizione non diventerà soltanto un rito, ma
presto ci si accorgerà che è proprio uno degli elementi trainanti del gameplay,
che scandisce il ritmo dell’avventura. A livello di combat system, gli scontri
a fuoco risultano sempre molto realistici e ben realizzati, ogni proiettile
sparato da Artyom sembra diverso da quello precedente, come a voler ribadire
l’artigianalità dell’arma, e il feeling è sempre lento e pesante. In Metro
Exodus però i movimenti sono differenti dai normali shooter, quindi scordatevi
scivolate rapide e scatti fulminei di 180 gradi. Nel gioco, essendo parecchio
simulativo, per perdere la pellaccia basta scordarsi di pulire il vetro della
maschera antigas o di ricaricare l’arma prima di sporgersi da un angolo. Detto
ciò, se non si è abituati alle dinamiche della serie consigliamo caldamente di
affrontare la difficoltà normale, ben bilanciata e più che adatta a comprendere
come si gioca. Al contrario, se si è veterani di Metro e si è alla ricerca
della vera “Metro Experience” allora è il caso di scegliere sulla
difficoltà estrema, dove ogni proiettile raccolto fra la polvere vi farà
gridare al miracolo, ma soprattutto dove sopravvivere sarà un vero e proprio
incubo.

A livello grafico
Metro Exodus è un titolo davvero ben Fatto. La realizzazione tecnica di alto
livello e l’accompagnamento sonoro di buon livello del mondo di gioco, riescono
a trasmettere a pieno il senso di desolazione e pericolo che attanaglia l’intero
viaggio dell’Aurora. A dispetto di qualche calo di fluidità in alcune delle
fasi più concitate, il colpo d’occhio generale è sempre di alto livello e gode
di un orizzonte visivo più che apprezzabile. La contrapposizione fra la
l’illuminazione naturale degli ambienti esterni e quella artificiale dei luoghi
chiusi regala giochi di luce e riflessi di grande pregio. Questi uniti ai tanti
effetti grafici presenti restituiscono un’immagine viva e sempre ricca di
dettagli. Insomma, nulla da eccepire. Peccato solo per l’assolutamente voluto
senso di pesantezza che si ha mentre ci si muove e si prende la mira che
sicuramente rende l’esperienza di gioco meno fluida e un po’ snervante. In ogni
caso, una volta compreso come gestirla, l’avventura di Artyom sarà assolutamente
una storia avvincente, ricca di colpi di scena e incredibilmente profonda.
Tirando le somme, questo Metro Exodus è un ottimo esempio di come sia possibile
integrare elementi nuovi pur preservando e dando maggior spicco ai tratti più
caratteristici di una serie. La novità delle sezioni liberamente esplorabili ha
aggiunto quantità e varietà all’offerta, permettendo agli sviluppatori di
studiare le parti più lineari dell’avventura senza compromessi in termini di
intensità. Il viaggio di Artyom e dei suoi compagni a bordo dell’Aurora resta
dunque fedele ai tratti caratteristici che hanno reso famosi i giochi
precedenti, ma in questo nuovo capitolo essi sono stati arricchiti in maniera
estremamente positiva nella loro formula base da elementi completamente inediti
e da un comparto tecnico di alto profilo. Insomma, dopo tanta metropolitana e
ambienti bui e angusti un po’ d’aria fresca, seppur infarcita d terribili
mutanti e personaggi estremamente crudeli e senza scrupoli, era quello che ci
voleva. Ovviamente se si vuol giocare bene e comprendere a fondo Questo terzo
capitolo della saga, consigliamo di giocare i precedenti o quantomeno di aver
letto i libri. Ovviamente Metro Exodus può essere giocato anche senza conoscere
quanto è accaduto in precedenza, ma a livello di trama potrebbe essere
difficile comprendere l’universo di gioco e alcuni riferimenti. In ogni caso
crediamo che ogni buon gamer che si rispetti, specialmente chi è rimasto
affezionato ai titoli single player dovrebbe acquistarlo. Ore e ore di gioco
ben scritte e realizzate sono solo la base di quest’opera che se affrontata
come si deve è in grado di dare molte e appaganti soddisfazioni.

GIUDIZIO GLOBALE:

Grafica: 9

Sonoro: 8,5

Gameplay: 8,5

Longevità: 8,5

VOTO FINALE: 8,5

Francesco Pellegrino Lise




WhatsApp consuma troppi giga? Ecco come evitarlo

WhatsApp consuma
troppo traffico dati? Non sapete come fare per risparmiare i giga di
navigazione? Basta seguire alcune piccole ma fondamentali regole. La popolare
applicazione di messaggistica istantanea è tra le più scaricate al mondo per
scambiare messaggi ed effettuare chiamate tramite internet, senza dover badare
a minuti o sms. Certo, avere il supporto di una connessione dati mobile è però
fondamentale per utilizzarla e quindi prestare attenzione a quanto traffico
internet si consuma utilizzando WhatsApp è importante per evitare di ritrovarsi
con i preziosissimi giga mensili esauriti e l’App disabilitata. Ma come si fa
per ridurre il peso di WhatsApp sul proprio piano internet? Nell’occhio del
ciclone ci sono ovviamente i download, ovvero tutte le immagini, gli audio e i
video che si scaricano o si inviano tramite la chat. Inviare via WhatsApp tanti
contenuti multimediali può rivelarsi un vero e proprio salasso in caso di pochi
Giga di traffico mobile disponibili. Non tutti sanno però che tramite le
impostazioni è possibile sia su iOS che Android spuntare le varie opzioni
contenuti alla voce “utilizzo dati e archivio”. In questo modo si possono
scegliere quale media scaricare immediatamente e quali, invece, bloccare,
dietro richiesta di download all’utente. Così facendo foto, audio, video e
documenti possono essere scaricati o via Wi-Fi o via cellulare, sempre secondo
le proprie preferenze. Anche le chiamate via WhatsApp, apparentemente gratis e
prive di consumi, possono portare, se usate in modo poco oculato, al rapido
esaurimento dei dati mobile. In tal caso è meglio spuntare la voce “consumo
dati ridotto” per diminuire sensibilmente il numero dei dati durante le
chiamate effettuate sotto la rete dello smartphone. E’ altrettanto importante badare
al Backup, utile per salvare conversazioni e recuperare vecchi messaggi, ma
scomodo se utilizzato tramite il roaming mobile. In questo caso è meglio
spuntare l’opzione che ne permette l’utilizzo solo via Wi-Fi, presente alla
voce chat, selezionando backup e per metterlo in pausa e avviarlo manualmente o
nel periodo che si vuole. Chi desidera invece dare un taglio drastico con
operatori mobile e numeri di telefono può ricorrere anche a un trucco estremo
che permette di utilizzare WhatsApp anche senza Sim. In questo modo,
ovviamente, si potrà non solo risolvere il problema alla radice, ma anche
sfruttare l’applicazione in maniera davvero inedita. Rispettando queste poche
ma preziose regole, il consumo del traffico dati relativo all’utilizzo di Whatsapp
calerà drasticamente e finalmente non ci si troverà nella noiosa condizione di
doversi trovare con l’app bloccata.

F.P.L.




Far Cry New Dawn, la saga diventa post nucleare

Far Cry New Dawn, nuovo capitolo della saga targata Ubisoft per Pc, Xbox One e Ps4, ha inizio 17 anni dopo l’apocalisse nucleare e la dittatura religiosa dello pseudo messia Joseph Seed vista in Far Cry 5 (qui la nostra recensione). In questo contesto post atomico un nuovo motivo di speranza di tornare alla vita ha bisogno di crescere tra le neonate comunità che stanno provando a ripopolare la superficie del pianeta, ma la rinascita è lenta e pericolosa. La natura ha già compiuto il suo rapido decorso dalla distruzione, per diventare rigogliosa e rifiorita. Attorno a Kim Rye e Tom Rush, la base Prosperity accoglie il punto di partenza per la rinascita, ma anche per la strenua opposizione al dominio militare delle perfide gemelle, a capo dei perfidi “Guerrieri della Strada”. Tra loro vige la legge del più forte in cui ognuno può giocare due parti: quella del piantagrane, o quella di chi risolve i problemi. Ai primi è riservata la morte, agli altri, invece, un’opportunistica sopravvivenza. Il giocatore vestirà i panni del braccio destro di Rush, a scelta uomo o donna con un minimo di personalizzazione estetica, e sarà suo compito guidare la rivincita di Prosperity e dell’intera Hope County. La storia e le avventure, svolgendosi nella stessa mappa del quinto capitolo, sono strettamente legate a personaggi e luoghi già visti nel precedente capitolo, ma mutati dal disastro nucleare. Riferimenti, in parte anche i personaggi, sono presi proprio da lì e chi l’ha giocato avrà una maggior soddisfazione nel percorrerne gli eventi. L’avventura si svolge per un totale di 22 missioni principali e circa una dozzina di ore per il completamento del titolo qualora ci si dedichi esclusivamente alla campagna. Detto ciò è bene precisare che il numero di ore che Far Cry New Dawn offre, volendo completare tutte le sfide, le sottoquest e trovando tutti i collezionabili, aumenta di molto.

