Prima foto di un buco nero. Einstein lo aveva predetto

Per la prima volta è stato fotografato un buco nero. Dopo che nel 2016 le onde gravitazionali hanno dimostrato l’esistenza di questi misteriosi oggetti cosmici, arriva la prima prova diretta e l’immagine che lo testimonia è quella del buco nero M 87, al centro della galassia Virgo A (o M87), distante circa 55 milioni di anni luce. Al risultato, del progetto internazionale Event Horizon Telescope (Eht), l’Italia ha partecipato con Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) e Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn).

E’ stato rivelato dalla sua ombra, che appare come una sorta di anello rossastro, il buco nero al centro della galassia M87 con la massa di sei miliardi e mezzo quella del nostro Sole. “Quella che abbiamo visto è l’ombra di un buco nero”, ha detto all’ANSA Luciano Rezzolla, direttore dell’Istituto di Fisica Teorica di Francoforte e membro del comitato scientifico della collaborazione Eht (Event Horizon Telescope).

“Nei buchi neri supermassicci che si trovano al centro delle galassie, la materia che viene attratta si riscalda e, cadendo nel buco nero, emette luce, parte della quale è osservabile con i radiotelescopi. In queste condizioni fisiche, infatti, è possibile rivelare la cosiddetta zona ‘in ombra’, ossia quella regione di ‘assenza di luce’ e che è tale in quanto la luce al suo interno viene assorbita dall’orizzonte degli eventi”, ha aggiunto riferendosi al confine che separa un buco nero dallo spazio che lo circonda. Questo è un confine matematico dove la forza di gravità è così forte che nulla riesce a sfuggire, nemmeno la luce.

“Con i telescopi di Eht abbiamo finalmente raggiunto una risoluzione sufficiente per guardare su una scala dell’orizzonte degli eventi”, ha aggiunto. “Dall’interno di questa superficie – ha spiegato Rezzolla – nessuna informazione può essere scambiata con l’esterno. Per questo motivo i buchi neri sono importanti in fisica: il loro orizzonte degli eventi è infatti un limite invalicabile alla nostra capacità di esplorare l’universo”. Dal momento che l’orizzonte degli eventi assorbe tutta la luce, ha proseguito, “per definizione un orizzonte degli eventi non può essere visto direttamente. Tuttavia è possibile predire teoricamente come apparirebbe la regione di plasma che gli è molto prossima. Questo è quello che abbiamo fatto e l’ottimo raccordo tra teoria e osservazioni ci ha convinto che questo è un buco nero come predetto da Einstein”.




The Division 2, la rinascita parte da Washington D.C.

A distanza di tre
anni dall’uscita di The Division, Ubisoft e Massive Entertainment hanno
lanciato di recente sul mercato The Division 2, sequel del titolo originale per
Pc, Xbox One e PS4.  L’avventura,
ambientata sempre nel presente alternativo ideato da Tom Clancy, lascia le
strade infette e innevate di New York per una versione primaverile e
apparentemente meno “contagiosa” della capitale Washington D.C. A livello di
trama il titolo possiede una solida base su cui poggiare e si sviluppa in
maniera interessante. Sono passati 7 mesi da quando il “Veleno Verde”, così
viene chiamato il virus creato dal Dr. Gordon Amherest, è stato diffuso
approfittando dell’euforia del Black Friday per causare un’epidemia capace di
mettere rapidamente in ginocchio non solo la città di New York, vero e proprio
focolaio della malattia, ma gli Usa nella loro interezza.

Dopo essersi
prodigata per aiutare la JFT nelle operazioni di soccorso, aver contrastato la
dilagante ondata di criminalità che ha inevitabilmente invaso le strade
innevate di New York e aver scoperto i motivi che hanno spinto il Dr. Amherest
a diffondere l’agente patogeno, La Divisione, il reparto speciale composto da
agenti dormienti della Strategic Homeland Security “risvegliati” dal Presidente
attraverso la Direttiva 51, riceve una richiesta di aiuto proveniente da
Washington D.C. In The Division 2 la capitale degli Stati Uniti, identificata
da tutti come uno dei punti fermi della rinascita del Paese, è infatti tenuta
in scacco da bande criminali più o meno organizzate che, analogamente a quanto
accaduto a New York, stanno approfittando della situazione disperata per
tentare di prendere il controllo della città. In questo scenario entra in gioco
il protagonista del titolo. Quali agenti della Divisione si viene infatti
inviati a Washington D.C. dopo una breve sequenza iniziale, che funge da
tutorial di base e che fa da transizione tra le due ambientazioni. Una volta
arrivati nella capitale statunitense, il giocatore viene immediatamente
coinvolto nelle operazioni di difesa e ri-conquista gestite dalla Divisione,
che nel corso delle oltre 30 ore necessarie per completare la trama lo vedranno
impegnato a liberare i vari quartieri della città e a riattivare
progressivamente la rete di comunicazione SHADE in un classico mix di missioni
principali e secondarie che vengono rivelate passo dopo passo al giocatore
dalla base operativa, allestita per l’occasione all’interno della Casa Bianca.
The Division 2, come già largamente preannunciato da Ubisoft stessa, non
rappresenta una rivoluzione, ma una versione più matura e rifinita del sistema
di gioco originale, titolo capace comunque di raccogliere consensi nonostante
alcuni inevitabili difetti che hanno causato il disappunto dei giocatori. Con
questa nuova produzione la software house francese conserva lo stesso sistema
del predecessore, con la sostanziale differenza però che promette un
grandissimo numero di contenuti in più. Fortunatamente sembra che la lezione
del titolo originale sia stata recepita dagli sviluppatori, infatti,
raggiungendo il level cap a 30 e proseguendo ben oltre al semplice debellare la
minaccia e rimettere il Presidente al posto che gli compete le cose da fare
sono veramente molte. Ma andiamo con ordine. Parlando di gameplay, The Division
2 ha inizio con un editor del personaggio. A questo punto dopo un brevissimo
prologo si viene catapultati nella dura realtà di Washington D.C. I primi passi
nella capitale statunitense fanno capire subito che si ha a che fare con una
location ben differente dalla New York gelata dall’inverno e dalla desolazione,
depredata del suo splendore dalle gang criminali e distrutta dal virus che l’ha
messa in ginocchio. I paesaggi assolati, più vivi e meno claustrofobici, però
sono solo l’anticamera di un’altra città in rovina sulle cui strade si combatte
ancora la battaglia tra la vita e la morte. I sopravvissuti stanno tentando di
instaurare un nuovo ordine ma le gang sono ancora un ostacolo. In questo
scenario gli agenti della Divisione avranno ancora una volta il compito di
combattere i nemici della pace per ribaltare la situazione e cercare di creare
un nuovo mondo. Insomma, in The Division 2 cambia il periodo, il clima, gli
equilibri, eppure gli elementi che hanno contraddistinto e posto le basi per il
gameplay del gioco originale sono tutti lì, immediatamente riconoscibili. In
questo sequel la Casa Bianca funge da quartier generale delle operazioni della
divisione, ed è quindi un luogo dove tornare a raccogliere i frutti degli
sforzi in missione, acquisendo nuove abilità e potenziando il proprio arsenale.
Inoltre, da qui si diramano tutte le altre operazioni per la riconquista della
capitale.

Come nel suo
predecessore, anche in The Division 2 l’esplorazione è sempre libera e lascia
la scelta di decidere se perderci tra le strade alla ricerca di risorse utili,
o farsi guidare dal navigatore verso la prossima destinazione. Ingaggiare il
nemico sottraendogli man mano terreno prezioso e roccaforti, sarà invece utile
per far avanzare gli alleati e sfruttare il territorio per mutarlo in un
checkpoint prezioso da cui ripartire grazie allo spostamento rapido. Tali
avamposti ora si sommano ai rifugi, ricordando da vicino quelli presenti nella
serie di Far Cry. Sempre parlando di assonanze con il passato, anche in questo
nuovo capitolo della saga torna anche l’interfaccia che simula la realtà
aumentata a disposizione degli Agenti. Tramite effetti minimali e ben definiti,
questa funzione segnala tutti i dettagli di cui è necessario essere a
conoscenza: dagli spostamenti possibili grazie alla copertura in movimento,
fino agli indicatori di energia e ricarica nostra e dei nemici, passando per
tutta una serie di minuzie utili a immedesimarsi in un soldato dalle capacità
tecnologiche avanzate. Per chi ha già giocato al titolo originale, affrontare
The Division 2 avrà un sapore molto familiare. A livello grafico lo SnowDrop
Engine fa un lavoro squisito: Washington D.C. non genererà lo stesso incanto di
una New York in balia delle tempeste di neve nel periodo natalizio, ma la mole
di detriti dispersa per le strade unita a scenari urbani devastati, risulta
inquietantemente credibile, da lasciare ancora una volta a bocca aperta.
Sicuramente Ubisoft da questo punto di vista merita un grande plauso:
nonostante i capolavori usciti in questi tre anni nel panorama videoludico,
quello di The Division è uno dei setting più curati nella storia dei
videogiochi se comparati alla vastità della mappa. La cura maniacale per il
dettaglio, la ricerca della perfezione in ogni strada, palazzo o sotterraneo
raggiunge il suo apice nelle missioni principali, quando ci si trova a dover
esplorare edifici complessi nell’architettura, che raccontano tramite una
quantità spropositata di oggetti i loro scopi passati. La sensazione di
desolazione e smarrimento che si prova in questa versione di Washington D.C. è
veramente stupefacente e anche solo passeggiare nelle strade della capitale
americana provoca un brivido lungo la schiena. La città però non è solo quello
che si vede passeggiando fra i palazzi, infatti le strade celano anche
laboratori sotterranei, uffici governativi, locali commerciali e tanto altro.
Il nostro consiglio? Usare meno possibile il viaggio rapido e godersi le
bellezze offerte da The Division 2. L’esplorazione libera poi, oltre che essere
un ottimo metodo per trovare risorse e far esperienza, è anche un’ottima
tattica per poter scoprire segreti e trovare collezionabili che approfondiscono
la fase più critica dell’epidemia. Ovviamente il gioco non è perfetto, infatti
è presente qualche sporadica sbavatura come qualche glitch o alcune texture che
si caricano in ritardo, ma difronte alla maestosità dell’ambiente queste
piccolezze sono nulla. Il difetto peggiore dell’ultima produzione Ubisoft però
è la poca caratterizzazione dei personaggi i quali non riescono a raccontare
con efficacia tutto ciò che hanno passato nei mesi dell’epidemia. Anche il
protagonista soffre di questo difetto e purtroppo risulta essere un semplice
spettatore muto degli eventi che coinvolgono i sopravvissuti alla piaga. Mai
una parola, mai un’emozione, mai una reazione. Il proprio alter ego virtuale è
freddo, impassibile e insensibile. Quest’aspetto purtroppo, a nostro avviso, è
il difetto peggiore per un titolo del genere. Parlando di altro, come già visto
a New York, ogni tanto è possibile trovare in giro i così detti dispositivi
ECHO che, tramite la realtà aumentata, ricostruiscono scene chiave avvenute nel
passato, aiutando chi gioca a capire cosa ha portato al collasso la città.
Purtroppo questi espedienti non riescono a generare il climax necessario a
emozionare chi sta con il pad in mano e il doppiaggio in Italiano, seppur completo,
risulta alle volte in un’interpretazione priva di mordente. Insomma, dinanzi a
una catastrofe di questo genere come minimo ci si aspetta un pathos maggiore.