Svolgere tutte queste attività ovviamente sbloccherà tutta
una serie di vantaggi che renderanno il proprio alter ego virtuale sempre più
forte e pronto ad affrontare la minaccia dei Guerrieri della Strada con maggior
possibilità di sopravvivenza. Una volta iniziata l’avventura e aver affrontato
una breve introduzione ci si troverà nella città di Prosperity. Il villaggio Diviso
in diverse aree fungerà da hub centrale dove è comodo trovare conforto dopo
ogni missione impegnativa, sia per rifocillarsi e rifornirsi di munizioni, sia
per spendere le risorse accumulate durante l’azione. Da subito quindi Far Cry New
Dawn pone il giocatore di fronte al nuovo sistema di gestione della fazione:
tutto, da Prosperity, alle armi, passando per veicoli e nemici, si divide in
quattro livelli di rarità e forza. Recuperare oggetti utili dalle macerie
dell’apocalisse, altro elemento immancabile in questo filone, servirà per
assemblare l’arsenale sempre più potente, anche se la moneta più preziosa nel
mondo Far Cry New Dawn è l’etanolo. Questo elemento è ottenibile sottraendolo
ai cattivi di turno che lo conservano negli Avamposti, marchio di fabbrica
della serie, che vanno ripuliti e riconquistati. Aperti i cancelli di
Prosperity, quello che una volta era il regno di Joseph Seed si mostra in tutta
la sua maestosità. La natura, come detto, ha preso il sopravvento e pervade
tutto il territorio di gioco in modo ancor più spettacolare che in precedenza.
Le strade sterrate che connettono i vari punti di interesse sono circondate da fitti
boschi e lunghi corsi d’acqua, portando su schermo una grossa mole di dettagli.
La mappa di gioco, che anche stavolta richiede la sola esplorazione per essere
scoperta, stupisce più per densità e qualità che per dimensioni, ma comunque
resta un territorio abbastanza vasto da scoprire e soprattutto offre tantissimi
luoghi e segreti da scoprire. In Far Cry New Dawn il crafting e la raccolta di
risorse sono i principali cambiamenti di questo capitolo, assieme
all’introduzione di alcuni elementi GdR sulla falsa riga di quanto visto negli
ultimi capitoli di Assassin’s Creed. Sotto questo aspetto l’ultimo capitolo
della saga di Ubisoft diverte e coinvolge, soprattutto grazie al bilanciamento
dei livelli armi/nemici che permettono uccisioni immediate. Di pari passo c’è
anche la progressione del personaggio, che grazie all’ottenimento di “Punti
Tratto” può sviluppare diverse abilità, alcune anche cumulabili, che concorrono
a rendere il gioco più accessibile anche nel momento in cui la difficoltà
s’impenna, soprattutto per chi si prefissa fin da subito di esplorare tutta la
mappa. Questi punti “esperienza” si ottengono principalmente completando le
sfide del gioco, ma anche correndo al salvataggio dei civili caduti nelle
grinfie dei Guerrieri della Strada e risolvendo gli enigmi legati alla scoperta
di alcuni tesori sparsi ovunque in Hope County.

 Nella sua semplicità, questo approccio
che strizza l’occhio ai GdR funziona bene lungo corso dell’avventura, ma non
porta alcuna grande innovazione. Purtroppo infatti la sensazione generale che
si ha è quella di un qualcosa che sa di già visto e pur rinvigorendo quella
struttura comprovata da anni all’interno della serie, è molto facile
raggiungerne l’apice. In questo aiutano gli Avamposti e le Spedizioni, soggetti
a loro volta alla progressione per livelli. Entrambi hanno l’utile funzione di far
guadagnare risorse in gran quantità e ogni volta che sono completati saliranno
di grado, aumentando la difficoltà in virtù di un successivo ritorno. La
completa libertà di approccio permette al giocatore di affrontare le situazioni
come meglio preferisce e, tirando le somme, risultano essere molto più
coinvolgenti degli eventi principali. Detto ciò, è innegabile che Far Cry New
Dawn sia un buon gioco, abbastanza lungo da godere e che offre un buon livello
di sfida. Purtroppo però, se si è appassionati della serie, la sensazione che
si avverte è quella di star giocando a qualcosa di già visto. Infatti,
nonostante le novità sopracitate, il gioco risulta essere un clone migliorato
dei suoi predecessori. Discorso diverso invece va fatto se non si è mai giocato
ai titoli precedenti della serie, ma visto il successo di quest’ultima, è
davvero difficile pensare che qualcuno non abbia mai affrontato uno dei tanti
titoli del franchise. A livello narrativo il gioco si attesta su un buon
livello, però, al di là di chiudere quanto lasciato in sospeso nel quinto
capitolo e presentare un paio di momenti interessanti, la scrittura non
raggiunge gli ottimi livelli visti nel capitolo precedente. Essere il sequel di
Far Cry 5 pone New Dawn in un confronto diretto, che viene però perso su quasi
tutti i fronti. Il carisma oscuro di John Seed e dei due fratelli, motivato dai
deliri di onnipotenza, vince a mani basse rispetto alla cattiveria fine a sé
stessa delle gemelle Lou e Mickey, mosse dalla semplice volontà di comandare e
arricchirsi quanto più possibile in questo nuovo mondo, che quasi faticano a
trovare ragioni per schierarsi contro gli abitanti di Prosperity.

Ubisoft avrebbe potuto far leva sull’ottima
reinterpretazione dello scenario post-apocalittico per renderlo innovativo,
diverso da tante altre opere, ma si perde tra l’ambientazione semplicemente
rivisitata e una fazione nemica vista e rivista in tanti altri videogame del
genere “dopo bomba”. Dopo cinque capitoli principali, due spin off, e molti
DLC, si ha la sensazione che Far Cry abbia bisogno di crescere e rinnovarsi per
portarsi su un nuovo livello, proprio come ha fatto la saga di Assassin’s Creed.
A livello tecnico Far Cry New Dawn poggia le sue basi sullo stesso motore che
un anno fa ha spinto il quinto capitolo canonico della serie. Rispetto a quanto
visto in passato, la sensazione che si ha è che i programmatori abbiano
preferito sacrificare un po’ di dettaglio generale, tra modelli e texture, in
cambio di una maggiore solidità e di un lavoro sull’ambientazione di alto
livello. La rifioritura è sostenuta da una vegetazione decisamente più
rigogliosa, da filtri cromatici accattivanti e da particellari più puliti. Gli
effetti sonori sono presi in larghissima parte dal predecessore, ma un ottimo
lavoro è stato svolto sulla scelta dei brani, davvero azzeccata in molte
occasioni, con tracce famose incastrate nel momento giusto al posto giusto.
Tirando le somme, questo Far Cry New Dawn, nonostante non lasci a bocca aperta
per quanto riguarda le novità, è un titolo di tutto rispetto, ambientato in un
universo molto ben caratterizzato e che garantisce la possibilità di divertirsi
per un buon numero di ore. Il titolo è perfettamente godibile sia da chi è fan
sfegatato della serie, sia da chi si avvicina al franchise di Ubisoft per la
prima volta. La grande giocabilità, l’intuitività dei comandi e un mondo vivo e
reattivo sono le qualità che rendono il software un videogame nel complesso
solido seppur non perfetto. Alla luce di quanto detto, se si è alla ricerca di
uno shooter che sposa, anche se in minima parte, alcune meccaniche da Gdr, Far
Cry New Dawn è sicuramente un’esperienza da provare.

GIUDIZIO GLOBALE:

Grafica: 8,5

Sonoro: 8,5

Gameplay: 7,5

Longevità: 7,5

VOTO FINALE: 8

Francesco Pellegrino Lise




Il Cd compie 40 anni e si avvia verso la “pensione”

Nel lontano 8 marzo del 1979 la Philips presentava il primo cd. Tale supporto era destinato a rivoluzionare l’ascolto e soprattutto la memorizzazione digitale delle informazioni. Adesso il compact disc è ormai in declino per l’arrivo dei nuovi formati digitali come lo streaming e l’archiviazione dati nel cloud. Il declino di tale supporto è sancito in Italia dall’uscita del Cd dal paniere Istat, che annovera i beni e i servizi più acquistati. E negli Usa dalla chiusura nel 2018 dell’ultima fabbrica che li produceva. Di fatto la progettazione del Cd nella sua configurazione definitiva risale al 1979 e si deve ad una joint venture della Philips con l’azienda giapponese Sony, che già dal 1975 stava sperimentando in modo indipendente la tecnologia per un disco ottico digitale. Un accordo tra la casa giapponese e quella olandese portò alla definizione dello standard per il compact disc, che prevedeva dischi di 12 centimetri e una risoluzione di 16 bit, e al lancio definitivo. Parlando un po’ di storia, a sancire il successo del cd fu il direttore d’orchestra Herbert Von Karajan che con i Berliner Philharmoniker è protagonista del primo disco registrato con il nuovo formato, mentre il primo album pop pubblicato su questo supporto è 52nd Street di Billy Joel. Nel 1990 l’intero settore dei Cd supera i 33 giri. Nel 2007, quando già l’mp3 è una realtà da diversi anni, si contano 200 miliardi di compact disc venduti nel mondo. E proprio l’mp3 e piattaforme come Napster e successivamente lo streaming di Spotify saranno determinanti per il declino del Compact disc, mai amato davvero dagli appassionati di musica per la qualità del suono, con il 2015 che verrà ricordato come l’anno in cui i formati “immateriali” hanno superato quelli fisici. Anche il suo utilizzo nel settore informatico crolla per il sopravvento delle chiavette usb, capienti e meno ingombranti, o di sistemi come wetransfer che permettono il trasferimento online di dati, video e foto in maniera veloce. Ma non è detto che fra qualche anno i cd non saranno destinati a tornare, infatti attualmente i suoi predecessori, dischi in vinile e musicassette, si sono recentemente presi la loro rivincita e sono tornati ad essere richiesti. Nel 2018 hanno fatto registrare aumenti delle vendite a due cifre, come riporta l’indagine della società specializzata BuzzAngle. In ogni caso, che sia destinato a sparire o a tornare in voga fra qualche anno non possiamo che augurare buon compleanno al cd.

F.P.L.




Jump Force, i manga più noti diventano un picchiaduro

Jump Force, il nuovo titolo prodotto da Bandai Namco e sviluppato da Spike Chunsoft, è finalmente arrivato su Pc, Ps4 e Xbox One. Il gioco ha la caratteristica di unire ben 42 lottatori appartenenti alle saghe che hanno fatto la storia del fumetto giapponese e di renderli dei lottatori formidabili tutti da giocare. Tra Dragon Ball, One Piece, Ken il Guerriero, i Cavalieri dello Zodiaco, Naruto, City Hunter e molti altri, c’è davvero l’imbarazzo della scelta per chiunque sia cresciuto a pane e manga. Non a caso il videogame è uscito nell’anno del 50esimo anniversario di Weekly Shōnen Jump, conosciuta anche semplicemente come Shōnen Jump. Per chi non lo sapesse stiamo parlando di una delle più longeve testate settimanali di manga pubblicate in Giappone che vanta milioni di fan in tutto il mondo. Tale successo è dovuto al fatto che la maggior parte delle avventure che pubblica sono arrivate anche in occidente e in Italia, sia in formato cartaceo che nelle loro trasposizioni video in forma di anime. Detto ciò, veniamo alla trama dell’ultimo prodotto Bandai Namco: Jump Force ha inizio con la creazione del proprio alter ego virtuale tramite un editor di personaggi non troppo complesso. Una volta creato l’eroe che accompagnerà il giocatore lungo la “campagna”, il quale grazie a un cubo magico riceverà gli stessi poteri degli eroi dei manga, verrà chiesto di entrare a far parte di uno tra tre team: il team Dragonball, il team Naruto e il team One Piece. La scelta non è per niente tecnica o strategica, bensì legata a quali personaggi animati si è più affezionati. I guerrieri hanno infatti tutti meccaniche di combattimento simili, con le mosse speciali che però differiscono molto fra loro. Dopo un breve tutorial che serve a spiegare l’esecuzione delle combo base e delle mosse avanzate e speciali, i giocatori vengono catapultati nella base della J-Force, un mondo vivo dove si trovano tanti NPC e giocatori reali da tutto il mondo con cui interagire, negozi, punti di interesse e chioschetti dove avviare missioni e battaglie offline e online.

Benché chi si trova
dinanzi lo schermo possa muoversi abbastanza liberamente già dopo il tutorial,
e avviare ad esempio battaglie offline o con giocatori in rete, alcune sezioni
sono bloccate e richiedono l’avanzamento nella storia single-player. Quest’ultima
però è il vero e proprio punto dolente del gioco. Essa infatti è piuttosto
banale e man mano che si prosegue propone una serie di missioni troppo simili
fra loro e ripetitive in successione, intermezzate da scene con audio in
giapponese. La storia lega le battaglie l’una con l’altra ma la narrazione
appare a volte forzata e frammentaria. Alcuni scontri si affronteranno con il
proprio alter-ego e altre con uno dei personaggi degli anime, mentre altre
ancora con un team di tre lottatori. In questo modo si avverte una sensazione
di varietà che nello stesso tempo però mina alla continuità dello schema di
combattimento. Il titolo a livello d’identità può essere definito un
picchiaduro con tendenze rpg-free roaming, infatti la progressione è legata agli
eventi della storia single-player che permettono pian piano di sbloccare
lottatori e skill. Nelle pause tra ogni battaglia i giocatori sono liberi di
girare per il mondo di gioco affrontando battaglie offline e online con
matchmaking, o affrontando gli altri player che girano liberi per la base.
Inoltre, nei negozi è possibile acquistare abilità, tecniche e oggetti
cosmetici per potenziare il proprio eroe. Le skill possono essere livellate
anch’esse. A volte quindi si avverte una sensazione di smarrimento e
ridondanza, che può risultare fastidiosa per chi volesse semplicemente buttarsi
nella lotta come ci si aspetterebbe da un gioco di questo genere. Per chi non
fosse particolarmente interessato alla storia, comunque, è sempre possibile
dedicarsi alle sole battaglie in single e multiplayer, anche se il gioco perde
molto della sua appetibilità.

A livello di combat
system Jump Force è un gioco poco tecnico che si riduce molto spesso a un
button smashing sfrenato. Per capirci meglio, sulla versione Xbox da noi
testata l’attacco impeto, eseguibile con tasto X è quello “debole”, mentre
quello pesante si esegue con Y. Essi possono essere combinati tra loro o si può
premere ripetutamente il medesimo tasto per realizzare le combo, più rapide e
meno efficaci le prime, più lente e letali le seconde. Il numero di attacchi
concatenabili dipende da personaggio ma, nel complesso, si ha la sensazione
che, in tali azioni, la differenza tra i lottatori sia davvero minima, così
come per le proiezioni, attivabili premendo B, utili per danneggiare
l’avversario quando mantiene la guardia che si attiva con RB. La basilare
mappatura dei comandi permette ovviamente il salto utilizzando il tasto A, lo
scatto con LB, lo switch tra i membri del team tramite la pressione di LT e la
ricarica della barra di energia con RT che consente di eseguire le mosse
speciali combinando il grilletto destro + frontali. Il tutto non richiede
particolari predisposizioni o abilità con i picchiaduro e risulta, nel pieno
animo fan-service dell’opera, accessibile anche a chi vuole cimentarsi con Jump
Force solo per amore dei propri beniamini. I virtuosismi, in realtà, sono
permessi, quanto meno sulla carta: schivate, combinazioni tra attacchi classici
e speciali, switch durante le combo, ragionamenti sugli attacchi elementali,
etc… dovrebbero consentire anche ai più abili di sfruttare il combat system con
maggior profondità. In realtà, a causa delle ridottissime finestre temporali
per l’attivazione, ad esempio, di un contro-attacco e per via della confusione
che si viene a creare sullo schermo, si fa grande fatica a cogliere gli attimi
necessari per compiere i “virtuosismi” e si finisce ad optare per la pressione
compulsiva delle mosse più semplici. Tanto più vista l’entità importante del
danno arrecato da un comodissimo attacco impeto che va a segno nella sua combo
completa.

Per quanto concerne
il comparto tecnico, Jump Force presenta delle animazioni molto curate nelle
sequenze di lotta, ma quelle delle cut-scene e dei dialoghi sono a volta
grossolane e sembrano realizzate in fretta, con qualche problema di
sincronizzazione fra il movimento delle labbra e il parlato. Il gioco gira
abbastanza fluidamente a 30fps e per il tipo di azione che offre è più che
adeguato. Quando ci sono molti giocatori in lobby abbiamo però riscontrato
qualche problema di lag. Per quanto riguarda i dialoghi, essi sono in inglese o
giapponese, a second del gusto dell’utente. Mentre gli effetti sonori sono
assolutamente fedeli a quelli che si possono ascoltare negli anime. Uno degli
aspetti più allettanti è sicuramente la personalizzazione dei combattenti. Si
possono applicare tatuaggi, segni distintivi, costumi e accessori appartenenti
ai vari personaggi dei manga. Ovviamente, più si conoscono le differenti serie
ed i relativi personaggi, e più questo ambito acquisisce appetibilità.
All’inizio ci sarà ben poco da applicare per customizzare l’avatar ma, man mano
che si accumulano punti, si potranno acquistare nuovi oggetti e rendere il
proprio personaggio davvero unico. L’accesso giornaliero al gioco, inoltre,
premia i giocatori più assidui con ulteriori punti da spendere. Tirando le
somme, Jump Force, visto il grande potenziale e i milioni di fan del genere è
un titolo che poteva dare assolutamente di più. Lottatori bilanciati male,
meccaniche estremamente semplicistiche e un livello di sfida tarato verso il
basso da una parte, tutti i personaggi più amati dai fan dei migliori manga di
Shōnen Jump e un buon comparto grafico dall’altra, Jump Force è il tipico
esempio videoludico dell’occasione sprecata. Quello che sulla carta poteva
infatti essere il crossover definitivo finisce invece per inciampare su quelli
che sono gli elementi base di qualsiasi picchiaduro che si rispetti: la
giocabilità e il bilanciamento generale tra i lottatori. Anche l’aspetto
grafico in 3D non rende giustizia al titolo trasformando i personaggi quasi in
action figures non sempre belle da vedere e poco espressive. Magari uno stile
grafico più platform, come quello visto nel bellissimo Dragon Ball FighterZ, a
nostro avviso avrebbe reso giustizia ai tanti personaggi presenti. Detto ciò,
quindi ci sentiamo di consigliare questo Jump Force solo ed esclusivamente ai
fan più appassionati, disposti a chiudere un occhio sulle meccaniche e sulla
trama.

GIUDIZIO GLOBALE:

Grafica 6

Sonoro: 7,5

Gameplay: 6

Longevità: 7

VOTO FINALE: 6,5

Francesco Pellegrino Lise




Nubia lancia Alpha, l’innovativo smartphone da polso

Lo smartphone dice addio alle tasche e alle borse per diventare indossabile: al polso più precisamente. Tutto questo è possibile ovviamente grazie all’utilizzo di un innovativo schermo flessibile. A crearlo è l’azienda cinese Nubia, che al Mobile World Congress di Barcellona porta un dispositivo che vuole mettere insieme le caratteristiche migliori dello smartphone e dello smartwatch. Il “wearable” si chiama Nubia Alpha ed è presentato come “il primo telefono indossabile con schermo flessibile disponibile in commercio”.

L’arrivo nei negozi europei del device è previsto fra la primavera e l’estate

Già in molti sembrano interessati per l’acquisto. Il Nubia Alpha possiede uno schermo Oled da 4 pollici ed è disponibile in due versioni: una con connettività Bluetooth e Wi-Fi, e una anche con eSim, cioè con scheda telefonica virtuale, che consente al bracciale di rimpiazzare lo smartphone. Dall’aspetto tutt’altro che minimale, è piuttosto ingombrante ed evidente, soprattutto nella versione placcata in oro a 18 carati, questo strano quanto innovativo dispositivo consente di mandare messaggi, telefonare, scattare foto e navigare in rete anche senza toccare lo schermo, perché riconosce i gesti e i comandi vocali. Dallo smartwatch, invece, il prodotto prende in prestito il rilevatore dell’attività fisica e il monitoraggio di battito cardiaco, esercizio e qualità del sonno. Insomma, sembra proprio che in Cina stiano tentando di trovare una nuova strada per controbattere lo strapotere statunitense in questa fetta di mercato. Il Nubia Alpha riuscirà a stravolgere il concetto di smartphone? O avrà un’accoglienza tiepida da parte del pubblico fruitore? Non resta altro che aspettare l’estate per vedere l’impatto che avrà sulle persone.