Durante il
peregrinare del protagonista si verrà spesso a contatto con informazioni su
personaggi e retroscena che arrivano a coinvolgere il governo americano, il
presidente e il suo personale, ma, come già evidenziato, l’assenza di una
caratterizzazione precisa e profonda dei personaggi in questione si dimostra un
neo non di poco conto. Fortunatamente la musica cambia nelle sessioni di gioco
dove bisogna combattere, infatti, nonostante il game loop è uguale a quello
visto in passato: si dal rifugio che si preferisce, si affronta la missione
fino a raggiungere il nemico più corazzato, si aumenta il livello, si
acquisisce nuovo equipaggiamento e si va vanti così, il combat system è davvero
ben fatto. Le missioni sono lunghe e impegnative, con l’IA che seppur
prevedibile in molti casi, mette a dura prova il giocatore cercando di
aggirarlo e circondarlo il più possibile, facendo uso anche di tecnologia
avanzata e dell’ambiente circostante. La strategia in battaglia, con le
maggiori variabili introdotte da nuovi strumenti e tipologie di nemici,
acquista un minimo di profondità in più, che finalmente varia l’azione per non
renderla troppo ripetitiva ed estenuante. In The Division 2 il senso di
progressione è dato dal ritrovamento e dal crafting dell’arsenale più potente,
al pari del primo capitolo, riducendo il comparto narrativo a mera preparazione
a quello che bisognerà affrontare una volta raggiunto il level cap. Ossia il
coop online e quindi la Dark Zone, che comporterà a sua volta l’inevitabile
grinding alla ricerca dell’equipaggiamento più raro e potente. L’introduzione
dei Clan, le marche degli equipaggiamenti e la personalizzazione dei i droni,
contribuiscono ad aggiungere qualche novità in più. Nonostante questo, però, è
la struttura generale a non subire cambiamenti di sorta fino al raggiungimento
del level cap e dell’end-game. La mancanza di innovazione nella formula
generale fa storcere il naso, ma sarebbe etichettare The Division 2 come una
sorta di espansione sarebbe un errore. A livello di personalizzazione e
crescita del personaggio, man mano che sale di livello il proprio alter-ego
ottiene dei punti abilità, che possono essere spesi per sbloccare uno degli 8
strumenti tecnologici sviluppati per incrementare le capacità difensive degli
Agenti. Il catalogo delle dotazioni utilizzabili sul campo di battaglia dopo
averle assegnate a uno dei due tasti dorsali, che include torrette difensive,
scudi, droni, lanciatori chimici e altri simpatici accessori, non solo è molto
vario ma può anche essere personalizzato in modo puntuale dal giocatore
attraverso numerose varianti, offensive o difensive, che possono essere
sbloccate utilizzando le componenti di tecnologia SHADE ottenute come
ricompense per le missioni completate o raccolte durante l’esplorazione.
Salendo di livello il giocatore può inoltre equipaggiare armi e dotazioni più
performanti. The Division 2 include, proprio come il suo predecessore, 7
categorie di armi differenti e un nutrito elenco di accessori come fondine,
corazze, guanti e simili, ognuna delle quali è dotata di caratteristiche uniche
che dipendono non solo dal livello, ma anche dal grado di rarità delle stesse,
che viene identificato anche in questa occasione dal colore e che corrisponde
ad un numero crescente di bonus e malus passivi o attivabili, come nel caso
delle armi, solo completando specifiche sfide o soddisfacendo requisiti
precisi. Alcuni oggetti inoltre faranno parte dello stesso “brand”, il che
permette di sbloccare vantaggi aggiuntivi quando si indossano 2 o più elementi
della stessa famiglia. Alcune parti dell’equipaggiamento, così come gli
strumenti sbloccabili consumando punti Abilità, possiedono inoltre uno o più
slot dedicati ad accessori e mod tramite i quali si può cambiarne sia l’aspetto
estetico che le caratteristiche base. Le modifiche estetiche, così come i capi
di abbigliamento con i quali personalizzare l’aspetto del personaggio, possono
essere recuperate sul campo di battaglia o acquistate nello store dedicato
presente all’interno del gioco spendendo crediti Premium, ottenibili tramite
classiche microtransazioni, mentre gli accessori relativi all’equipaggiamento
non solo possono essere raccolti, ma possono anche essere craftati, così come
tutto il resto, consumando le risorse raccolte esplorando o smantellando gli
oggetti dei quali sentiamo di non avere più bisogno. Per farlo è però
necessario possedere o sbloccare il relativo progetto, il che permette di
parlare anche di un altro aspetto legato alla progressione all’interno di The
Division 2. Nel nuovo titolo di Massive Entertainment infatti non bisogna solo
far crescere il proprio personaggio, ma anche la base operativa e gli
insediamenti presenti in città ottenendo in cambio, in aggiunta ai classici
punti esperienza e alle ricompense pecuniarie, anche la fedeltà di alcuni NPC,
i quali torneranno alla Casa Bianca per occuparsi di specifiche attività come
il poligono di tiro, l’area fai da te o l’intelligence, e tanti utili progetti.
Per ottenere tutto ciò non basta però completare le numerose missioni
secondarie proposte nei rispettivi insediamenti, ma è necessario contribuire al
benessere e allo sviluppo degli stessi donando materiali ed equipaggiamenti o
completando particolari attività per le strade delle città. Parlando della progressione
è poi impossibile non spendere due parole sul sistema di gestione delle
sessioni cooperative, capace di ridurre il divario tra Agenti di livelli
diversi grazie ad un sistema di adattamento dinamico della difficoltà
affiancato da un sistema di “boost” che innalza il livello dei giocatori più
deboli per rendere più equilibrata l’intera esperienza. Il sistema permette
inoltre di scambiarsi le armi raccolte mentre si gioca in gruppo, così da
favorire una gestione meno limitata dal loot. Insomma, The Division 2 è un
gioco a cui bisognerà dedicare moltissimo tempo.

Per quanto riguarda
la componente multigiocatore che ha caratterizzato il titolo, anche in The
Division 2 fa ritorno la zona nera. Per chi non avesse giocato al primo, è bene
sottolineare che esse sono delle aree della mappa ancora contaminate dal Veleno
Verde nelle quali squadre di giocatori umani possono decidere di cooperare o di
darsi battaglia mentre tentano di sopravvivere ai nemici controllati dalla I.A.
e di recuperare equipaggiamenti speciali, che prima di poter essere utilizzati
devono però essere decontaminati. Per farlo è necessario raggiungere delle
specifiche aree della Zona Nera e richiedere l’intervento di un elicottero,
cercando nel frattempo di non farsi sottrarre il prezioso bottino da altri
giocatori. Uccidere gli altri agenti e rubare non sono però azioni da compiere
troppo alla leggera. I giocatori che decidono di “macchiarsi” di questi crimini
diventano infatti dei “traditori”, esponendosi così al rischio di affrontare
scontri in PvP, che a differenza di quanto accadeva in passato rimangono
disattivati fino a quando il giocatore non viene etichettato come tale. Lo
status di traditore si articola su tre livelli crescenti, ai quali
corrispondono ricompense e “via di uscita differenti”. Chi si dedica solo al
furto diventa un traditore “semplice”, il che non comporta altre conseguenze se
non quella di poter essere attaccati. Nel momento in cui si uccide un altro
agente si diventa però dei Rinnegati, con conseguente comparsa di una taglia
sulla propria testa, la cui entità e durata variano in modo proporzionale alle
azioni commesse. Per uscire da questo status, e ottenere le ricompense, bisogna
resistere fino a quando la taglia non scade, altrimenti sarà il nostro killer a
riscuoterle. Coloro che uccidono un discreto numero di Agenti diventano poi i
bersagli di vere e proprie “Cacce all’Uomo”, dalle quali è possibile uscire
solo raggiungendo uno dei terminali SHADE presenti nella zona, attraverso cui è
possibile ripulire la propria fedina o, perché no, incrementare ulteriormente la
propria reputazione per ottenere ancora più ricompense. Queste però non sono le
uniche differenze presenti col passato. Infatti in The Division 2 le zone nere
sono ben 3, ognuna delle quali propone ai giocatori un teatro di battaglia
differente presentato attraverso una missione specifica. Per evitare il
ripetersi delle situazioni poco gradevoli viste nel primo capitolo, gli
sviluppatori hanno inoltre deciso di normalizzare le statistiche legate agli
equipaggiamenti di chi si avventura nelle Zone Nere, così da porre l’accento
sulle capacità dei giocatori piuttosto che sulle loro dotazioni. Le Zone Nere
inoltre non rappresentano però l’unica componente PvP presente in The Division
2. Per venire incontro alle richieste della community, il nuovo capitolo
include anche una modalità di scontro tra giocatori più convenzionale
accessibile in qualunque momento dopo aver completato il prologo iniziale,
chiamata Conflitto. Qui al momento trovano spazio due tipologie di sfide
classiche, ovvero Schermaglia e Dominio. Anche in questo caso le statistiche
delle dotazioni vengono normalizzate prima di ogni incontro ed è presente una
progressione separata rispetto a quella del titolo principale, così come accade
nelle Zone Nere. Tirando le somme, con The Division 2 Ubisoft e Massive
Entertainment hanno fatto tesoro degli errori passati e dei feedback ricevuti
dai giocatori, creando un titolo che lascia davvero poco spazio alle critiche.
La quantità di contenuti, un end-game ricco di attività e un sistema di progressione
ben strutturato ed appagante rendono il secondo capitolo del franchise un
“must have” per tutti gli appassionati del genere. Uniche
controindicazioni? Lasciar perdere se si ha poco tempo ed evitare di giocare in
solitaria in quanto l’esperienza di gioco è ancora più appassionante se giocata
con altri 3 amici.

GIUDIZIO GLOBALE:

Grafica: 9,5

Sonoro: 8,5

Gameplay: 9

Longevità: 9

VOTO FINALE: 9

Francesco Pellegrino Lise




Galaxy A70, Samsung scommette sulla fascia media

Con il Galaxy A70 Samsung potenzia la scuderia dei suoi
smartphone di fascia media con un nuovo modello. L’azienda coreana ha infatti
svelato sul suo sito questo nuovo device che verrà lanciato sul mercato a
breve. Il dispositivo ha la peculiarità di possedere alcune caratteristiche
premium che faranno sicuramente gola ai più giovani e a chi non vuole spendere
una fortuna per un telefonino. La più evidente fra tutte è di sicuro lo schermo
molto ampio, un Infinity-U Amoled da 6,7 pollici senza cornici e con piccolo
notch a goccia. Di buon livello anche tutto l’hardware dedicato al comparto
fotografico. Nella parte posteriore si trova un sensore principale da ben 32
megapixel coadiuvato da un grandangolo da 8 megapixel e un sensore di
profondità (Tof) da 5 megapixel. Anche la fotocamera per i selfie è da 32
megapixel. Altra caratteristica che rende il dispositivo uno smartphone davvero
appetibile è la grande batteria, da 4.500 mAh, a ricarica veloce, per
“condividere, giocare e trasmettere tutto il giorno”, spiega
l’azienda. Il nuovo smartphone di casa Samsung può fare affidamento sul sistema
operativo Android 9, Ram da 6-8 GB e memoria interna da 128 GB espandibile.
Integra inoltre un lettore di impronte digitali nello schermo per
l’autenticazione, che avviene anche tramite riconoscimento facciale. I colori
disponibili al lancio sono quattro: nero, blu, bianco e corallo. Insomma, con
questo Galaxy A70 Samsung propone un device al passo con i tempi e con diverse
caratteristiche interessanti. I dettagli sul processore dello smartphone non
sono ancora noti, così come il prezzo e la data di uscita. Nuove informazioni
sono attese il 10 aprile, giorno in cui a Milano, Bangkok e San Paolo si terrà il
Galaxy Event 2019. Se siete interessati al Galaxy A70 e volete saperne di più
non vi resta altro che attendere ancora una manciata di giorni.

F. P. L.




Dead or Alive 6, si torna finalmente sul ring

Dopo 7 anni d’attesa
Dead or Alive, il picchiaduro famoso per le lottatrici dalle forme generose,
torna sulla scena con un sesto capitolo denso di scontri e con tanti personaggi
tutti da giocare su Pc, Xbox One e Ps4. Con Dead or Alive 6 Tecmo Koei e il Team
Ninja hanno deciso di rimettere il gameplay al centro di tutto anche alla luce
del fatto che il genere ha assunto una nuova dignità con l’avvento degli
eSports. Questo è il motivo per il quale, pur non volendo accantonare la
sensualità delle lottatrici, i programmatori hanno cercato di andare incontro
per quanto possibile alle esigenze dei giocatori più raffinati con una
giocabilità più profonda. Ma andiamo a esaminare il titolo più da vicino. Una
volta lanciato il gioco, il menù di Dead or Alive 6 propone di scegliere tra
Story Mode, Combattimento rapido (con le relative modalità Scontro, Arcade.
Sfida a tempo e Sopravvivenza), Missione DOA, Tutorial e Multiplayer. Il fulcro
e cuore del gioco in single player risiede nella modalità Storia che, comunque,
si caratterizza per i tratti folli e divertenti. Questa modalità si
caratterizza, inoltre, per l’elevato grado di personalizzazione dei lottatori,
riuscendo a superare notevolmente quanto di buono era stato fatto fino a DOA 5.
Oltre alla modalità Storia sono presenti le sfide che rappresentano in realtà
il tutorial di gioco. Queste ultime sono suddivise in 104 scenari differenti
che però hanno il grosso difetto di essere troppo semplici ma hanno il pregio
di fare apprezzare quasi tutto l’insieme dei vestiti collezionabili presenti in
game. La storia di Dead or Alive 6 segue una struttura ramificata un po’
confusionaria ma in grado di occupare i giocatori per un tempo che rientra
nella media dei picchiaduro. Insomma, La “campagna” si articola in un puzzle i
cui pezzi vanno a sbloccarsi progressivamente su una griglia in cui le varie
missioni sono separate in verticale per ordine cronologico e in orizzontale in
base ai personaggi coinvolti.