Francesco Pellegrino Lise




Crackdown 3, l’Agenzia torna su Xbox One e Pc

Dopo un secondo
capitolo non particolarmente brillante e un’attesa lunga quasi 5 anni,
Crackdown 3 arriva sulle console della famiglia Xbox One e su Pc. Prima di
parlare di questo titolo però è bene mettere in chiaro una cosa: se si è alla
ricerca di un titolo con una trama solida, fatto di colpi di scena brillanti o
ricco di innovazione, Crackdown 3 non è il gioco che fa per voi. Nel caso in
cui invece si cerchi un videogame fatto per trascorrere il proprio tempo senza
pensare troppo, andando avanti a colpi di esplosioni, distruzione e personaggi
dotati di abilità sovraumane, allora questa è una produzione che non bisogna
assolutamente lasciarsi scappare. Vi diciamo questo in quanto questo terzo
capitolo della serie, un po’ come i suoi predecessori vuol essere volutamente
un titolo fatto per divertire, e lo fa mantenendo i toni iperbolici che da
sempre hanno caratterizzato il brand senza mezzi termini. Ma veniamo alla trama
di Crackdown 3: il gioco ha inizio esattamente 10 anni dopo i fatti accaduti nel
secondo capitolo. Qui un attacco terroristico non meglio identificato rende
inutilizzabile gran parte della tecnologia mondiale e i rifugiati cercano
riparo nella città di New Providence che non solo è rimasta “stranamente”
illesa, ma sembra offrire un ambiente idilliaco in cui ripartire da zero e
vivere serenamente la propria esistenza. Dietro a tutto questo ovviamente si
cela una multinazionale dalle pessime intenzioni, la TerraNova WorldWide, che
dietro la maschera del bene comune sta compiendo strani esperimenti e tiene in
pugno la città con la sua gang di criminali vestiti da guardie, scienziati
pazzi e guerrafondai esaltati. Ovviamente toccherà all’Agenzia risolvere le
cose nell’unico modo possibile: spaccando tutto. Decisi a liberare la città, i
vertici dell’Agenzia decidono d’inviare quindi sul campo i migliori agenti
disponibili che, tuttavia, subiscono un attacco da parte del Blackout, un
agente atmosferico che azzera tutte le abilità dei super soldati eliminandoli.
Tuttavia una giovane ragazza di nome Echo riesce a salvare il protagonista,
spingendolo a cercare di salvare New Providence da questa famigerata società
che sfrutta i cittadini per l’estrazione di un pericoloso materiale chimico: la
Chimera. La trama è raccontata con pochissime scene di intermezzo che sfruttano
il motore del gioco e alcune illustrazioni che ricordano un po’ i fumetti degli
anni ’90. Scelta molto coerente a nostro avviso in quanto la storia sembra
proprio esser venuta fuori direttamente da un action movie di vent’anni fa.
Parlando di giocabilità, Crackdown 3 ha inizio con la scelta dell’agente di cui
si deciderà vestire i panni. Ogni personaggio ha dei bonus peculiari, come ad
esempio più abilità nella guida, con gli esplosivi, con le armi da fuoco ecc…
Ma essi non influenzeranno mai in maniera troppo vistosa l’avventura, quindi la
scelta si ridurrà semplicemente puntando all’aspetto estetico che si
preferisce. La decisione in ogni caso non è vincolante perché come si vedrà
procedendo nella storia, in qualsiasi momento si potrà cambiare il proprio
personaggio, anche perché sparsi un po’ ovunque per la mappa si potranno
trovare i Dna degli agenti morti nell’introduzione per poterli sbloccare e
usare. Interessante la gestione dei salvataggi che non legano l’agente al mondo
di gioco, potendo dunque decidere di usare uno qualsiasi dei personaggi in una
qualsiasi delle partite già iniziate o direttamente in una nuova. Dopo la fase
introduttiva, il gioco getta il giocatore direttamente nella mischia dandogli subito
la possibilità di muoversi con un buon grado di libertà per le strade, o
meglio, i palazzi, di New Providence. A gestire la metropoli però non c’è solo
la perfida Elizabeth Niemand, ma un vero e proprio governo composto dai suoi
seguaci più fidati, che regolano i diversi aspetti della vita quotidiana,
tenendo in pungo tutti i principali servizi, dai trasporti alla sicurezza fino
alle comunicazioni. Il compito degli agenti sarà naturalmente quello di
ribaltare il governo centrale, sconfiggere Elizabeth e liberare gli innocenti
cittadini dalla morsa dello strapotere della Niemand.

Per sconfiggere la
perfida antagonista di Crackdown 3 sarà necessario far fuori uno a uno tutti i
seguaci, scovandoli ed eliminandoli. Ogni nemico è legato a una particolare
attività che rappresenta anche il suo campo di specializzazione. Ad esempio per
raggiungere l’IA che gestisce le linee di trasporto sarà necessario conquistare
le stazioni, o ancora per individuare l’addetto alla sicurezza interna
bisognerà liberare dai campi di prigionia i cittadini detenuti. Altre attività
ancora richiedono di disattivare dei centri di comunicazione per disabilitare
la continua propaganda o dei centri chimici per cessare la produzione di
materiale tossico usato persino sulla popolazione. Tutte queste missioni, molto
varie tra loro, saranno sparse per l’intera mappa di gioco e al completamento
di tutte quelle di un certo tipo, verrà indicata automaticamente la posizione
del luogotenente di riferimento. Gli scontri con i luogotenenti di Elizabeth
sono il culmine di un sistema generalmente funzionale, con scontri ben
caratterizzati, mai noiosi e che ai livelli di difficoltà più elevati offrono
anche sfide particolarmente impegnative. L’esplorazione della città avviene con
una naturale, quanto apprezzabile, libertà, questo perché basta girare la mappa
per evidenziare i diversi luoghi d’interesse senza la necessità di raggiungere
i classici punti di osservazione. Analogamente anche le attività secondarie
vengono sbloccate nello stesso modo, dalle sfide di guida o di corsa, ai
chioschetti da distruggere e alle basi dove poter gestire il proprio arsenale o
generare un veicolo per facilitare gli spostamenti. Lo stile di gioco di
Crackdown 3, quindi si può dire che è totalmente incentrato sulla giocabilità e
quasi per nulla sulla trama. Proprio per tale ragione all’inizio abbiamo voluto
precisare che tale gioco è indicato per chi ha voglia di una sana quanto
scanzonata distruzione. Se da un lato la giocabilità ne guadagna in termini di
ritmo e continuità, dall’altro viene a mancare quel naturale senso di
progressione e suddivisione delle attività, ponendole praticamente tutte sullo
stesso livello. Peccato soltanto per la durata complessiva, che richiederà una
decina di ore per portare a termine la quasi totalità delle attività
disponibili, senza troppi incentivi a continuare la partita dopo i titoli di
coda. Un discorso simile lo si può fare anche per il gameplay in quanto non
esiste un vero e proprio processo di crescita classico. La gestione delle
nostre abilità avviene tramite cinque parametri di riferimento, sempre visibili
nella parte sinistra dello schermo: agilità, armi da fuoco, forza, esplosioni e
guida. Per aumentare il primo bisognerà raccogliere le settecentocinquanta
sfere agilità sparse per la mappa di gioco (non tutte comunque necessarie), per
i successivi tre campi invece basta semplicemente giocare, uccidendo con i
diversi mezzi a propria disposizione e infine per far incrementare il livello
di guida basterà essere spericolati al volante o completare le gare.
Raccogliendo invece le sfere segrete si potranno ottenere invece dei punti per
tutti i campi. A ogni scatto di livello corrispondono delle nuove abilità e nel
giro di poche ore sarà possibile sbloccare la quasi totalità dei bonus
disponibili, decisione condivisibile per consentire quanto prima di sfruttare
tutti i benefici disponibili, anche in termini di semplice godibilità del
gameplay. Per quanto riguarda il “gunplay” invece, Crackdown 3 adotta un
sistema imperniato sulla possibilità di bloccare la mira su un nemico e rendere
così quasi impossibile mancare i colpi, potendo inoltre passare da un bersaglio
all’altro in maniera piuttosto fluida. La vera difficoltà negli scontri non è
tanto il prendere la mira quando il gestire i tanti nemici presenti, rimanendo
dunque sempre in movimento e schivando quando possibile gli attacchi a noi
destinati. Gli scontri finiscono sempre con l’essere accesi senza mai diventare
confusionari, e in essi è sempre bello poter dare libero sfogo alle abilità
sovraumane di manovra dell’agente e massacrare i nemici con le decine di
granate e armi disponibili. Nonostante qualche bilanciamento sia opportuno, la
lista delle armi utilizzabili è ottima, capace di dare molteplici soddisfazioni
grazie a una gran varietà di bocche di fuoco. In Crackdown 3 morire non è di
certo un evento raro, soprattutto ai livelli di difficoltà più elevati, ma ciò
non è un problema in quanto il gioco adotta un sistema di continuità molto
semplice: quando si muore, si può liberamente rientrare in uno qualsiasi dei
punti di rientro e riprendere esattamente dove si era rimasti. Infondo nel
futuro distopico dove il gioco è ambientato la clonazione rapida tramite
l’utilizzo del Dna sembra essere un gioco da ragazzi. Sul fronte tecnico
Crackdown 3 mantiene un frame rate costante anche nelle situazioni più
caotiche, con decine di nemici a schermo ed effetti particellari generalmente
buoni e di ogni tipo, quantomeno su One X. C’è da dire inoltre che se da una
parte il titolo offre un ambiente di gioco intoccabile, in cui gli edifici e il
terreno non vengono minimamente scalfiti dalla furia distruttrice del giocatore
e gli abitanti sono pupazzi di contorno che spesso diventano vittime
collaterali della potenza di fuoco del giocatore, dall’altra mostra una
spiccata estetica retrofuturista fatta di palazzoni al neon che si mescola con
le baraccopoli sudafricane. Il comparto audio, infine, presenta un’ottima
selezione musicale, in grado di sottolineare i ritmi degli scontri ed
enfatizzarne il dinamismo generale.