La trama presente in
questo nuovo capitolo del nuovo titolo targato Tecmo Koei riprende il discorso
da dove si era interrotto nel precedente capitolo. Ancora una volta la trama
vede contrapporsi la DOATEC “rinnovata” sotto la guida di Helena e la malvagia
organizzazione M.I.S.T. con, ovviamente, il torneo Dead or Alive a fare da
sfondo alle vicende. Sia dal modo in cui è strutturata la story-mode che dalla
presenza di parti del suddetto mosaico proposte esclusivamente in forma di
sequenze CGI, si evince la voglia dei ragazzi di Team Ninja di dare una
maggiore importanza alla componente narrativa. Il tutto riesce effettivamente
ad intrattenere con piacere ma non c’è da aspettarsi grande profondità in una
sceneggiatura che, nel complesso, si manifesta attraverso brevi e simpatici
sketch d’introduzione al combattimento. Per quanto riguarda le “Missioni DOA”.
Si tratta di una lista di 96 missioni in ognuna delle quali è richiesto al
giocatore di completare tre determinati obbiettivi rappresentati ciascuno da
una stella. In sostanza, potrà essere richiesto di realizzare una particolare
combo, infliggere un determinato danno, terminare l’incontro entro un tempo
limite e così via. Il premio per il completamento delle quest è una quota
variabile di Valuta In-Game, Parti dei Costumi e Titoli. A dir la verità, però,
la vera ricompensa risiede nel miglioramento dell’abilità del giocatore: anche
in questo caso, infatti, è proposto, di volta in volta, il tutorial specifico
per la realizzazione delle mosse richieste. Inoltre, in questa modalità l’IA
nemica è gestita in modo tale da incentivare l’utilizzo delle skill adatte alla
sfida. Le atre modalità di gioco presenti in Dead or Alive 6 sono quelle
presenti generalmente in tutti i picchiaduro, quindi: combattimento a scontro
singolo contro l’IA, allenamento e battaglie online. Oltre a quanto detto, va
sottolineate la presenza della, DOA CENTRAL, dove è possibile sbloccare
ulteriori costumi per i lottatori, consultare i collezionabili ottenuti,
riosservare i propri match (quelli salvati) o far da semplice spettatore a
nuovi incontri, con tanto di modalità fotografica. Detto ciò ci teniamo a
sottolineare che per quanto riguarda i combattimenti online, il net-code sembra
non soffrire di particolari problemi: nei match non si riscontrano fenomeni di
lag e quindi la fluidità in game è garantita. Per quanto riguarda la rosa dei
lottatori, in Dead or Alive 6 ne sono presenti 26 in tutto, con alcune new
entry degne di nota. Primo fra tutti c’è Diego, di origine nordamericana, che
fa della forza fisica il suo cavallo di battaglia poi c’è NiCO, una scienziata
che possiede una grande dimestichezza con la tecnologia e, soprattutto,
possiede un set di mosse davvero sensazionale. Questi due personaggi si
distaccano un po’ dal classico roster di DOA ma, alla fin fine, dimostrano di
avere un loro perché, soprattutto alla luce di stili di combattimento
estremamente peculiari e decisamente più moderni.

Per quanto riguarda
il combat system di questo Dead or Alive 6, possiamo dire che i controlli sono
semplicemente fantastici. I comandi tradizionali del gioco sono tornati in
azione, accompagnati da alcune nuove funzionalità per mantenere il giocatore
sempre coinvolto e attento a quel che succede sullo schermo. Prima di tutto, va
detto che le contromosse sono fluide come sempre, pur non essendo del tutto
fuori controllo come nei titoli precedenti della serie. Di per sé è un’ottima
cosa, che lascia margine per pianificare una strategia che ribalti una combo a
proprio favore. Inoltre, le prese sono ancora molto efficaci, poiché ci si può
affidare anche a quelle molto semplici per togliere un po’ di energia
all’avversario. Le combo sono poi ovviamente il piatto forte di tutto il
sistema di combattimento, grazie alla loro versatilità e unicità a seconda del
personaggio scelto, implacabili ma al tempo stesso controproducenti se non si
punta sulla loro varietà. Dead or Alive 6 propone tuttavia una nuova meccanica
che rende il gioco accessibile ai meno esperti e che, per i più irriducibili,
potrebbe diventare un vero stimolo per giocare di più. Si tratta di mosse
devastanti, legate all’indicatore di devastazione posto subito sotto la barra
della vita e attivabili tramite la pressione di un singolo tasto, il dorsale
destro per la precisione. Il bello però risiede nel fatto che se ne possono
concatenare ben 4 di queste mosse, a patto di essere abbastanza veloci,
attivando il così detto assalto fatale. Una volta che la combo è in atto,
difficilmente potrà essere contrastata: nel momento in cui, poi, si scatena il
cosiddetto Colpo Devastante non c’è escamotage che tenga. Si tratta di un
grosso vantaggio in partita, capace di ribaltarne le sorti, ma anche di un’arma
a doppio taglio se utilizzata nel momento meno opportuno. Parlando del lato
estetico, come nelle precedenti edizioni, anche in Dead or Alive 6 è possibile
gestire manualmente la telecamera e le battaglie scorrono via con pochi
fronzoli ma con animazioni dei lottatori ben fatte. Per quanto riguarda
l’aspetto puramente tecnico in relazione a quello grafico, il titolo non fa
gridare al miracolo per quanto riguarda i lottatori, ma risulta comunque
all’altezza della concorrenza. Rispetto al passato, poi, sono presenti alcune
migliorie grafiche di secondo piano come ad esempio: danni ai vestiti, rottura
di occhiali o dei lacci per i capelli, che rendono l’esperienza di gioco molto
gradevole. Il design dei personaggi non è invece stato modificato più di tanto
e i costumi succinti delle lottatrici rimangono un must con oltre 60 tipologie
di modelli diversi. Fortunatamente tutti i personaggi vantano una buona
espressività individuale che li rende unici nel panorama di Dead or Alive 6. A
quanto detto fino a ora vanno aggiunte alcune chicche grafiche come la presenza
del sudore sulla pelle, la polvere che si alza in alcuni stage di gioco, il
fuoco che divampa in altri e, soprattutto, i repentini ed azzeccati cambi di
inquadratura quando, ad esempio, un lottatore viene gettato da una roccia verso
un dirupo e afferrato da qualche creatura. In merito al sonoro, i brani della
soundtrack sono piuttosto vari e sostanzialmente funzionali all’azione di
gioco. Presenti i sottotitoli in italiano, mentre per il parlato è preferibile
utilizzare la lingua giapponese al posto di quella inglese, troppo prolissa e
piuttosto buffa da sentire. Tirando le somme, questo Dead or Alive 6 è
l’ennesima conferma di quanto il gameplay di questa serie riesca a essere
incredibilmente divertente e appagante nonostante la spietata concorrenza dei
titoli di questo genere. Quando si entra nel loop delle partite classificate
online, o quando si gioca in locale è davvero difficile staccarsi dal gioco.
Tuttavia, le novità aggiunte a quest’episodio non sono particolarmente
sconvolgenti e non riescono ad alzare l’asticella rispetto al già ottimo Dead
or Alive 5. Dopo tutti questi anni di attesa i fan della saga si aspettavano
sicuramente qualcosina in più. Anche dal punto di vista grafico il salto
rispetto al passato non è così sconvolgente. Per chi gioca per la prima volta a
un titolo della serie, per quanto riguarda l’aspetto estetico, non ci sarà
nulla da ridire, ma per i veterani della saga sicuramente, almeno da principio,
ci sarà un piccolo senso di delusione. In ogni caso, il gioco di Tecmo Koei è
un degno esponente del genere e riuscirà a tenere incollati gli appassionati
per molte e molte ore. Se si è fan dei picchiaduro Dead or Alive 6 non deve
sfuggirvi.

GIUDIZIO GLOBALE:

Grafica 7,5

Sonoro: 8

Gameplay: 8

Longevità: 8,5

VOTO FINALE: 8

Francesco Pellegrino Lise




Navigazione interstellare: grandi speranze dalle onde gravitazionali di Einstein

Grandi speranze dalle Onde Gravitazionali di Einstein per svelare il lato oscuro dell’Universo nella finissima tessitura dello spaziotempo.

Pubblicato il catalogo degli 11 eventi confermati presenti nei dati dei primi due esperimenti degli Osservatori Ligo e Virgo per Onde Gravitazionali

Ai 7 eventi di fusione già noti se ne aggiungono altri 4, per un totale di 11 detonazioni OGE. Dei quattro nuovi, uno è stato registrato anche dal Telescopio Virgo, l’interferometro italiano costruito nella campagna toscana di Pisa. Ora si fa sul serio.

D’ora in poi, dal 1° Aprile dell’Anno Domini 2019, Ligo e Virgo lavoreranno d’amore e d’accordo.

Le osservazioni più dettagliate del materiale in orbita vicino al Buco Nero centrale della Via Lattea, giungono dal sensore Gravity dell’Osservatorio Australe Europeo. Le Onde Gravitazionali di Einstein rivelano i segreti cosmologici fondamentali per la comprensione dell’infinitamente piccolo e grande. E ben presto infrangeranno la “barriera” delle dieci rivelazioni, ossia il computo dei primi undici eventi energetici OGE finora confermati.

Un risultato tutt’altro che scontato, quello delle Onde Gravitazionali di Einstein che consacrano definitivamente la sua Relatività che non è più una Teoria Generale

GW170817 è un getto relativistico che buca il materiale espulso nell’atto della fusione delle due stelle di Neutroni. Eventi che formano gli elementi chimici pesanti, come Oro e Platino. Nell’illustrazione degli scienziati O.S. Salafia e G. Ghirlanda, si osserva il flusso che attraversa il materiale lanciato nello spazio dallo scontro delle due stelle di Neutroni. È lanciato dal Buco Nero, circondato da un disco di materia calda, che si è formato dopo lo scontro. Grandi speranze dalle Onde Gravitazionali per la navigazione interstellare.

(di Nicola Facciolini)