Vera novità di
questo Crackdown 3, oltre che essere una delle componenti del gioco più attese,
è la Zona di Demolizione, il multiplayer competitivo interamente gestito dal
Cloud e in grado di garantire una distruttività ambientale vicino al 100%.
Durante la nostra prova abbiamo avuto accesso alle tre mappe e alle due
modalità: Cacciatori di agenti e territori. La prima rappresenta un classico
Deathmatch a squadre in cui i due team di massimo cinque giocatori hanno come
unico obiettivo quello di uccidersi, totalizzando il maggior numero di
uccisioni entro lo scadere del tempo o raggiungendo il punteggio massimo. Nella
modalità Territori, invece, bisogna conquistare e difendere determinate
posizioni. Queste appariranno sulla mappa a gruppi di due, e quando un team ne
conquista una iniziano a consumarsi i punti dell’area, venendo dunque assegnati
alla squadra che la controlla. Quando si esauriscono, la zona si disattiva e si
passa a quella successiva. Esattamente come in Cacciatori di Agenti, lo scopo è
ottenere il punteggio più alto. Nel multiplayer di Crackdown 3 prima di ogni
partita si sceglie l’equipaggiamento. E’ possibile selezionare due delle nove
armi presenti e un gadget tra uno scudo aggiuntivo in grado di assorbire danni
extra, e un trampolino utile per saltare più in alto. Per quanto riguarda il
gameplay, esso è molto semplice, la mira, esattamente come nella campagna, è
automatica una volta premuto il grilletto sinistro, inoltre è possibile
utilizzare il doppio salto, il booster per avanzare più rapidamente e un
attacco corpo a corpo ricaricabile in breve tempi. La distruttibilità
dell’ambiente poi, nonostante non faccia gridare al miracolo per realizzazione
tecnica, rende l’esperienza nel complesso divertente e appagante. Tirando le
somme, Crackdown 3 è un titolo pieno di spunti interessanti, di attività
divertenti e di cose da fare. Il problema di fondo è che ci si trova dinanzi a
un titolo che possiede delle dinamiche che non appartengono più al panorama
videoludico attuale. In sostanza, se non si ha poco tempo per giocare, se non
si è amanti del multiplayer, se non si vuole perder tempo appresso a un titolo
fatto di trame complicate e rompicapo complessi Crackdown 3 è un titolo da non
perdere. Ma se si è in cerca di qualcosa di nuovo, più profondo e che sappia
meno di già visto allora è preferibile navigare verso altri lidi.

GIUDIZIO GLOBALE:

Grafica: 7,5

Sonoro: 7,5

Gameplay: 7

Longevità: 6,5

VOTO FINALE: 7

Francesco Pellegrino Lise




Android a rischio, aumentano le false app bancarie

Android a rischio. I
ricercatori di ESET, azienda leader nel campo dell’individuzione e lotta contro
virus informatici e malware, mettono in guardia dalla minaccia sottovalutata
delle false app bancarie per dispositivi Android, che si presentano come applicazioni
finanziarie legittime con l’obiettivo di rubare credenziali o denaro dai conti
bancari delle vittime. Anche se tecnicamente lontane dalle modalità più
avanzate di frode, le false app bancarie presentano vantaggi strategici che le
rendono comparabili a tipi di malware molto più sofisticati come i trojan
bancari. L’analisi dei ricercatori di ESET relativa ai due tipi di frode,
entrambi presenti nello store ufficiale di Google Play, ha dimostrato che le
app bancarie fake presentano per i cybercriminali alcuni vantaggi che i temuti
trojan bancari non hanno. Il principale punto di forza di queste app fake è la
loro pressochè totale somiglianza alle applicazioni bancarie legittime. Se gli
utenti cadono nel tranello e installano l‘app fake sul proprio smartphone
Android, c’è un’alta probabilità che considerino legittima la schermata di
accesso visualizzata e inviino le proprie credenziali. E, contrariamente ai
trojan bancari, non vengono richiesti permessi aggiuntivi che possano sollevare
il sospetto degli utenti dopo l’installazione. Oltre a questo, i trojan bancari
sofisticati sono maggiormente soggetti al rilevamento dei software antivirus, a
causa delle loro tecniche avanzate che fungono da trigger per varie misure di
sicurezza.

Target delle false app bancarie

A differenza dei
trojan bancari, le false app bancarie si focalizzano in genere su un target di
clienti di un solo istituto finanziario o servizio – quello che impersonano.
Un’eccezione a questa regola è stata un’app falsa che sosteneva di essere uno
strumento bancario universale e che aveva come target i clienti di 19 banche
polacche. Alcuni autori di malware approfittano dell’assenza di un’app mobile
ufficiale di una certa banca o servizio, mentre altri tentano di ingannare gli
utenti impersonando app ufficiali esistenti. Occasionalmente, le false app
fingono di offrire funzionalità aggiuntive alle app legittime esistenti, come
la promozione di premi bancari, regali o offerte per aumentare i limiti delle
carte di credito.

Come proteggersi dalla minaccia degli Android banking malware:

Per stare al sicuro
dai malware bancari che imperversano sui dispositivi Android, gli esperti di
ESET consigliano agli utenti di:

–        Tenere
aggiornato il proprio dispositivo e utilizzare una soluzione di sicurezza
mobile affidabile.

–        Evitare
gli store non ufficiali, se possibile; tenere sempre disabilitata sul proprio
dispositivo l‘opzione “installazione di app da fonti sconosciute”.

–        Prima
di installare un’app da Google Play, controllare sempre le valutazioni degli
altri utenti, il contenuto delle recensioni, il numero di installazioni e le
autorizzazioni richieste; prestare attenzione al comportamento dell’app anche
dopo i primi utilizzi.

–        Scaricare sempre e solo applicazioni bancarie e altre applicazioni finanziarie collegate al sito Web ufficiale della banca o del servizio finanziario.

F.P.L.




Kingdom Hearts 3, la saga giunge al termine

Square Enix e Disney hanno finalmente lanciato Kingdom Hearts 3. Dopo ben 13 anni d’attesa dall’ultimo titolo della serie, finalmente i fan di tutto il mondo potranno accompagnare Sora, il giovane protagonista armato di keyblade , in una nuova splendida avventura. L’eroe, con l’aiuto dei suoi fedeli compagni Paperino e Pippo, ovvero degli emissari inviati da Re Topolino, si unirà ai personaggi più famosi della Disney e della Pixar per cercare di sconfiggere l’oscurità e salvare l’universo dagli spietati heartless in un lungo e meraviglioso viaggio capace di tenere letteralmente inchiodati al joypad. Con oltre un decennio trascorso dal secondo capitolo e con una narrativa frammentata in un numero indefinito di spin-off e piattaforme, l’arrivo di Kingdom Hearts III su Ps4 e Xbox One era tutto meno che scontato. Annunciato per la prima volta all’E3 del 2013, il terzo episodio numerato della saga di Tetsuya Nomura è stato difatti accolto fin dall’inizio con delirante entusiasmo, scaturito dall’immensa passione verso una serie straordinaria, abile nel coniugare linguaggi e culture diverse in unico e maestoso immaginario. Ma veniamo alla trama di quest’appassionante quanto incredibile storia: come fatto intendere nell’epilogo di “A Fragmentary Passage”, Kingdom Hearts 3 ha inizio con un Sora indebolito a seguito del tentativo di possessione da parte di Xehanort, che l’ha portato a perdere il potere del Risveglio ottenuto con Riku in precedenza. In vista della battaglia finale contro la nuova Organizzazione XIII e del prossimo raggruppamento dei sette Guardiani della Luce, di cui fanno parte Lea, Kairi, Topolino ed altri personaggi storici della saga, recuperare tale capacità risulta un imperativo, forzando Sora ad intraprendere un nuovo viaggio per chiarire la sua natura ed intraprendere legami con nuovi cuori. Il problema, se così si può definire, più grosso di Kingdom Hearts III è proprio il comparto narrativo che potrebbe effettivamente rappresentare un ostacolo per tutti quegli utenti che desiderano giocare per la prima volta assieme a Sora e amici. Kingdom Hearts III è infatti il terzo episodio di una trilogia debuttata nel 2002 su PlayStation 2 che nel corso degli anni si è ampliata con episodi “secondari”, usciti su diverse piattaforme, tra cui dispositivi mobile e console portatili. I vari giochi hanno quindi sviluppato a dismisura l’intreccio narrativo e, allo stato attuale, sono di fatto dei capitoli necessari per capire tutti i riferimenti presenti in Kingdom Hearts III. L’avventura di Sora e amici riparte dal Monte Olimpo dove Pippo e Paperino tentano di aiutare il protagonista a recuperare i poteri. Si inizierà quindi un lungo viaggio che porterà l’iconico Trio a visitare una serie di mondi Disney e Pixar, a combattere contro innumerevoli nemici, tra cui Heartless e Nameless, per prepararsi al meglio allo scontro finale mentre Riku e Topolino, in completa autonomia, raduneranno gli alleati in vista dell’ultima battaglia. A livello di gameplay, il titolo di Square Enix e Disney è davvero uno spettacolo, i combattimenti in tempo reale di Kingdom Hearts 3 sono visivamente spettacolari, un tripudio di effetti ed animazioni capaci di lasciare chiunque a bocca aperta. Questi si basano su una componente tendenzialmente “button mashing” che ha da sempre caratterizzato la serie, quindi, il sistema di controllo è assolutamente semplice ed intuitivo. I tasti utili all’azione sono pochi e per eseguire i vari “attacchi speciali” sarà sufficiente premere il pulsante predisposto per tale fine. Sui campi di battaglia, oltre a pozioni curative, elisir ed accessori, Sora potrà equipaggiare sino ad un massimo di tre Keyblade, ognuna dotata di attacchi, caratteristiche e Fusioni differenti, che potranno essere cambiate nel corso dello scontro. Tra attacchi speciali, magie, legami, evocazioni, Fusioni, attrazioni e mosse combinate con i personaggi presenti nel gruppo, ogni battaglia è quindi un tripudio di colori ed effetti semplicemente fanvolosi. L’intero sistema di combattimento poggia quindi sulle collaudate meccaniche del franchise. In basso a sinistra saranno sempre ben visibili le quattro “azioni” basilari: Attacco (Keyblade), Magia (incantesimi sia offensivi che curativi), Oggetti (utilizzare un item a patto di averlo equipaggiato) e Legami (evocazione). Accanto a questi quattro “pilastri” si innescano una serie di meccaniche più stratificate che permetteranno a Sora e compagni di innescare attacchi devastanti ed estremamente spettacolari.

Utilizzando il
Keyblade e infliggendo a lungo danni ai nemici, ad esempio, si potranno
attivare le Fusioni che potenzieranno e modificheranno l’attacco dell’arma
dando vita anche a un micidiale colpo di grazia. Discorso simile vale anche per
le magie con la possibilità di utilizzare incantesimi potenziati, a patto di
aver riempito l’apposita barra colpendo ripetutamente gli avversari. Nella
mischia sono presenti inoltre così dette “attrzioni” che si potranno attivare
dopo aver colpito i nemici contornati da un cerchio verde. Queste mosse, oltre
essere estremamente spettacolari, varieranno in base al luogo in cui si
combatte, avranno un raggio d’azione ampio, conferiranno ingenti danni ai
nemici e si potranno concludere con una sorta di colpo finale davvero
spettacolare. Per quanto riguarda il sistema di combattimento non mancano poi
gli attacchi combinati con i compagni di gruppo ed il “Fluimoto”, che permette
di coprire grandi distanze in poco tempo e che tornerà molto utile anche in
battaglia. Presente anche il colpo “Tiro” che, collegato alla barra Focus e al
Keyblade utilizzato, consentirà di agganciare e colpire più nemici in
simultanea e che sarà indispensabile anche per raggiungere luoghi altrimenti
inaccessibili. Ovviamente si potranno inoltre evocare alleati durante le
sessioni di combattimento a patto però di consumare l’intera barra dei PM che
si ricaricherà con il passare del tempo o utilizzando apposite pozioni. Da buon
gdr che si rispetti, anche in Kingdom Hearts 3 sconfiggendo nemici e boss,
Sora, Pippo e Paperino, saliranno di livello e aumenteranno le loro
statistiche. Inoltre sbloccheranno innumerevoli abilità con cui personalizzare
il set di mosse disponibili, le fasi offensive, difensive e curative. Ogni
abilità ha però un costo in punti che viene detratto da un massimale che
incrementerà salendo di livello. Nel complesso l’intera struttura che governa
le fasi di combattimento funziona e diverte rendendo gli scontri vari e
visivamente spettacolari, tuttavia il livello di sfida è davvero piuttosto
semplice, quindi il nostro consiglio è quello di giocare alla massima
difficoltà. Durante le nostre circa 50 ore di gioco, non ci è mai capitato di
trovarci in combattimenti troppo complessi o frustranti, neppure quando il
protagonista era di livello inferiore rispetto a quello richiesto dal mondo che
in quel momento stavamo esplorando.

Sempre a livello di gameplay, le meccaniche RPG di Kingdom Hearts 3 ci sono sembrate piuttosto semplici e con un sistema eccessivamente basilare. Le statistiche di Sora e compagni aumentano in modo autonomo e si potrà interagire solo con le abilità decidendo, in base ai punti a disposizione, quali attivare o disabilitare. Detto ciò, segnaliamo comunque la possibilità di abilitare alcuni malus, pensati appositamente per mettere in difficoltà il giocatore e garantire un livello di sfida superiore. Nel titolo fortunatamente è presente anche un sistema di crafting che, oltre a permettere la creazione di pozioni curative, elisir e oggetti di vario genere, consente anche di potenziare le Keyblade a patto di essere in possesso dei materiali richiesti. All’officina si accederà interagendo con il Moguri, unico personaggio di Final Fantasy presente, con cui si potrà anche commerciare. A Crepuscopoli inoltre, si avrà la possibilità di entrare al bistrot di Zio Paperone e creare, completando dei minigiochi di cucina, dei menù gourmet che conferiranno al trio bonus temporanei. Proprio come già visto in passato, Kingdom Hearts 3 non è solo combattimenti, la struttura di gioco viene infatti ampliata con una serie di attività secondarie che spaziano dalla ricerca di collezionabili, scattare foto, a boss opzionali sino ad arrivare ai 20 mini-giochi ispirati al mondo Disney degli anni 80 e ai “viaggi” nello spazio a bordo della ormai nota Gummiship. I minigiochi, rigorosamente in bianco e nero, non saranno disponibili sin da subito ma andranno sbloccati progredendo nell’avventura e trovando gli appositi scrigni sparsi nei mondi di gioco. Per accedervi, sarà necessario utilizzare il Gummifono, una sorta di smartphone inventato da Cip e Ciop che sostituisce il “diario” cartaceo del Grillo Parlante presente negli episodi precedenti. Tramite il Gummifono si potrà quindi accedere ad una sezione dove non mancheranno le schede dettagliate di alleati e nemici, il glossario e il riassunto della storia. Essendo una sorta di smartphone, con il dispositivo si potranno inoltre scattare foto e gli immancabili selfie. Per quanto riguarda le sessioni di gioco a bordo della Gummiship, l’iconico mezzo di trasporto con cui si viaggerà nello spazio per spostarsi da un mondo all’altro, il gampelay canonico è stato arricchito da qualche gustoso elemento in più. Si tratta di un gioco nel gioco considerando che l’universo stellato di Kingdom Hearts 3 è ricco di tesori ma anche di pericolosi nemici. Si affronteranno quindi battaglie spaziali, non mancheranno mini-boss e le insidie saranno dietro ad ogni angolo. Saranno presenti preziosi tesori e si potranno recuperare materiali rari, progetti esclusivi e componenti unici per la Gummiship. Oltre a poter personalizzare o modificare le “navi” esistenti, è presente anche un editor che consentirà di creare da zero la propria Gummiship, equipaggiandola con una serie di accessori, armi, bonus e facendo attenzione a equilibrare le varie statistiche: manovrabilità, punti vita, potenza, rollio, attacco.

 

Kingdom Hearts III
grazie alle prestazioni offerte dalle attuali console si libera una volta per
tutte dei limiti tecnologici imposti da una tecnologia datata prima, dalle
console portatili poi, mostrando tutto il potenziale artistico di un concept
eclettico e stravagante. La progressione nei livelli appare più
tridimensionale, sviluppandosi non solo su un piano orizzontale, ma anche e
soprattutto su quello verticale. Il level design va infatti in questo terzo
capitolo arricchendosi notevolmente, garantendo sezioni ampie e continue e
abbandonando le continue schermate di caricamento delle iterazioni passate. La
progressione nei livelli appare inoltre più tridimensionale, sviluppandosi non
solo su un piano orizzontale, ma anche e soprattutto su quello verticale,
specie grazie alla nuova capacità di Sora di sfidare la gravità e muoversi su
pareti ben evidenziate. Passando invece a considerazioni di carattere
prettamente tecnico, il lavoro fatto per questo terzo capitolo di Kingdom
Hearts ha dell’incredibile, sebbene non manchi di mostrare il fianco ad alcuni
annosi problemi. L’Unreal Engine 4 del gioco vanta un sistema di illuminazione
sorprendente, supportato da ottimi shader e particellari. A fronte di quanto
detto sopra, la riproduzione grafica delle proprietà intellettuali Disney
rasenta in alcuni punti la perfezione, rispettando sempre lo stile artistico
iniziale e riproponendolo con cura all’interno del mondo di gioco. Le
meraviglie a schermo vengono inoltre accompagnate da un sonoro come al solito
d’eccellenza, con un ottimo doppiaggio inglese degno di annoverare, oltre alle
voci storiche della saga, persino alcune delle voci originali delle pellicole
trasposte. Peccato invece per la colonna sonora, caratterizzata quasi
unicamente da bellissimi remix e riarrangiamenti delle celebri tracce dei
capitoli precedenti, lasciando dunque spazio ad un numero minimo di inediti,
tali da poter essere contati sulle dita di una singola mano. Alla luce di
quanto detto, tirando le somme, nonostante ci siano voluti ben 13 anni
d’attesa, Kingdom Hearts 3 è riuscito a mantenere le solide basi della serie
permettendo ai fan di “rivivere” quelle sensazioni ed emozioni
provate un decennio fa. Il titolo però non è un gioco per tutti e in alcuni
ambiti si poteva fare meglio. Il comparto narrativo, per i neofiti, ma anche
per chi ha saltato qualche gioco della saga, potrebbe essere un vero ostacolo.
Per capire sino in fondo tutte le dinamiche, i riferimenti, gli intrecci e le
relazioni tra i vari personaggi tirati in ballo nel corso dell’avventura,
l’Archivio della Memoria presente al menù d’inizio non è sufficiente ed è
quindi necessaria una conoscenza approfondita non solo dei due capitoli
principali ma anche degli altri episodi. Nonostante questo il videogame è
sicuramente un titolo che vale a pena di giocare in quanto rappresenta un vero
e proprio tripudio di divertimento. Siamo certi che le tante ore di gioco
passate assieme a Sora, Pippo e Paperino saranno spese davvero bene e una volta
portata a termine l’avventura avrete solo tanta voglia di continuare a
esplorare i mondi di gioco per trovare fino all’ultimo collezionabile.