“Il Signore Dio li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome” (Genesi 1,19). Ora si fa sul serio. D’ora in poi Ligo e Virgo lavoreranno d’amore e d’accordo. Grandi speranze delle Onde Gravitazionali di Einstein per svelare il lato oscuro dell’Universo nella finissima tessitura dello spaziotempo ove si celano i segreti cosmologici fondamentali per la comprensione dell’infinitamente piccolo e grande. Le Onde Gravitazionali ben presto infrangeranno la “barriera” delle dieci rivelazioni, ossia il computo dei primi undici eventi energetici OGE finora assicurati. La conferma giunge dagli scienziati della collaborazione Ligo-Virgo che pubblicano i risultati delle analisi approfondite condotte sui primi due esperimenti (run), le due originali campagne osservative realizzate dal team del fisico californiano di Kip Thorne, l’ideatore del Buco Nero “gentile” Gargantua nel colossal Interstellar, scienziato insignito del Premio Nobel. Un vero e proprio Catalogo di “detonazioni” spaziotemporali OGE letteralmente risonanti in tutto l’Universo locale, messo online dai ricercatori, a sancire il passaggio dall’eccezionalità dell’Astronomia Gravitazionale alla buona routine scientifica. D’ora in avanti, a meno che non si presentino scenari sempre possibili che ancora mancano all’appello, come la fusione fra un Buco Nero e una stella di Neutroni, e le “stringhe di energia” (Buchi Bianchi e Neri inanellati come i grani in una corona di rosario!) forieri di altri Nobel, l’eccitazione per fenomeni cosmici mai osservati prima lascerà sempre più spazio alla statistica, ai dettagli, all’affinamento tecnologico e teorico. All’Astronomia Gravitazionale vera e propria, grazie alla quale avremo una visione totalmente nuova del Cosmo in cui viviamo e un giorno navigheremo di persona a bordo di vere astronavi interstellari. Con Mappe OGE sempre più aggiornate e dettagliate dell’Universo. Giusto per non sbattere contro una Supernova o un Buco Nero/Bianco! Un po’ com’è accaduto nel corso degli ultimi vent’anni con la scoperta degli esopianeti alieni, prima del 1995 confinati al reame della fantascienza, che ormai si contano a migliaia. “Il primo catalogo degli eventi di onde gravitazionali – conferma Giovanni Prodi, coordinatore dei gruppi di analisi dati di Virgo – è fondamentale per il passaggio allo studio sistematico delle sorgenti di onde gravitazionali. A pochi anni dalle prime rivelazioni, abbiamo così iniziato a svelare le caratteristiche dei buchi neri di massa stellare che popolano l’Universo”. Un catalogo da sfogliare, oggi con ancora un numero di pagine sufficientemente contenuto, tale però da permettere di soffermarsi un istante su ogni singolo evento OGE, come forse non avverrà mai più, come per gli esomondi. Almeno fino alla scoperta ufficiale degli Alieni Extraterrestri! “Abbiamo rivelato con certezza dieci segnali di onde gravitazionali – osserva Viviana Fafone, responsabile nazionale dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) per la collaborazione Virgo – emessi dalla fusione di coppie di buchi neri di massa stellare, e un segnale prodotto dalla coalescenza di un sistema binario di stelle di neutroni. Questo significa che dall’approfondita analisi del complesso dei dati raccolti nel corso dei primi due periodi di osservazione sono emersi altri quattro eventi, rispetto a quelli precedentemente annunciati”. I quattro nuovi eventi, chiamati in base alla data in cui sono stati registrati GW170729, GW170809, GW170818 e GW170823 (GW sta per Gravitational Wave, onda gravitazionale in inglese, e le sei cifre che seguono indicano l’anno, il mese e il giorno) sono stati tutti generati dalla fusione di Buchi Neri (stelle collassate) binari. Due meritano una menzione particolare. Il primo è GW170729. Si tratta, a oggi, della “sorgente di onde gravitazionali più massiccia e distante finora osservata”, rivelano gli scienziati. Nella coalescenza, avvenuta circa 5 miliardi di anni fa dal punto di vista terrestre, un’energia equivalente a quasi cinque masse solari è stata convertita istantaneamente in radiazione gravitazionale e neutrini. L’altro è GW170818, rivelato dunque il giorno successivo al celebre GW170817, l’unico degli 11 eventi a oggi noti, provocato dalla fusione non di due Buchi Neri bensì di due stelle di Neutroni. GW170818 è l’unico fra i quattro nuovi eventi ad essere stato registrato anche dal Telescopio gravitazionale italiano Virgo, perché “purtroppo durante i primi due eventi non eravamo ancora in acquisizione dati e, durante l’ultimo, il rumore del detector era troppo alto”, spiega Valerio Boschi di Virgo-Ego. In compenso, quella di Virgo è una rilevazione di ottima qualità, paragonabile a quella di uno dei due interferometri “Nobel” americani. “Il rapporto segnale rumore è 4.2 per Virgo, 4.1 per Ligo Hanford e 9.7 per Ligo Livingston – rileva Boschi – e il cosiddetto false alarm rate, cioè la probabilità che l’evento sia spurio, è di appena 1/24000 anni. È infatti l’evento meglio localizzato di tutto il catalogo, dopo la binaria di stelle di neutroni”. Localizzazione che si può facilmente desumere dall’immagine pubblicata dai ricercatori: la posizione del sistema binario all’origine di GW170818, situato a 3,3 miliardi di anni luce dalla Terra, è stata individuata nel cielo con una precisione di 39 gradi quadrati. La ripartenza, il “run O3”, è in calendario per la Primavera 2019, precisamente il 1° Aprile (www.ligo.caltech.edu/WA/news/ligo20190326). “Ci auguriamo di riuscire a rivelare onde gravitazionali da sorgenti ancora mai osservate – dichiara Alessio Rocchi, ricercatore dell’Infn, coordinatore del commissioning di Virgo – come pulsar, sistemi binari composti da un buco nero e una stella di neutroni, o addirittura supernovae, perché questo consentirebbe di aggiungere un nuovo messaggero: oltre alle onde gravitazionali ed elettromagnetiche, anche i neutrini, una prospettiva emozionante per la nuova astronomia multimessaggera” (https://arxiv.org/abs/1811.12907). “Il catalogo Ligo-Virgo è una bellissima ricompensa per l’enorme sforzo scientifico e tecnologico delle collaborazioni, e una grande soddisfazione per tutti coloro che per oltre trent’anni hanno creduto e investito lavoro e risorse in questo progetto, in particolare un pensiero va ad Adalberto Giazotto, uno dei padri, assieme ad Alain Brillet, del nostro interferometro Virgo”, ricorda Fernando Ferroni, Presidente dell’Infn. Durante il primo “run” di osservazione (O1) dal 12 Settembre 2015 al 19 Gennaio 2016, sono stati rivelati tre segnali di Onde Gravitazionali dalla fusione di buchi neri. Il secondo “run” di osservazione (O2), dal 30 Novembre 2016 al 25 Agosto 2017, ha registrato Onde Gravitazionali emesse dalla fusione di un sistema binario di stelle di neutroni e un totale di sette segnali dalla fusione di Buchi Neri. Sono stati così riportati quattro nuovi eventi scoperti in O2 e tutti sono stati generati dalla fusione di buchi neri binari: GW170729, GW170809, GW170818 e GW170823. GW170729 sembra essere la sorgente di onde gravitazionali più massiccia e distante finora osservata. L’interferometro Advanced Virgo si è unito ai due rilevatori Advanced LIGO il 1° Agosto 2017. Nonostante il network Ligo-Virgo a tre rilevatori avanzati sia stato operativo per sole tre settimane e mezza, in questo periodo sono stati osservati ben cinque eventi. GW170814 è stata la prima fusione binaria di Buchi Neri misurata dalla collaborazione scientifica a tre rivelatori e ha consentito i primi test di polarizzazione delle Onde Gravitazionali per la individuazione della sorgente astrofisica. Tre giorni dopo è stato rivelato l’evento GW170817. Le prime Onde Gravitazionali mai osservate provenienti dalla fusione di un sistema binario di stelle di Neutroni. Evento che è stato osservato sia in OGE sia in radiazione elettromagnetica, dando così inizio all’era dell’Astronomia Multimessaggera. I nuovi eventi includono GW170818, misurato sempre grazie al network globale formato dagli osservatori Ligo situati negli Stati Uniti d’America a Livingston in Louisiana e Hanford nello Stato di Washington, e l’interferometro Virgo in Italia, a Cascina (Pisa) in Toscana (Italia). La posizione del sistema binario, situato a 3,3 miliardi di anni luce dalla Terra, è stata individuata nel cielo con una precisione di 39 gradi quadrati: la migliore localizzazione di una sorgente di onde gravitazionali, dopo la fusione di stelle di neutroni GW170817. “Questo successo è stato possibile grazie alla capacità di puntamento del network a tre interferometri – spiega Stavros Katsanevas, direttore dello European Gravitational Observatory (EGO) che ospita l’interferometro Virgo – sfruttando i ritardi di tempo di arrivo del segnale nei diversi siti e i cosiddetti pattern di antenna degli interferometri”. Un totale di undici rivelazioni di onde gravitazionali sono, dunque, state ricavate con tre analisi indipendenti dei dati di O1 e O2. E, grazie a una più avanzata elaborazione dei dati e alla migliore calibrazione degli strumenti, l’accuratezza della misura dei parametri astrofisici degli eventi già annunciati è migliorata considerevolmente. La pubblicazione di questo lavoro riepiloga le scoperte finora fatte in attesa della ripartenza del network Ligo-Virgo, alla conclusione di lavori di potenziamento dei tre interferometri, che aumenteranno così la loro capacità di osservazione del cielo e quindi il loro potenziale di scoperta. La loro nuova stagione di presa dati, questa volta durerà un intero anno. Il rivelatore italiano Virgo-EGO dello “European Gravitational Observatory”, e i rivelatori gemelli Ligo, si metteranno nuovamente in ascolto dell’Universo, stavolta operando congiuntamente come un Osservatorio Gravitazionale Planetario, il più sensibile di sempre. Dall’Agosto 2017, quando si è concluso il secondo periodo di osservazione, le collaborazioni hanno lavorato intensamente sui tre interferometri per migliorarne la sensibilità e l’affidabilità. Gli scienziati hanno anche migliorato i loro sistemi di analisi dati “offline” e “online”, sviluppando le procedure di rilascio degli “Open Public Alerts”, per informare in tempi ancora più rapidi le comunità dei fisici, degli astrofisici e degli astronomi quando un potenziale evento di Onda Gravitazionale viene registrato dagli interferometri. La sensibilità di un interferometro per Onde di Einstein è comunemente espressa in termini di distanza alla quale può osservare la fusione di un sistema binario di stelle di Neutroni. “Durante O2 Advanced, Virgo poteva osservare eventi di fusione di stelle di neutroni fino a una distanza di 88 milioni di anni luce – spiega Alessio Rocchi – entrambe le collaborazioni Ligo e Virgo hanno lavorato per migliorare la sensibilità dei rivelatori grazie agli aggiornamenti apportati agli interferometri: rispetto a O2, la sensibilità di Virgo è migliorata di circa un fattore 2, il che significa che il volume di Universo osservabile è aumentato di un fattore di 8”. Da Agosto 2017 sia Ligo sia Virgo sono stati aggiornati e testati. In particolare, Virgo ha completamente sostituito i fili di acciaio che erano stati utilizzati in O2 per tenere sospesi gli specchi principali dell’interferometro. Gli specchi sono ora sospesi a sottili fibre di silice fusa (vetro), una procedura che ha permesso di aumentare la sensibilità nella regione di bassa-media frequenza e ha un grande impatto sulle capacità di rivelare fusioni di sistemi binari compatti. Un secondo importante aggiornamento è l’installazione di una sorgente laser più potente, che migliora la sensibilità alle alte frequenze. Sono state adottate tecniche, sviluppate in collaborazione con l’Albert Einstein Institute di Hannover in Germania, che sfruttano la natura quantistica della luce per migliorare la sensibilità alle alte frequenze. Si prevede che i risultati scientifici di O3 saranno significativi e inediti: gli scienziati si aspettano rivelazioni di segnali OGE provenienti da nuove sorgenti, come la fusione di sistemi binari misti costituiti da buchi neri e stelle di neutroni. Inoltre la O3 punterà anche alla rivelazione di segnali di Onde Gravitazionali di lunga durata, prodotti ad esempio dalla rotazione di stelle di Neutroni in modo non simmetrico rispetto al loro asse. I segnali da fusione di sistemi binari di Buchi Neri, come GW150914, il primo evento OGE di sempre, dovrebbero diventare abbastanza ordinari. Si potrebbe arrivare a registrarne fino a uno ogni settimana, a riprova del fatto che il tessuto spaziotemporale è in continua “creazione”! E gli scienziati si aspettano anche di osservare diverse fusioni di stelle di Neutroni, come GW170817 che ha aperto l’era dell’Astronomia Multimessengera e ha fornito spunti di approfondimento per la fisica nucleare, la cosmologia e la fisica fondamentale. La O3 prevede un’altra importante novità: nell’ultimo periodo di presa dati, si dovrebbe unire anche il rivelatore gravitazionale giapponese Kagra, estendendo le capacità di rivelazione e puntamento della Rete Terrestre. Nel frattempo, il Laboratorio KEK di Tsukuba in Giappone, il 25 Marzo 2019 alle 11.44 (ora italiana) con l’esperimento Belle II ha osservato le sue prime collisioni elettrone-positrone, tra materia e antimateria. Si inaugura così la Fase 3 del progetto, cui partecipa anche l’Infn, dopo il potenziamento del rivelatore Belle II e lavori di upgrade dell’acceleratore. “Questo rappresenta un passo fondamentale per la riuscita dell’esperimento – rivela Ezio Torassa della Sezione Infn di Padova, rappresentante italiano nel comitato esecutivo di Belle II – adesso ci aspettiamo di raccogliere entro il prossimo Giugno almeno 5 milioni di eventi, questo ci permetterà di capire a fondo il funzionamento del rivelatore e dell’acceleratore. Siamo ansiosi di analizzare i molti dati di cui presto disporremo e contiamo di effettuare misure sempre più precise con il progressivo aumento della statistica”. L’acceleratore SuperKEKB prevede di raggiungere una luminosità 40 volte maggiore del suo predecessore KEKB, che ha funzionato fino al 2010, e che detiene attualmente il record mondiale di luminosità per un collisore di elettroni-positroni. Belle II ha invece l’ambizioso obiettivo di accumulare 50 volte più dati rispetto al suo predecessore Belle, per scovare segnali di Nuova Fisica che potrebbero nascondersi nei decadimenti dei “mesoni B” e fare così luce sui misteri dell’Universo primordiale. L’esperimento Belle II, frutto del lavoro di una collaborazione internazionale formata da circa 800 fisici di 23 nazioni sulla Terra, è ora pronto a diventare assieme a SuperKEKB la più potente “Super B factory” del mondo, in grado di produrre in abbondanza e studiare con grande accuratezza i decadimenti dei mesoni B, particelle che contengono un “quark beauty” (b). “Il contributo Italiano è stato importante sia per aver proposto lo schema di collisione nano-beam, che ha permesso un notevole incremento di luminosità, sia per avere contribuito alla progettazione, costruzione e assemblaggio del rivelatore Belle II”, spiega Paolo Branchini della Sezione Infn di Roma Tre, coordinatore nazionale della comunità italiana che lavora al progetto. La collaborazione dell’Italia consiste di più di 60 scienziati provenienti dai Laboratori e dalle Sezioni dell’Infn delle