GIUDIZIO GLOBALE:

Grafica: 8,5

Sonoro: 8

Gameplay: 8,5

Longevità: 8,5

VOTO FINALE: 8,5

Francesco Pellegrino Lise




Il poker, dal presente digitale alle sue origini incerte

Il poker rappresenta senza alcun dubbio uno dei giochi più amati dagli appassionati di gambling: non esiste nessun altro gioco di carte in grado di riscaldare gli animi al pari di questo e non è un caso che ancora oggi venga considerato come il numero uno tra i giochi d’azzardo. Lo dicono i dati del settore, soprattutto se si pensa al comparto del gioco online e al giro d’affari milionario mosso da questo passatempo. Eppure, prima di arrivare al digitale, il poker ne ha fatta di strada: le origini di questo gioco sono molto incerte, e questo non fa altro che aggiungere ulteriore fascino ad un passatempo che può diventare quasi magico. Ecco perché oggi ripercorreremo la storia del poker e le informazioni note, partendo però dalle ultime novità del digitale.

Il presente del poker è su Internet

Oggi il poker si gioca soprattutto online, per merito dei casinò telematici: siti web che hanno conquistato il cuore e le attenzioni degli appassionati del gioco d’azzardo, per via dei loro innegabili vantaggi. Su casinò online come Leovegas (https://www.leovegas.it/it-it/), infatti, è possibile iscriversi direttamente da casa, fare un deposito e iniziare a puntare al poker e a tanti altri giochi d’azzardo digitali comodamente seduti sul divano. Un processo, questo, che include certamente tanti altri must del settore come ad esempio il blackjack, le slot o la roulette. Di fatto, il presente del poker così come il suo futuro pare essere a tinte digitali: lo sostengono anche i dati raccolti dall’AGIMEG, secondo cui questo gioco nella sua versione online ha prodotto un giro d’affari di oltre 70 milioni di euro lo scorso anno – ma stiamo pur sempre parlando di un mercato che a livello mondiale ha raggiunto nel 2018 ricavi per circa 44 miliardi. Di conseguenza, le poker rooms digitali sanno come affascinare i propri avventori quasi quanto, se non forse più, di quelle classiche.

Il passato, la storia e le origini del poker

Ad oggi gli esperti concordano nel definire il poker un gioco di origine persiana: pare infatti che questo passatempo sia stato introdotto a New Orleans (che ai tempi era ancora colonia francese) dai marinai persiani. I francesi avrebbero dunque appreso questo gioco, per poi portarlo in patria e modellarlo a proprio piacimento: la parola “poker” deriverebbe infatti proprio da “poque”, che in francese significa “inganno”. C’è anche chi sostiene tuttavia che l’antenato del poker sia un gioco di matrice tedesca e che quindi il termine derivi dal tedesco “pochen”.

Il poker è nato in Italia?

Anche l’Italia si inserisce in questo gioco delle paternità, perché esistono dei documenti comprovanti l’esistenza molto antica di un gioco simile al poker: lo zarro milanese. Si tratta di un gioco che venne proibito da Francesco Sforza con un editto del 1531, ma che non gli impedì tuttavia di diffondersi ugualmente a macchia d’olio. Questo passatempo pare condividesse molti elementi con il poker, pur essendo diverso da quest’ultimo: un discorso che in realtà può essere applicato a tutti i presunti antenati del famoso gioco di carte.

Pur essendo impossibile risalire alla vera origine del poker, è comunque indubbio che il gioco probabilmente racchiuda in sé molti elementi ereditati dalle varie culture che lo hanno reso diverso da qualsiasi “antenato”. Se quindi da un lato le origini rimarranno sempre un mistero, dall’altro oggi abbiamo una solida certezza: il futuro sarà digitale.




Resident Evil 2, il remake di Capcom è un capolavoro

Il remake di
Resident Evil 2 è finalmente realtà. Capcom l’ha fatto davvero e ha superato di
gran lunga le aspettative dei fan lanciando, su pc, Xbox One e Ps4, un titolo
completamente rivisitato, ma che mantiene il pieno rispetto di tutto ciò che
c’era di buono nel gioco originale. Quindi non un prodotto con solo una veste
grafica del tutto nuova, ma un remake con una visuale di gioco più moderna,
enigmi migliorati, senza nessun tempo di caricamento ogni volta che si apre una
porta e con una trama più approfondita. Se a questo si aggiungono nuovi
filmati, nuove aree di gioco e un gameplay assolutamente sensazionale, viene da
sé che Resident Evil 2 in versione 2019 rende onore al prodotto originale,
regalando le stesse emozioni che si provavano 21 anni fa. Il più grande merito
dell’opera di Capcom risiede nel fatto che con la sua uscita, non solo chi ha
avuto la fortuna di giocare all’originale potrà rivivere le stesse emozioni di
un tempo, ma la nuova generazione di gamers potrà apprezzare quello che è stato
il trampolino di lancio a livello di trama per i capitoli successivi della
serie. E lo potrà fare giocando a un titolo moderno, fluido ed estremamente al
passo con i tempi. Dopo questa breve, ma doverosa introduzione passiamo
all’analisi di Resident Evil 2. Sono passati appena due mesi dall’incidente di
Villa Spencer, dal primissimo scontro col l’orrore biologico scatenato dalla
follia dell’Umbrella Corporation. Una volta avviato il gioco bastano appena 10
minuti, il tempo di assistere al primo incontro tra Leon S. Kennedy e Claire
Redfield, per cogliere i tratti della dichiarazione d’intenti di Capcom per
questo capitolo. Nella tetra penombra di una stazione di servizio appena fuori
i confini di Raccoon City, lo sviluppatore comincia sin da subito a calcare i
tratti della sua promessa: quella di dare una nuova vita a incubi vecchi di
vent’anni. Prima che un’autocisterna fuori controllo arrivi a separare Leon e
Claire, segnando l’inizio della loro discesa verso le profondità della città in
rovina, una sequenza introduttiva giocabile mette subito in chiaro quale sia
l’obiettivo di Capcom per il suo remake e, cosa apprezzabile solo da chi ha
giocato l’originale, mette in mostra le prime fantastiche differenze rispetto
al passato. Se gran parte degli eventi raccontati in Resident Evil 2 seguono la
sceneggiatura originale del gioco, le nuove esigenze narrative dell’utenza
hanno offerto alla software house una preziosa opportunità per reinterpretare,
con grande rispetto e cura, alcuni dei momenti chiave della trama. Una
revisione che si traduce in una messa in scena d’effetto, composta di cutscene
che strizzano l’occhio alla cinematografia di genere e traggono forza da una
fotografia a dir poco sensazionale volutamente cruda e avvolgente. La regia
virtuale ammalia i sensi del giocatore alternando momenti di grande dinamismo e
rimandi alle inquadrature fisse tipiche della serie, assecondando le necessità
di un copione che punta chiaramente a ridefinire i tratti dei suoi
protagonisti, con una caratterizzazione più approfondita e meno
macchiettistica. L’obiettivo, a nostro avviso centrato in pieno, è quello di
costruire un racconto più intenso e credibile. Muovere i primi passi dopo aver
varcato le soglie della stazione di polizia fa correre un brivido gelido lungo
la schiena, un brivido fatto di ricordi e sensazioni già conosciute, emozioni
che hanno fatto da sottofondo a un’avventura che ha segnato le vite dei
giocatori più attempati. La scelta di non riproporre pedissequamente i tragitti
già percorsi, senza però abbandonare i ritmi e le caratteristiche del DNA
ludico della serie, è a nostro avviso un espediente davvero ben realizzato.
Chiunque vorrà arrivare alla fine vivo e scoprire gli orrori che hanno portato
all’apocalisse di Raccoon City, proprio come accadeva 21 anni fa.

https://youtu.be/aYeYbqmaff4

Resident Evil 2 è
ancora un survival horror in terza persona “puro” che non sfocia mai
nell’action frenetico a discapito del ragionamento e della risoluzione degli
enigmi. Enigmi che trovano in questo remake una contestualizzazione ben più
verosimile di quella di un tempo, dimenticando statue da ricollocare e
lampadine da accendere secondo un ordine preciso. Tale approccio, nell’economia
generale di gioco, dà vita a due grandi vantaggi: da una parte impedisce che
gli esperti del capitolo originale subiscano il logoramento di un costante
“déjà vu”, e dall’altra rende più intuitiva la risoluzione dei
rompicapo, senza per questo banalizzarli. Quest’ultimo aspetto, tra l’altro,
influisce positivamente sul ritmo dell’avanzamento, limitando al minimo i tempi
morti generati dalla sensazione di smarrimento che si ha quando non si sa come
proseguire. Un’accelerazione a cui contribuisce anche, come già detto
all’inizio, la totale assenza di sequenze di caricamento tra una stanza e
l’altra con porte scricchiolanti che si aprono a interrompere il flusso
dell’azione. Nel complesso insomma, tutte le operazioni di “restauro”
del gameplay volute da Capcom sono state pensate per supportare al meglio la
“qualità della vita” dei giocatori e svecchiare le meccaniche che
avrebbero appesantito la giocabilità e annoiato i gamers odierni. Ottimo ad
esempio l’idea di inserire le zone della mappa che cambiano colore una volta
raccolti tutti gli oggetti nell’area (dinamica presente già nel Rebirth del
primo capitolo), o la spunta rossa che appare quando una chiave ha esaurito la
sua utilità e può essere tranquillamente scartata dall’inventario. Queste sono
modifiche che, all’atto pratico, non danneggiano in alcun modo le sfumature
hardcore dell’esperienza, ma si limitano a migliorarne la fruibilità generale
affiancandola agli standard dell’industria contemporanea. Così facendo l’anima
di Resident Evil 2 che mette gli utenti in bilico tra la necessità di
risparmiare risorse preziose e la snervante ostilità del mondo di gioco è
completamente intatta e la tensione resta viva proprio come 21 anni fa. In
questo nuovo remake del classico del 1998 grande attenzione è stata data al
comparto sonoro, la quasi totale assenza di accompagnamento musicale, eccezion
fatta per specifici momenti e sequenze, massimizza gli effetti ansiogeni di una
sinfonia di sinistri scricchiolii e versi gutturali, interrotta di tanto in
tanto per fare spazio al forsennato calpestio di un abominio in avvicinamento.
Non solo in Resident Evil 2 il suono è un’inesauribile fonte di sgomento, ma
gli sviluppatori sono riusciti a integrarlo con astuzia in ogni aspetto del
gameplay. Esempio culminante sono i Licker, i quali non attaccano il
protagonista se questo si muove tanto lentamente da non emettere alcun rumore
percepibile, aprendo la strada ad approcci più stealth. Ma la brillante
crudeltà del sound design fa sì che i loro versi disarticolati si facciano
improvvisamente più intensi quando il personaggio si trova nelle loro immediate
vicinanze, con l’intenzione di spingere il giocatore a calcare bruscamente il
pollice dando il via a uno scatto rivelatore. Tremendo è anche l’incedere del
possente Tyrant T-103, i cui passi si fanno ben presto una compagnia costante,
che anticipa l’arrivo di un pericolo dall’immonda crudeltà. In questo senso,
l’audio binaurale si conferma una delle armi più efficaci in mano agli uomini
di Capcom, che sono riusciti a modellare un vero e proprio inferno fatto di
atmosfere che, per la gran parte dell’avventura, lasciano con il fiato sospeso,
la bocca aperta e gli occhi sgranati. Squisito poi il doppiaggio tutto in
lingua italiana che rende l’avventura ancora più immersiva e di facile
comprensione anche per chi non conosce l’inglese.