Università di Napoli, Padova, Perugia, Pisa, Torino, Trieste, Roma Sapienza, Roma Tre, e dai Laboratori Nazionali di Frascati ed Enea Casaccia. I gruppi italiani hanno contribuito alla costruzione e sono impegnati nella messa in funzione di quattro elementi chiave dell’esperimento: il rivelatore di vertice (SVD), il sistema di identificazione di particelle (TOP), il calorimetro elettromagnetico (ECL), e il rivelatore esterno (KLM) dedicato alla misura dei mesoni KL e dei muoni. Si svela un altro po’ il velo calato sul mistero dell’asimmetria tra materia e antimateria. Un’asimmetria minuscola ma sufficiente a far sì che il “nostro” Universo esista con tutti noi e sia fatto esclusivamente di “materia”. È stata, infatti, scoperta nei decadimenti delle particelle “charm” (contengono un “quark c” che ha carica elettrica +2/3 rispetto a quella dell’elettrone) un’asimmetria di comportamento rispetto alle loro antiparticelle, chiamata violazione di CP, cioè di carica e di parità. In particolare, la violazione di CP è stata osservata nei “mesoni D0”. La misura è stata ottenuta dall’esperimento LHCb, uno dei quattro enormi rivelatori dislocati lungo l’anello magnetico sotterraneo di 27 km del supercollisore Lhc del Cern di Ginevra, ed è stata coordinata dal gruppo Infn di Bologna che fa parte della collaborazione scientifica LHCb. “L’osservazione di questo fenomeno, previsto dalla teoria ma sfuggito fino ad oggi alla conferma sperimentale, rappresenta per la fisica delle particelle il raggiungimento di una nuova pietra miliare – rivela Vincenzo Vagnoni, responsabile del gruppo LHCb della Sezione Infn di Bologna – si tratta di una misura complessa: per realizzarla è stato necessario progettare e costruire strumenti di indagine potenti come l’acceleratore Lhc e il nostro rivelatore LHCb, e ci sono voluti quasi dieci anni di lavoro da parte del nostro gruppo di ricerca”. Il risultato, che ha una significatività statistica di 5.3 sigma (deviazioni standard) superiore quindi alla soglia di 5 sigma convenzionalmente adottata dai fisici delle particelle per affermare in maniera inequivocabile una scoperta, è stato presentato il 21 Marzo 2019 alla conferenza Rencontres de Moriond EW e in un seminario al Cern dai ricercatori italiani Federico Betti e Angelo Carbone, entrambi della Sezione Infn dell’Università di Bologna. “Aver contribuito alla realizzazione di questa misura – racconta Federico Betti – è stata per me un’esperienza entusiasmante. Ho lavorato ininterrottamente all’analisi dei dati durante gli ultimi due anni e mezzo, inserendomi in un lavoro quasi decennale portato avanti dal nostro gruppo di ricerca”. Angelo Carbone spiega di aver “realizzato una misura di altissima precisione che ha richiesto un lunghissimo lavoro. La differenza di comportamento tra le particelle D0 e le corrispondenti antiparticelle è, infatti, molto piccola e abbiamo avuto bisogno di produrre e ricostruire decine di milioni di loro decadimenti per poterla osservare e misurare con precisione”. I quark possono essere suddivisi in due categorie: quelli di “tipo up” con carica +2/3 denominati quark up (u), charm (c) e top (t), e quelli di “tipo down” con carica -1/3, i quark down (d), strange (s) e beauty (b). Differenze di proprietà tra materia e antimateria derivanti dal cosiddetto fenomeno della violazione della simmetria CP, erano state osservate in passato solo nei decadimenti di particelle strange e beauty, cioè particelle che contengono quark s oppure quark b. La violazione di CP non era mai stata misurata prima d’ora nei decadimenti di particelle che contengono quark con carica di +2/3. “Questa scoperta – spiega Giovanni Passaleva dell’Infn di Firenze, a capo della collaborazione internazionale LHCb – apre ora un nuovo campo di studi per la fisica delle particelle: la comprensione degli effetti della violazione di CP anche nella categoria di quark di tipo up. La violazione di CP è uno dei processi chiave per comprendere fino in fondo e spiegare perché l’Universo di oggi sia composto solo di particelle di materia, e non vi sia presenza di antimateria residua”. Il fenomeno della violazione di CP fu osservato per la prima volta nel 1964 nel decadimento dei mesoni K neutri, e i due fisici che fecero la scoperta, James Cronin e Val Fitch, furono insigniti del premio Nobel per la fisica nel 1980. A quel tempo, la scoperta rappresentò una grande sorpresa per la comunità dei fisici delle particelle, allora fermamente convinta che la simmetria CP non potesse essere violata. Si poneva, quindi, il problema di come inserirla nella descrizione matematica della teoria. Un primo contributo teorico, successivamente rivelatosi fondamentale per lo sviluppo di una descrizione completa del fenomeno, era già stato fornito in un celebre articolo del 1963 dal professore Nicola Cabibbo, il quale aveva capito che l’interazione debole “interpreta” le particelle composte da quark come il risultato del mescolamento dei loro vari tipi. Partendo dalle fondamenta gettate da Cabibbo, i giapponesi Makoto Kobayashi e Toshihide Maskawa realizzarono all’inizio degli Anni ’70 che la violazione di CP poteva essere inclusa nel quadro teorico che oggi conosciamo come Modello Standard della fisica delle particelle elementari, a condizione che esistessero in Natura almeno sei diversi tipi di quark. Alla matrice che descrive il mescolamento dei quark fu dato poi il nome di matrice CKM, dalle iniziali dei cognomi tre fisici teorici. L’idea fu confermata definitivamente tre decenni dopo con la scoperta della violazione di CP nei decadimenti delle particelle beauty da parte degli esperimenti BaBar negli Stati Uniti e Belle in Giappone, risultato che condusse al riconoscimento del premio Nobel per la fisica nel 2008 a Kobayashi e Maskawa. “Questa teoria spiega tutti gli effetti di violazione di CP finora noti nella fisica delle particelle ed è stata ulteriormente confermata da altre misure, molte ottenute dall’esperimento LHCb – osserva Matteo Palutan, ricercatore dei Laboratori Nazionali Infn di Frascati e rappresentante nazionale della collaborazione LHCb – la stessa teoria prevede anche la minuscola violazione di CP nei decadimenti delle particelle charm che finalmente siamo riusciti a provare sperimentalmente con questa misura”. L’entità della violazione di CP osservata finora nelle interazioni del Modello Standard è, tuttavia, troppo piccola per spiegare l’asimmetria materia-antimateria che osserviamo in Natura nel nostro Universo locale, suggerendo l’esistenza di ulteriori processi ancora sconosciuti che violino più fortemente la simmetria CP. Questa misura stimolerà un rinnovato lavoro teorico per valutarne l’impatto sulla descrizione fornita dalla matrice CKM nel contesto del Modello Standard, e aprirà la strada alla ricerca di possibili nuovi processi di violazione di CP nelle particelle charm, grazie anche ai nuovi esperimenti nel Laboratorio Nazionale del Gran Sasso dell’Infn, in Abruzzo (Italia). La ricerca prosegue dunque nel suo intento di scovare effetti che evidenzino l’incompletezza del Modello Standard nella descrizione della realtà fisica, per aprire nuovi orizzonti alla conoscenza dei meccanismi di funzionamento del “nostro” Universo. E si comincia dalle scuole medie e superiori con la sperimentazione nelle classi del “Gran Sasso Videogame”, il giuoco istruttivo “educational” dedicato alla fisica delle particelle e ambientato ai Laboratori Nazionali del Gran Sasso (le sale sotterranee sono installate sotto il Monte Aquila, in Provincia di Teramo). La sperimentazione parte dall’Abruzzo per poi successivamente coinvolgere studenti del Lazio e della Campania. Oltre 350 ragazzi di età compresa tra i 14 e i 19 anni e 15 insegnanti delle province di L’Aquila, Teramo e Pescara, sono i protagonisti della valutazione del videogioco. Grazie ai risultati raccolti sul campo dal team dei fisici e ai materiali didattici che lo accompagnano, verranno finalizzati e rilasciati ulteriori dati utili nella versione definitiva in italiano e in inglese sul sito (www.gransassovideogame.it). È il primo videogioco ambientato nei Laboratori Nazionali del Gran Sasso dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare ed è uno strumento nato per far conoscere la realtà dei Laboratori, avvicinare gli studenti alle frontiere della fisica e alle possibilità offerte dalle carriere scientifiche, com’è nei desiderata del Museo della Fisica nel capoluogo aprutino. Il progetto videoludico scientifico nasce dalla collaborazione tra i Laboratori Nazionali del Gran Sasso, l’agenzia di comunicazione scientifica Formicablu srl con il contributo di INDIRE (Istituto Nazionale Documentazione Innovazione Ricerca Educativa) per la fase di sperimentazione nelle scuole. La realizzazione del videogioco è stata affidata alla casa di produzione IVproduction di Ivan Venturi, pioniere dell’industria videoludica italiana. Gran Sasso Videogame è il risultato del progetto PILA (Physics In Ludic Adventure) finanziato dal MIUR nell’ambito della legge 6/2000 per la diffusione della cultura scientifica. Prima ancora di aver raggiunto la sua versione definitiva, il Gran Sasso Videogame pare abbia già ottenuto il titolo di progetto più significativo nella categoria “Capitale Umano” al Premio “PA sostenibile 100 progetti per raggiungere gli obiettivi dell’Agenda 2030”. La versione beta del videogioco è stata resa pubblica il 27 Maggio 2018 e ad oggi è stato giocato da migliaia di persone. A seguito di ulteriori aggiornamenti, a partire dal 26 Marzo 2019, il videogioco Lngs-Infn viene promosso e proposto per la prima volta agli studenti delle scuole superiori: il percorso di valutazione si effettua in circa 15 classi appartenenti a 6 scuole delle Province di L’Aquila, Teramo e Pescara che si sono rese disponibili a testare il programma. La versione definitiva del videogioco in italiano e in inglese pare venga rilasciata entro Maggio 2019. La fase di sperimentazione serve a finalizzare il videogioco tenendo conto delle osservazioni e delle esigenze degli studenti e insegnanti. Solo realizzando uno strumento davvero utile alla didattica, il team, che ha partecipato alla realizzazione di Gran Sasso Videogame, potrà sostenere di aver vinto la sua partita. Sono quasi 3500 gli studenti delle scuole superiori di tutta Italia che, in contemporanea con i loro coetanei di tutto il mondo, in questi giorni possono fare esperienza diretta di come funzionano le ricerche dei fisici che lavorano al Cern, grazie all’iniziativa Masterclass, coordinata in Italia dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. I ragazzi visitano le università dove vengono accompagnati dai ricercatori in un viaggio alla scoperta delle proprietà delle particelle ed esplorano i segreti della grande macchina Large Hadron Collider del Cern, grazie alla quale nel Luglio dell’Anno Domini 2012 è stato scoperto l’ormai celebre Bosone di Higgs, la “Particella di Dio” che dona la massa a tutte le altre nelle brevi distanze. Come fa del resto la “debole” forza di Gravità plasmando il continuum dello spaziotempo, agendo a distanza infinita, con la sua particella, il gravitone, un “fotone speciale” non ancora riprodotto al Cern. Ogni università organizza una giornata di lezioni e seminari sugli argomenti fondamentali della fisica delle particelle, seguite da esercitazioni al computer su uno degli esperimenti del collisore (non “acceleratore”!) di particelle Lhc (ATLAS, CMS, ALICE o LHCb) dove nel tunnel di 27 km, a 100 metri di profondità, sotto la campagna fuori Ginevra le particelle si scontrano quasi alla velocità della luce. I ragazzi possono usare i veri dati provenienti da Lhc per simulare negli esercizi l’epocale scoperta del Bosone di Higgs, ma anche quella dei bosoni W e Z. Proprio quelli che nel 1984 valsero il premio Nobel al fisico italiano Carlo Rubbia che ha spostato il suo esperimento neutrinico al Fermilab. E di alcune particelle dotate di una proprietà di nome “stranezza”. Possono anche esplorare la vita e le caratteristiche della particella “D0”. Alla fine della giornata, proprio come in una vera collaborazione di ricerca internazionale, gli studenti si collegano in videoconferenza con i coetanei di tutto il mondo che hanno svolto gli stessi esercizi in altre università, per discutere insieme i risultati emersi dalle esercitazioni. Un po’ come dovrebbe funzionare l’insegnamento delle scienze nella scuola superiore in Italia. L’iniziativa, giunta alla 15ma edizione, fa parte delle “Masterclass” internazionali organizzate dall’International Particle Physics Outreach Group. Le Masterclass si svolgono contemporaneamente in 52 diverse nazioni, coinvolgono oltre 200 tra i più prestigiosi enti di ricerca e università del mondo e più di 13.000 studenti delle scuole superiori. Per l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare sono presenti le sezioni di Bari, Bologna, Cagliari, Cosenza, Ferrara, Firenze, Genova, Lecce, Milano Bicocca, Milano, Napoli, Padova, Pavia, Perugia, Pisa, Salerno, Sapienza Università di Roma, Roma Tor Vergata, Roma Tre, Torino, Trieste e Udine, i Laboratori Nazionali di Frascati, il TIFPA di Trento e l’Università di Modena e Reggio Emilia. Un risultato tutt’altro che scontato, quello delle Onde Gravitazionali di Einstein che consacrano definitivamente la sua Relatività Generale che non è più solo una Teoria! Ci sono voluti trentatré radiotelescopi distribuiti in cinque continenti, dall’Australia agli Stati Uniti passando per Asia, Europa e Sud-Africa, e trentasei astronomi di undici nazioni per misurare le dimensioni di GW170817, la prima sorgente di Onde Gravitazionali rivelate dagli interferometri Ligo e Virgo, osservata anche nella sua componente elettromagnetica da decine di telescopi, a più di un anno dalla sua scoperta. I risultati dello studio di un team internazionale coordinato da Giancarlo Ghirlanda, primo ricercatore dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, e che ha visto la partecipazione di colleghi ricercatori dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, Università di Milano-Bicocca, Gran Sasso Science Institute e Agenzia Spaziale Italiana, sono pubblicati sulla rivista Science. Lo studio mostra come dallo scontro di due stelle di Neutroni (un grammo della cui massa relativistica spazzerebbe via la Terra in un istante!) abbia avuto origine un getto di energia e materia lanciato nello spazio interstellare a una velocità prossima a quella della luce. Le due stelle di Neutroni, nell’atto di fondersi, hanno rilasciato nello spazio circostante materiale ricco di Neutroni, che ha formato metalli pesanti. Il getto ha dovuto farsi strada attraverso questa “super” materia. Se non fosse riuscito ad emergere avrebbe depositato al suo interno la propria energia, provocando un’esplosione quasi sferica. È ben presto apparso chiaro che studiare il cambiamento della luminosità della sorgente nel tempo, non sarebbe bastato per capire se il getto ce l’avesse fatta o meno a bucare la coltre di materiale circostante. Per scoprirlo, i ricercatori hanno deciso di misurare quanto fosse grande la sorgente. “Dopo diversi mesi un’esplosione sferica, a una distanza come quella di GW170817, sarebbe apparsa come una bolla luminosa delle dimensioni apparenti di circa un milionesimo di grado – rivela