https://youtu.be/aYeYbqmaff4

A livello di
gameplay, poi, l’ottimo sistema di shooting messo in piedi per questo remake di
Resident Evil 2 non ammette errori. La precisione delle armi, modificabili
scovando kit nascosti, è fortemente influenzata sia dal tempo speso per
inquadrare il bersaglio, sia dalla lentezza dei movimenti della levetta, e
capita spesso che una pressione istintiva si traduca in un colpo a vuoto.
Essendoci una quantità limitata di munizioni, ed essendo necessario un buon
numero di proiettili per abbattere i non morti e gli altri abomini, lo spreco
di colpi risulta essere un “danno” grave. Inutile sottolineare che, in linea
con quanto accadeva nel lontano 1998, quasi tutti i nemici hanno poi la
spiacevole tendenza a rialzarsi nel caso in cui i colpi sparati non siano
precisi in testa. Tale comportamento porta quindi a dover approfittare dei
movimenti lenti degli zombi per poter fuggire senza dover utilizzare un numero
maggiore di munizioni. Inutile dire che trovarsi dinanzi a un boss sguarnito di
colpi si traduce in morte certa. Sempre parlando di boss fight possiamo dire
che queste si attestano generalmente su buoni livelli e rappresentano un netto
passo avanti rispetto alle controparti viste nel 1998. Un complimento che si
può estendere senza fatica anche a un level design ispirato e leggibile, che
rispecchia pienamente le ambizioni di Capcom per la produzione. Questo nuovo
Resident Evil 2 infatti non solo porta su schermo una rivisitazione
interessante della capitale dell’impero Umbrella, ma lo fa assemblando un
complesso di ambientazioni di grande impatto scenico, senza mostrare mai
tentennamenti sui fronti della navigabilità e della caratterizzazione. La nuova
avventura di Capcom garantisce poi al pubblico un corposo quantitativo di
dettagli inediti, allargando l’abbraccio della narrazione per dare maggiore
consistenza ad eventi e personaggi, come il capo della polizia Irons e la
straziante vicenda del proprietario del negozio di armi. Apprezzabile anche il
modo in cui il team di sviluppo ha sintetizzato e ridefinito le sequenze di Ada
e Sherry, ora dotate di un’identità più riconoscibile. Ognuna delle due
sezioni, infatti, si apre a interessanti variazioni sul tema della
sopravvivenza horror, focalizzandosi ora sulla risoluzione degli enigmi, ora
sullo stealth puro. Quella di Sherry porta poi nell’unica location totalmente
nuova del titolo: un inquietante orfanotrofio sulla cui storia non vogliamo
rivelare nulla. Questo spettrale ricettacolo di sogni infranti ci offre un
eccellente palcoscenico per svelare che, sì, esistono effettivamente due
scenari per ciascun protagonista. E’ bene sottolineare che a differenza
dell’originale, il remake di Resident Evil 2 non contempla nessuna interazione
dinamica tra le campagne di Leon e Claire (Claire 1 e Leon 1, Claire 2 e Leon
2). Optando per un prima run in compagnia dell’audace studentessa, ad esempio,
ci si troverà a seguire un percorso che, in particolar modo all’inizio e sulle
battute conclusive, mette in scena qualche piccola ma significativa differenza
rispetto alla medesima campagna giocata in seconda battuta. Va sottolineato
che, a prescindere da quale avventura si decida di giocare e dall’ordine
scelto, le sfide proposte dal gameplay nelle diverse location saranno sempre
fondamentalmente le stesse. Questo nodo chiave, unito alla necessità di
affrontare almeno uno “scenario 2”, sbloccato dopo il primo
completamento, per accedere al vero finale, fa sì che il secondo playthrough
perda una fetta notevole della sua potenza. Come di consueto, l’arrivo dei
titoli di coda coincide con l’attribuzione di un rango, che va da E a S, alle
imprese degli utenti, che determina lo sblocco di ricompense speciali. E se
questo non bastasse a convincervi del fatto che il Resident Evil 2 ha tutto il
potenziale per essere un gioco che garantisce una longevità di alto livello,
sappiate che l’offerta ludica comprende anche diverse modalità extra, tra cui
l’iconica “The 4th Survivor”.

Si tratta, come
intuibile, di una modalità sopravvivenza che spinge i giocatori a ripercorrere
tutte le principali tappe della campagna nei panni di Hunk, un agente speciale
dell’Umbrella, con risorse limitatissime da centellinare con letale efficienza
contro una quantità semplicemente fenomenale di nemici. Ecco, se già il livello
di difficoltà standard della campagna riesce a offrire un buon grado di sfida,
e quello estremo lo raddoppia senza sforzo, sappiate che si tratta di solo di
un piccolo assaggio rispetto alle prove che si celano nel menù degli extra. E’
bene sottolineare poi che al contenuto preesistente del titolo si aggiungono
sfide extra e collezionabili da individuare e distruggere, che sbloccheranno
dei contenuti bonus nella galleria di bozzetti e modelli 3D, oltre ad alcuni
costumi per i protagonisti. Menzione d’onore, poi, va fatta per la stabilità
del software, che in tutta la durata del nostro testing non ha mai subito un
crash o manifestato glitch, il tutto senza ingombranti patch day-one e con meno
di 25 GB di spazio occupato su disco. Prima di descrivere l’aspetto estetico
del titolo è bene sottolineare la particolare importanza che hanno assunto le
armi secondarie. Bombe a mano, coltelli da battaglia o flashbang non solo
potranno essere utilizzate in qualsiasi momento, ma in caso d’incontro troppo
ravvicinato con un nemico, si potrà utilizzare l’arma in possesso per creare
un’immediata via di fuga, seguendo semplicemente l’indicazione a schermo. La
gestione del menù del giocatore, altro marchio di fabbrica della saga, è stato
poi leggermente rivisto e velocizzato. Gli oggetti curativi, per esempio, non
potranno essere raccolti e consumati quasi in contemporanea, ma dovranno prima
passare dal menu dove saranno prima depositati, quindi selezionati e usati. Un
buon compromesso tra passato e presente insomma. Sono cambiati, invece, i
puzzle ambientali, snelliti nella formula, ma non nella sostanza, tra
specifiche chiavi da trovare, scaffali da spostare e combinazioni da dedurre. Il
tutto nel rispetto di un rinnovato approccio che tende a voler dare maggiore
dinamicità all’azione di gioco. A livello grafico gli ambienti di gioco
proposti nel nuovo Resident Evil 2, sono stati ovviamente ripresi da quanto già
visto nell’episodio originale, anche se le tecniche moderne riescono a dare al
tutto l’aspetto di un inedito deja vu. In generale tutti gli ambienti sono
stati arricchiti in termini di dettagli e dovranno essere esplorati a fondo per
riuscire a scovare tutti quegli elementi disseminati, utili non solo per la
soluzione dei puzzle, ma anche per riuscire a rimanere vivi. Esteticamente il
gioco ha conosciuto anche un impressionante update poligonale, che lo rende
estremamente realistico in tutte le sue componenti, anche se non mancano alcune
texture non esattamente in linea con la generale pulizia dell’immagine, ma in
generale la grafica di questo remake rappresenta un sicuro step evolutivo per
l’intera saga. Ottimo anche il bilanciamento dei colori e l’utilizzo dei
contrasti di luci e ombre. Il frame rate poi, almeno su Xbox One X Ps4 Pro e
Pc, resta sempre inchiodato sui 60 fps, anche nei momenti più concitati, quindi
anche da questo punto di vista il titolo di Capcom rappresenta una vera gioia.
Tirando le somme, possiamo senza dubbio asserire che quello che la versione
2019 di Resident Evil 2 davvero non riesce a fare è deludere. Anche i
tradizionalisti più incrollabili non potranno che sostenere che il progetto si
fonda su un’impressionante cura e competenza da parte di Capcom. Il rispetto
verso l’opera originale si sposa degnamente con le novità inserite dando al
prodotto vitale una spinta incredibile. A nostro avviso il titolo rappresenta
al momento la migliore incarnazione di quello che un remake dovrebbe essere.
Lasciarsi scappare un titolo di questa portata sarebbe veramente un grosso
errore. Credeteci, sia che lo abbiate giocato nel lontano 1998, sia che non
abbiate idea di cosa sia, Resident Evil 2 merita a tutti gli effetti di essere
giocato.

GIUDIZIO GLOBALE:

Grafica: 9,5

Sonoro: 9,5

Gameplay: 9,5

Longevità: 9

VOTO FINALE: 9,5

Francesco Pellegrino Lise