Ghirlanda, primo autore dell’articolo scientifico che illustra lo studio – come una moneta da un euro vista da 1000 chilometri di distanza, mentre un getto sarebbe apparso significativamente più piccolo, non più grande della metà”. Dimensioni così piccole sono misurabili solamente con la tecnica chiamata “Very Long Baseline Interferometry” che combina le osservazioni dei più grandi radio telescopi sulla Terra: maggiore è la distanza fra le antenne utilizzate e più piccoli sono i dettagli delle sorgenti celesti che è possibile distinguere. L’osservazione ha visto impegnati 33 radio telescopi, che tra il 12 e il 13 Marzo del 2018, sfruttando la rotazione della Terra, hanno iniziato ad osservare la lontana galassia in cui è avvenuta la fusione delle due stelle di Neutroni, partendo dagli strumenti operativi in Australia per terminare con quelli puntati dalle Hawaii. A questa osservazione hanno preso parte moltissime antenne europee che fanno parte dello “European VLBI Network”, fra cui le due antenne italiane dell’Inaf situate a Medicina (Bologna) e Noto (in Sicilia), entrambe del diametro di 32 metri. I dati sono stati raccolti e analizzati nel centro JIVE (Olanda). “È il risultato di una collaborazione internazionale che ha saputo combinare le tecniche osservative radio più avanzate con le conoscenze teoriche sui getti relativistici e sulle onde gravitazionali, in cui l’Italia riveste un ruolo d’avanguardia”, osserva Monica Colpi, professore ordinario dell’Università di Milano-Bicocca. “In primavera i rivelatori di onde gravitazionali Virgo e Ligo rientrano in funzione, ascoltando un volume di Universo più grande. Ci aspettiamo molti nuovi segnali, e questo tipo di osservazioni saranno fondamentali per capire come si origina l’immensa energia emessa in questi eventi”, ricorda Marica Branchesi, la scienziata italiana del Gran Sasso Science Institute di L’Aquila e dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, fra gli autori del lavoro, insignita di molti premi e protagonista delle copertine di magazine scientifici e popolari di tutto il mondo. “È un po’ come giocare a “Indovina chi?”: per capire se si tratta o no di un getto – spiega Om Sharan Salafia, ricercatore dell’Inaf e secondo autore del lavoro pubblicato su Science – bisogna essere in grado di prevedere come appare la sorgente 200 giorni dopo la rivelazione delle onde gravitazionali, cioè nel momento in cui le antenne VLBI l’hanno osservata. Dal confronto delle immagini teoriche con quelle vere si nota che solo un getto appare sufficientemente compatto da essere compatibile con la dimensione osservata”. 
Così lavora la scienza. “La prima e al momento unica rivelazione di onda gravitazionale a cui è stata associata una controparte elettromagnetica, GW170817 ha dimostrato l’importanza fondamentale della sinergia tra rivelatori di onde gravitazionali e strumenti per l’astronomia da terra e dallo spazio”, ricorda Valerio D’Elia, coautore dell’articolo e “archive scientist” allo “Space Science Data Centre” dell’Agenzia Spaziale Italiana. “Le missioni spaziali come Hermes (progetto ASI) e Theseus (missione candidata per ESA, M5) – osserva Barbara Negri, Responsabile dell’unità Esplorazione e Osservazione dell’Universo di ASI – rivestiranno un ruolo molto importante nell’era dell’astronomia multimessaggera”. Dopo oltre un anno di incertezze, l’arcano è quindi finalmente svelato: lo studio sulle OGE fornisce la prova che la sorgente di Onde Gravitazionali scoperta nell’Agosto del 2017 ha lanciato un getto relativistico che ha bucato il materiale espulso nell’atto della fusione delle due stelle di Neutroni. Eventi che formano gli elementi chimici pesanti, come Oro e Platino. Un’informazione che aggiunge un ulteriore tassello alla nostra comprensione di tali fenomeni: grazie a osservazioni di questo tipo, nei prossimi anni potremo avere un’idea più completa e precisa delle varie fasi della vita di Buchi Neri e stelle di Neutroni, a partire dalla loro formazione. GW170817 ha prodotto un’esplosione di kilonova, denominata con la sigla At2017gfo, e il lampo di raggi gamma breve GRB170817A. Oltre all’importanza della simultanea osservazione di Onde Gravitazionali e onde elettromagnetiche da una stessa sorgente, questa è la prima osservazione diretta dei Gamma Ray Burst brevi con origine dallo scontro di oggetti compatti come le stelle di Neutroni. Per questo motivo GRB170817A è stato osservato in varie frequenze, dalle onde radio all’ottico, dalla banda X e ai raggi gamma. “Grawita”, la collaborazione italiana dedicata alla ricerca delle controparti elettromagnetiche di Onde Gravitazionali, è stata fin dalle prime ore protagonista, osservando la kilonova di GW170817 col telescopio robotico Rem all’Osservatorio di La Silla in Cile, per lo studio più dettagliato della sua evoluzione spettrale osservata col telescopio VLT dell’Eso. Il gruppo di lavoro Grawita guidato da Andrea Rossi dell’Inaf-Oas di Bologna ha utilizzato il Large Binocular Telescope per osservare la controparte ottica (afterglow) del GRB170817A, scoprendo una sorgente molto debole. LBT è un telescopio binoculare con due specchi principali di 8,4 metri di diametro collocato sul monte Graham, nel sud-est dell’Arizona (Usa). È un progetto a partecipazione italiana (25%) tramite l’Istituto Nazionale di Astrofisica. L’osservazione è importante poiché si tratta della prima rivelazione in ottico da terra dell’afterglow di GRB170817A. Esistono solamente altre due rilevazioni ottiche, entrambe ottenute col Telescopio Spaziale Hubble. Questa osservazione è ancora più sensazionale se si conoscono le condizioni nelle quali è stata ottenuta. Il binocolo gigante LBT si trova nell’emisfero Nord, mentre GRB170817A si trova nell’emisfero Sud della volta celeste, obbligando lo strumento a puntare molto in basso, il che comporta osservare attraverso uno strato più denso e turbolento di atmosfera. Inoltre, la galassia in cui è esploso GRB170817A è molto più brillante dell’afterglow. Per questo motivo, Michele Cantiello dell’Osservatorio Astronomico Inaf d’Abruzzo ha sottoposto le immagini a un complicata procedura per sottrarre l’emissione della galassia ospite. Solo a quel punto, il team di riduzione dati di Lbt-Italia (Diego Paris e Vincenzo Testa, dell’Osservatorio Astronomico Inaf di Roma ha potuto produrre l’immagine finale nella quale si è potuta rilevare la debole emissione dell’afterglow. Queste osservazioni, come già dimostrato grazie alle rilevazioni radio e X, confermano che GRB170817A è il primo evento il cui getto relativistico è stato osservato propagarsi non esattamente in direzione della Terra. L’evento coincide con GW170817, la kilonova di Ferragosto osservata contemporaneamente dagli interferometri gravitazionali, dai satelliti alle alte energie e da decine di telescopi terrestri. Era rimasta inevasa la domanda su quale fosse stato il risultato della fusione delle due stelle di Neutroni. In lavoro scritto a quattro mani da Maurice Van Putten, professore alla Sejong Univerity di Seoul in Corea e da Massimo Della Valle, astronomo dell’Osservatorio Astronomico di Capodimonte, dell’Inaf di Napoli, il quesito trova una plausibile risposta: “Il risultato della fusione è ancora una stella di Neutroni, ma ipermassiccia, con una massa stimata in circa 2,5 volte quella del nostro Sole”, rivela Van Putten nello scenario descritto in un articolo sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society Letters. Il lavoro riporta le prime prove osservative di questo processo di fusione, ricavate da una nuova analisi dei dati raccolti dagli interferometri Ligo e ottenuta attraverso l’utilizzo di un software pubblicato in precedenza e ulteriormente aggiornato. “Dalla nostra analisi – spiega Van Putten – abbiamo individuato un segnale gravitazionale nei dati raccolti da Ligo della durata di circa 5 secondi e caratterizzato da una alta significatività statistica”. Le stelle di Neutroni sono oggetti celesti che normalmente possiedono una massa paragonabile a quella del Sole, confinata in un volume di una sfera di circa 10 chilometri di raggio, ma non raggiungono ancora la densità necessaria per trasformarsi in Buchi Neri. Negli ultimi anni, i radioastronomi hanno scoperto stelle di Neutroni molto massicce, che sfiorano le 3 masse solari. Oggetti simili, letteralmente in bilico sull’abisso del collasso, potrebbero quindi essere prodotti in eventi come GW170817. “«La frequenza iniziale del segnale che abbiamo individuato è a 0.7 kHz e suggerisce che il risultato finale possa essere una stella di Neutroni, piuttosto che un Buco Nero ma – avverte Della Valle – va anche detto che il segnale si indebolisce e dopo 5 secondi non vediamo più nulla, quindi cosa sia successo dopo non lo sappiamo”. Nell’illustrazione di O.S. Salafia e G. Ghirlanda, si osserva il getto che buca il materiale lanciato nello spazio dallo scontro delle due stelle di Neutroni. È lanciato dal Buco Nero, circondato da un disco di materia calda, che si è formato dopo lo scontro. Lo strumento Gravity dell’Eso, straordinariamente sensibile, ha aggiunto ulteriori prove alla convinzione di vecchia data che un Buco Nero supermassiccio si annidi nel cuore della Via Lattea. Nuove osservazioni mostrano grumi di gas che ruotano intorno al nucleo a una velocità pari a circa il 30% di quella della luce, su un’orbita circolare appena al di fuori dall’Orizzonte degli Eventi. Dopo Kip Thorne, è la prima volta che si osserva materiale in orbita vicino al “punto di non ritorno”, con le osservazioni più dettagliate di sempre di materiale in orbita così vicina a un Buco Nero. Gravity, installato sul VLTI (l’interferometro del Very Large Telescope), è stato usato dai ricercatori di un consorzio di istituti europei, tra cui l’Eso, per osservare lampi di radiazione infrarossa provenienti dal disco di accrescimento intorno a Sagittarius A, l’oggetto massiccio nel cuore della Via Lattea. Lavoro intrapreso da scienziati del Max Planck Institute for Extraterrestrial Physics (MPE), dell’Observatoire de Paris, dell’Université Grenoble Alpes, del CNRS, del Max Planck Institute for Astronomy,dell’University of Cologne, del Portuguese Centro de Astrofisica e Gravitação e dell’Eso. I lampi osservati forniscono la conferma, da lungo attesa, che l’oggetto al centro della “nostra” Galassia è veramente, come da lungo ipotizzato, un Buco Nero supermassiccio. I lampi hanno origine nel materiale che orbita molto vicino all’Orizzonte degli Eventi esterno al Buco Nero: mentre parte della materia nel disco di accrescimento, la cintura di gas in orbita intorno a Sagittarius A a velocità relativistiche, può orbitare intorno al Buco Nero in tutta sicurezza, tutto ciò che si avvicina “troppo” è destinato ad essere attirato al di là dell’Orizzonte tra i nostri universi. Il “punto” più vicino a un Buco Nero in cui della materia possa orbitare senza essere irresistibilmente attratta verso la Singolarità “interna” dall’immensa massa, è noto come l’orbita stabile più interna, e da qui hanno origine i brillamenti osservati. Le velocità relativistiche sono così grandi che gli effetti della Relatività di Einstein diventano importanti. Nel caso di un disco di accrescimento intorno a Sagittarius A, il gas si muove a circa il 30% della velocità della luce. “È sconvolgente osservare il materiale che orbita intorno a un buco nero massiccio al 30% della velocità della luce – rivela Oliver Pfuhl, scienziato dell’MPE – la straordinaria sensibilità di Gravity ci ha permesso di osservare i processi di accrescimento in tempo reale, con un dettaglio senza precedenti”. Lo strumento Gravity combina la luce dei quattro telescopi VLT per creare il super-telescopio virtuale di 130 metri di diametro utilizzato per sondare la natura di Sagittarius A. Il lavoro è stato presentato nell’articolo “Detection of Orbital Motions Near the Last Stable Circular Orbit of the Massive Black Hole SgrA”, a nome della collaborazione Gravity, pubblicato dalla rivista Astronomy & Astrophysics il 31 Ottobre 2018. L’equipe della collaborazione Gravity è composta da: R. Abuter (ESO, Garching, Germania), A. Amorim (Universidade de Lisboa, Lisbona, Portogallo), M. Bauböck (Max Planck Institute for Extraterrestrial Physics, Garching, Germania[MPE]), J.P. Berger (IPAG; ESO, Garching, Germania), H. Bonnet (ESO, Garching, Germania), W. Brandner (Max Planck Institute for Astronomy, Heidelberg, Germania [MPA]), Y. Clénet (LESIA), V. Coudé du Foresto (LESIA), V. Coudé du Foresto (LESIA), P. T. de Zeeuw (Sterrewacht Leiden, Leiden University, Leiden, Paesi Bassi; MPE), C. Deen (MPE), J. Dexter (MPE), G. Duvert (IPAG), A. Eckart (University of Cologne, Cologne, Germania; Max Planck Institute for Radio Astronomy, Bonn, Germania), F. Eisenhauer (MPE), N.M. Förster Schreiber (MPE), P. Garcia (Universidade do Porto, Porto, Portogallo), F. Gao (MPE), E. Gendron (LESIA), R. Genzel (MPE; University of California, Berkeley, California, USA), S. Gillessen (MPE), P. Guajardo (ESO, Santiago, Cile), M. Habibi (MPE), X. Haubois (ESO, Santiago, Cile), Th. Henning (MPA), S. Hippler (MPA), M. Horrobin (University of Cologne, Cologne, Germania), A. Huber (MPIA), A. Jimenez Rosales (MPE), L. Jocou (IPAG), P. Kervella (LESIA; MPA), S. Lacour (LESIA), V. Lapeyrère (LESIA), B. Lazareff (IPAG), J.-B. Le Bouquin (IPAG), P. Léna (LESIA), M. Lippa (MPE), T. Ott (MPE), J. Panduro (MPIA), T. Paumard (LESIA), K. Perraut (IPAG), G. Perrin (LESIA), O. Pfuhl (MPE), P.M. Plewa (MPE), S. Rabien (MPE), G. Rodríguez-Coira (LESIA), G. Rousset (LESIA), A. Sternberg (School of Physics and Astronomy, Tel Aviv University, Tel Aviv, Israel, Center for Computational Astrophysics, Flatiron Institute, New York, USA), O. Straub (LESIA), C. Straubmeier (University of Cologne, Cologne, Germania), E. Sturm (MPE), L.J. Tacconi (MPE), F. Vincent (LESIA), S. von Fellenberg (MPE), I. Waisberg (MPE), F. Widmann (MPE), E. Wieprecht (MPE), E. Wiezorrek (MPE), J. Woillez (ESO, Garching, Germania), S. Yazici (MPE; University of Cologne, Cologne, Germania). Lo scorso anno Gravity e Sinfoni, un altro strumento installato sul VLT, hanno permesso allo stesso gruppo di misurare con precisione il passaggio radente della stella S2 nel campo gravitazionale estremo prossimo a Sagittarius A, per la prima volta rivelando gli effetti previsti dalla Relatività di Einstein in un ambiente così estremo. Durante il passaggio ravvicinato di S2, è stata osservata anche una forte emissione infrarossa. “Stavamo monitorando S2 da vicino e, naturalmente, teniamo sempre d’occhio Sagittarius A* – spiega Pfuhl – durante le nostre osservazioni, siamo stati abbastanza fortunati da notare tre lampi brillanti provenienti dal buco nero, una coincidenza fortunata!”. Questa emissione, di elettroni molto energici e molto vicini al Buco Nero, era visibile come tre brillamenti molto intensi e corrispondeva esattamente alle previsioni teoriche per i punti caldi (hot spot) in orbita vicino a un oggetto di quattro milioni di masse solari. Si pensa che i brillamenti provengano da interazioni magnetiche nel gas caldissimo che orbita intorno alla Stella Nera Sagittarius A* che ha una massa di 1,3 milioni di milioni di volte più grande di quella della Terra. Dunque, grandi speranze dalle Onde Gravitazionali per la navigazione interstellare.




Scoperto Exodus, il malware che spia i telefonini: Procura di Napoli apre un fascicolo

Uno spyware, creato da un’azienda italiana che lavora con le forze dell’ordine, avrebbe intercettato un migliaio di persone per errore. Lo scrive, nel suo blog ufficiale, la società Security without borders, che in collaborazione con Motherboard ha effettuato la scoperta. Sotto accusa c’è un malware, dal nome Exodus, che è stato programmato dalla società calabrese eSurv che produce soluzioni per la sorveglianza e che, con tutta probabilità, è stato diffuso per errore sul Play Store di Google.

Circa un migliaio di persone lo hanno scaricato, perché contenuto in applicazioni ottenibili gratuitamente. Exodus è in grado di effettuare numerosissime operazioni sul telefono della vittima, perché studiato appositamente per spiare i criminali. Può registrare le telefonate, l’audio ambientale, così come copiare gli sms e i numeri di telefono in rubrica e leggere la posizione attraverso il gps.

La procura di Napoli ha aperto un fascicolo d’indagine tempo fa

La prima individuazione del malware è infatti avvenuta proprio nel capoluogo partenopeo. Mentre la società Esurv sembra sparita da Internet: se si fa la ricerca sul web compare una pagina con la scritta ‘notfound’ e sulla pagina Facebook c’è la dicitura ‘questo contenuto non e’ al momento disponibile’. Il Copasir, il comitato di controllo sui servizi segreti, approfondirà la vicenda e a quanto si apprende, nei prossimi giorni  chiederà al Dis, il dipartimento che coordina l’attività delle agenzie di intelligence, notizie e aggiornamenti sulla vicenda. Per il garante Privacy Soro, “E’ un fatto gravissimo”.

”Riteniamo – spiegano gli autori della ricerca- che questa piattaforma spyware sia stata sviluppata da una società italiana chiamata eSurv, di Catanzaro, che opera principalmente nel settore della videosorveglianza. Secondo informazioni disponibili pubblicamente sembra che eSurv abbia iniziato a sviluppare spyware dal 2016”. Secondo l’analisi effettuata sul malware, ”Exodus è dotato di ampie capacità di raccolta e di intercettazione. È particolarmente preoccupante che alcune delle modifiche effettuate dallo spyware potrebbero esporre i dispositivi infetti a ulteriori compromissioni o a manomissioni dei dati”.

In seguito alla scoperta, Security without borders ha segnalato a Google la presenza dello spyware, che è stato rimosso in tutte le sue varianti, circa 25. Una volta eliminate dallo store le app, la società americana ha dichiarato in una comunicazione via email che “grazie a modelli di rilevamento avanzati, Google Play Protect sarà ora in grado di rilevare meglio le future varianti di queste applicazioni”.

Al contrario, però, Google non ha condiviso con i ricercatori il numero totale di dispositivi infetti, ma ha confermato che una di queste applicazioni malevole ha raccolto oltre 350 installazioni attraverso il Play Store, mentre altre varianti hanno raccolto poche decine ciascuna, e che tutte le infezioni sono state localizzate in Italia. ”Abbiamo direttamente osservato molteplici copie di Exodus con più di 50 installazioni e possiamo stimare approssimativamente che il numero totale di infezioni ammonti a diverse centinaia, se non un migliaio o più”, si legge nella ricerca.




Opere d’arte, acquistare in sicurezza: arriva “Artist Rating” l’App che rivoluziona il mondo dell’arte

Arte vera o falsa? Come difendersi dai bidoni nell’era della contraffazione? Come difendersi da acquisti d’arte che sembrano una vera occasione e invece il più delle volte sono un bidone, cioè delle opere d’arte vendute come vere a che invece sono contraffatte. Cosa deve fare, insomma, un collezionista o un normale cittadino per non essere truffato?

Il video servizio trasmesso a Officina Stampa del 28/3/2019

Ecco qualche consiglio

1 – Diffidare degli acquisti facili, cioè fatti troppo velocemente, da persone che propongono l’opera come una “occasione da non perdere” a prezzo bassi, inventando vari motivi e scuse: bisogno di soldi immediato per una improvvisa crisi economica, ad esempio.

2 – Tutelarsi: la legge punisce non solo chi vende opere false ma anche chi compra un falso, anche senza accorgersene. Il reato non è ricettazione, che prevede la consapevolezza di comprare un bene oggetto di furto, ma l’acquisto di oggetti o beni di sospetta provenienza, l’incauto acquisto. Si può finire gabbati, quindi, addirittura due volte.

3 – Una volta innamoratisi di un’opera, prima di comprarla è necessario, da parte dell’acquirente, consultare il catalogo dell’autore di quella opera. In questo modo si può capire se il prezzo di vendita è congruo: se è troppo basso rispetto alle quotazioni, allora qualcosa puzza ed è meglio diffidare. Può trattarsi di un falso.

4 – Quasi tutti non sanno che all’atto dell’acquisto di una opera d’arte, il venditore è tenuto per legge, e non per cortesia o su richiesta, o per eccesso di zelo, a fornire insieme all’opera anche una fotografia della stessa opera. La foto, sul retro, deve riportare una dichiarazione di autenticità, di indicazione della provenienza della opera, con la firma del venditore. Foto e dichiarazione possono essere anche distinte ma vanno consegnate entrambe all’atto di acquisto. Di norma questo certificato è attaccato dietro all’opera, nel caso dei quadri, ad esempio.

5 – Devono rilasciare questo certificato tutto coloro che vendono un’opera d’arte: gallerie d’arte, negozi di antiquariato, mercanti d’arte e, a sorpresa, anche gli hobbisti. Anche coloro che incontriamo nei mercatini delle pulci, quelli di paese, che si sono diffusi in maniera esponenziale negli ultimi anni. L’hobbista, infatti, ha sì delle agevolazioni fiscali, cioè non deve rilasciare la ricevuta, ma è tenuto per legge pure lui a consegnare il certificato con foto, dichiarazione di autenticità e sua firma.
6 – Fare il pagamento non in contanti ma con bonifico o assegno circolare non trasferibile; così resta traccia di chi ha venduto e di chi ha acquistato nel caso poi l’opera si riveli un falso o comunque una opera rubata.

7 – Gli acquisti tra amici. In questo caso la trattativa va di norma in fiducia. Chi compra da una persona che conosce non chiede il certificato e paga come vuole. Nessuno dei due amici ha vincoli. Se poi però chi ha comprato in fiducia scopre di essere stato gabbato e di avere in mano un “tarocco” ha meno fonti di prova nel momento in cui decide di denunciare alle autorità l’amico che l’ha preso per i fondelli.

8 – Diffidare o comunque fare molta attenzione agli acquisti online e anche delle televendite di quadri e oggetti d’arte fatte con trasmissioni “gridate”, che tanto vanno di moda. Non è una regola, ma questo tipo vendita presenta aspetti molto insidiosi: è meglio toccare con mano, guardare con i propri occhi. Nel caso si prenda un bidone, poi, è difficile rintracciare i venditori.

Quali opere d’arte vengono contraffatte di più?

La maggior parte sono opere di arte contemporanea, di autori viventi o comunque realizzate nell’arco degli ultimi 70 anni. Il mercato dell’arte contemporanea è molto fiorente: va di moda, tra i nuovi ricchi, comprare opere di questo tipo per abbellire la propria casa, pagandole cifre considerevoli. Ma non tutti i nuovi ricchi, però, conoscono bene la normativa e rischiano il bidone.

Quali opere d’arte vengono contraffatte di meno?

Sembra assurdo ma sono quelle di arte antica, romana, greca. Perché? Perché di pezzi e reperti di questi periodi storici ce ne sono a tonnellate, sono milioni di pezzi. Non serve contraffarli, anche se esiste sempre il “furbetto” che tenta di imitare le vecchie monete e rifilarle al “pollo di passaggio”. Per l’arte antica greca e romana si parla più di traffico di opere vere, soprattutto online: vendute senza problemi sotto gli occhi di tutti i naviganti della rete.

Artist Rating l’App che rivoluziona il mondo dell’arte

La video presentazione della App Artist Rating trasmessa a Officina Stampa del 28/3/2019

E nell’era delle APP è arrivata quella che rivoluziona il mondo dell’arte figurativa. È stata, infatti, messa a punto “Artist Rating”, l’app gratuita grazie alla quale è possibile inquadrare, scattare e con poche semplici informazioni avere la valutazione del quadro che si sta osservando, sia che lo si abbia attaccato alla parete di casa, sia che lo si stia ammirando in una galleria durante una mostra. Pensata dai fondatori del primo sito di servizi per l’arte d’Italia, www.venderequadri.it, Nazzareno Trevisani e Pierluigi Polidori, Artist Rating funziona grazie ad un sofisticato algoritmo elaborato da un team tecnico-scientifico di analisti in collaborazione con critici ed esperti d’arte. Una App perfetta per collezionisti, artisti e curiosi che ambisce a diventare in breve tempo il più grande albo di pittori del mondo.




Trials Rising, enduro, follia e divertimento

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Ubisoft e RedLynx lanciano sul mercato Trials Rising, nuovo capitolo del divertentissimo videogioco che affonda le sue radici nell’ormai lontano 2000, su Pc, Xbox One, Ps4 e Switch. Per chi non lo sapesse, il titolo nasce come un gioco di corse motociclistiche che, nel suo piccolo, ha segnato la nascita di un franchise videoludico forte e apprezzato dai giocatori di tutto il mondo. Pubblicazione dopo pubblicazione, uscita dopo uscita, la serie ha continuato a espandersi fino all’ultimo capitolo, Trials Rising appunto, che rappresenta il culmine di tanti anni di esperienza, di salti, capriole e acrobazie spericolate. Questo nuovo capitolo riesce a unire i generi racing e platform in un mix adrenalinico basato su velocità e abilità. Sia ben chiaro, nonostante la semplicità del gioco, se si vuole diventare degli assi delle gare sarà richiesto al giocatore tanto “allenamento” per imparare a gestire al meglio la fisica delle due ruote, caduta dopo caduta. Insomma, chiunque potrà raggiungere la linea del traguardo, ma soltanto i più tenaci potranno arrivare a fine corsa senza cadere e ottenendo un tempo da record. Pur essendo un gioco in 2.5D in Trial Fusion ci si può muovere solo lungo due direzioni, ma la grafica è comunque tridimensionale. Per quanto riguarda il controllo del mezzo, del peso del pilota e dell’accelerazione attraverso lo stick analogico e dei due tasti dorsali del controller invece, se si vuol gareggiare in modo competitivo, non sono affatto semplici da gestire e prima di padroneggiarli ci vorrà un bel po’ di tempo e tanto, ma tanto impegno. Il comportamento della moto risponde comunque molto bene agli input del giocatore e alla forma del percorso, dando filo da torcere nel riuscire a governare ogni minima variazione dell’assetto. In Trials Rising infatti basta un atterraggio sbagliato, un’impennata esagerata o una frenata troppo brusca per perdere il ritmo o finire a gambe all’aria. Ciò dipende in gran parte dalle sospensioni, che, fra compressioni ed estensioni, si comportano in modo realistico e intuitivo, determinando quanta trazione la ruota posteriore del veicolo riesce a imprimere sul terreno. Spostare nel modo sbagliato il pilota prima di un salto o non allineare bene le ruote quando si tocca terra, porta a rimbalzi e rotazioni orarie o antiorarie quasi impossibili da governare. I movimenti del giocatore devono quindi essere fluidi e adattarsi agli assurdi percorsi ricchi di rampe, ostacoli, scorciatoie, esplosioni, crolli e cambiamenti improvvisi. A livello di gameplay, Trials Rising è senza dubbio un prodotto divertentissimo, capace di sopravvivere senza batter ciglio al trascorrere del tempo: sebbene la formula di base non sia cambiata molto dalla sua prima apparizione ad oggi, il titolo è ancora bello da vedere e spassoso da giocare. A rendere l’esperienza unica e diversa rispetto al passato ci pensano poi valanghe di personalizzazioni, un sistema di aumento del livello con tanto di loot box dove sbloccare personalizzazioni per le moto e per il personaggio, e un comparto multigiocatore ricco e variegato, che non sembra voler lasciare niente al caso. Il vero cuore della proposta ludica targata Ubisoft e Redlynx è rappresentato dalla modalità carriera, adesso ancor più complessa e variegata che mai. Nella prime battute bisognerà lanciarsi a capofitto all’interno di una serie di tracciati da principianti, salvo poi aumentare gradualmente la complessità fino a raggiungere picchi di difficoltà estremi. Il livello di sfida resta lo stesso di sempre, quindi si comincia con tracciati corti e semplici e si finisce con piste assolutamente complesse dove sangue freddo e controllo perfetto sono gli unici alleati per portare a compimento i tracciati. Per i principianti c’è anche una sorta di tutorial, una vera e propria accademia in cui apprendere ogni minimo dettaglio sul mondo di Trials Rising.



Se si è fan della serie e si conoscono già tutte le dinamiche delle due ruote, però, sarà possibile evitare questo percorso introduttivo: l’accademia, infatti, sarà accessibile facilmente dalla mappa di gioco, ma, eccezion fatta per il primo esercizio di presentazione, sarà possibile passare subito alle prove di gara vere e proprie. Una volta affrontate le gare iniziali verrà presentato il primo sponsor, grazie al quale i giocatori si troveranno a competere a fianco di altri piloti in uno stadio approntato per l’occasione. Il funzionamento di tali gare, disponibili soltanto una volta concluse tutte le prove presenti all’interno della regione di riferimento. Le sfide nell’arena prevedono, a differenza delle gare “lisce” diversi gironi di qualificazione da superare prima di arrivare alla finale contro un avversario estremamente ostico da battere. La particolarità di questa tipologia di competizione, riguarda soprattutto la sua modalità di svolgimento: non si scende in pista da soli, ma bisogna affrontare in maniera diretta gli avversari, i quali gareggeranno al fianco di chi sta dinanzi lo schermo su delle piste identiche a quella che si sta per affrontare. Sebbene il funzionamento resta più o meno lo stesso di sempre, in queste circostanze la componente platform, che solitamente domina gli stage, cede leggermente il passo a quella più “competitiva” nel senso tradizionale del termine. Una volta superata la gara finale si potrà avanzare alla regione successiva, dove sfide sempre più complesse metteranno a dura prova le abilità e i nervi dei giocatori. Andando avanti con le competizioni non basterà semplicemente arrivare al termine del tracciato: i contratti con lo sponsor, infatti, richiederanno condizioni particolari per proseguire, come completare il tracciato svolgendo un certo numero di salti mortali, oppure con un numero di errori non superiori a una certa soglia. Al di là della notevole quantità di contenuti, il vero punto di forza di Trials Rising però è rappresentato dalla presenza costante dei “ghost” degli altri giocatori. Un notevole passo avanti rispetto al semplice indicatore presente nei capitoli precedenti, che consente di vedere nel dettaglio cosa si è sbagliato e perché e come i rivali se la sono cavata in una determinata situazione. Come se non bastasse, a invogliare ulteriormente il pilota a rigiocare gli stessi stage più e più volte, ci pensano gli indicatori dei nuovi record: quando qualcuno batte il tempo che si era riusciti a segnare in una pista, il relativo indicatore sulla mappa presenterà una scritta piuttosto evidente e, almeno per i più competitivi, sicuramente troppo invitante per essere ignorata. Procedendo nell’avventura tornano anche le classiche prove abilità, folli e divertenti come sempre che consistono nel raggiungimento di obbiettivi assurdi, come ad esempio il raggiungere una certa distanza rimbalzando su barili esplosivi, o di obbiettivi difficili, come il restare più in piedi possibile lungo un tracciato complicatissimo e pieno di insidie.



In Trials Rising è
anche presente una modalità multigiocatore asincrona. Si può infatti
partecipare a tornei online fino ad otto giocatori, che si danno battaglia in
gare da tre round; la differenza maggiore è data dal fatto che non è possibile
riavviare la partita in ogni momento come invece avviene quando si gareggia da
soli. In ogni caso, più si vince e più in alto si sale di divisione.
All’incirca ogni tre mesi la classifica globale si azzera, però si ottengono
delle ricompense esclusive a seconda del proprio piazzamento. Se invece si
preferisce giocare con i vostri amici in stile scorso millennio, Trials Rising
ha anche la possibilità di giocare in splitscreen che consente fino a quattro
persone di gareggiare sullo stesso percorso e sulla stessa televisione. Tra le
novità maggiori ci sembra doveroso menzionare la modalità Tandem, che, come si
può capire dal nome, mette due piloti alla guida della stessa moto. In tale
tipologia di gioco è esilarante cercare di coordinarsi nel tentativo di
arrivare al traguardo e le situazioni che si verranno a creare saranno
sicuramente oggetto di ore e ore di folli risate. Trials Rising, come dicevamo,
si focalizza anche sulla personalizzazione del proprio pilota virtuale e del
veicolo. Salendo di livello, completando le sfide o spendendo i crediti
ottenuti è possibile ottenere nuovo equipaggiamento. Sono presenti infatti
centinaia di capi di vestiario, pose, emote e pezzi di moto da equipaggiare,
selezionare e montare, a cui poi possono essere applicati svariati adesivi fra
una selezione di circa duemila. Purtroppo sono presenti le microtransazioni,
ma, per fortuna, non sono invadenti e la valuta acquistabile si può anche
ottenere raccogliendo i collezionabili nascosti negli angoli più remoti dei
livelli o vincendo online. A chiudere l’offerta presente in questo nuovo Trials
Rising c’è l’editor dei tracciati. Tale funzione è molto versatile e piena di
elementi da utilizzare nella creazione del proprio livello personale. Gli
oggetti a disposizione provengono anche dai vecchi capitoli della serie, come
Trials Evolution, Trials Fusion e Trials of the Blood Dragon, e possono essere
posizionati liberamente nello scenario fino a creare un percorso che può essere
condiviso con gli altri giocatori. Quindi, divertimento, follia e creatività
sono le caratteristiche che definiscono al meglio questa nuova produzione di
Ubisoft e RedLynx. Dal punto di vista grafico, il 2D e mezzo utilizzato e la
fluidità di gioco rendono l’intera esperienza assolutamente appagante. A questo
poi si affianca un comparto audio fatto di effetti sonori ben realizzati, voci
esilaranti e una colonna sonora assolutamente azzeccata. Quindi sia per l’audio
che per gli effetti visivi il nuovo capitolo della serie è promosso con buoni
voti. Tirando le somme Trials Rising è un titolo che è destinato a un pubblico
che desidera divertirsi, un gioco spensierato che però non rinuncia anche al
lato competitivo, una produzione adatta a tutte le fasce d’età e a qualsiasi
tipo di giocatore. Insomma, un videogame che nonostante non offra chissà quale
enorme innovazione rispetto ai suoi predecessori, è in grado di offrire una
giocabilità pazzesca e un’incredibile dose di adrenalina.

GIUDIZIO GLOBALE:

Grafica: 8,5

Sonoro: 8,5

Gameplay: 9

Longevità: 8

VOTO FINALE: 8,5

Francesco Pellegrino Lise




Cyber security, aziende italiane a rischio

La cyber security è un aspetto da non sottovalutare per chi possiede un’impresa, in quanto proteggere i dati della propria attività è di vitale importanza per la sopravvivenza della stessa. Purtroppo i numeri sul territorio del nostro Paese riguardo gli attacchi informatici sono allarmanti, anche se fortunatamente non siamo i primi in classifica. Più della metà delle aziende italiane, il 55% – il 54% quelle europee – ha dichiarato di aver affrontato almeno un attacco informatico negli ultimi 24 mesi e le conseguenti ricadute sulle loro attività. A darne notizia è un’indagine condotta da Kaspersky Lab. Tra gli effetti più comuni di questi attacchi figurano: interruzione dei servizi (31%), problemi con l’integrità dei dati (18%) e perdita dei dati stessi (15%).

Le organizzazioni di Regno Unito e Spagna – sottolinea la ricerca – sono quelle che si trovano a fronteggiare la maggior parte dei rischi: il 64% degli intervistati, infatti, ha dichiarato di aver avuto esperienza di un attacco informatico negli ultimi due anni.

“In Italia – fanno sapere i ricercatori – il dato sulla cyber security è piuttosto alto, pari al 55%, soprattutto se messo a confronto con la situazione riscontrata in altri paesi, come la Germania (49%) o la Romania (37%)”. Pur potendo contare solitamente su budget per l’Information Technology più consistenti rispetto a quanto viene stanziato dalle piccole e medie imprese, le grandi aziende che hanno dovuto affrontare un cyberattacco sono state pari al 64%, contro il 45% delle Piccole e medie imprese. Inoltre, oltre due terzi (72%) delle organizzazioni europee coinvolte nell’indagine di Kaspersky Lab ha dichiarato di essere in grado di scoprire un’eventuale violazione in otto ore o meno; nonostante questo sono ancora tante, il 25%, le aziende che non riescono ad intervenire nelle prime ore dopo un attacco, semplicemente perché non si rendono conto di averlo subito.

In Italia il 78,1% degli intervistati dichiara tempi di risposta sotto le 8 ore, mentre il 21,1% afferma di non riuscire ad essere altrettanto tempestivo. “I risultati dell’indagine confermano una tendenza che sottolineiamo da diverso tempo: gli attaccanti che riescono a penetrare all’interno di un’organizzazione a volte non lasciano alcuna traccia”, ha commentato Morten Lehn, General Manager Italy di Kaspersky Lab. Investire sulle misure di sicurezza è un aspetto da non sottovalutare se si vuole tutelare la propria impresa, anzi è l’unico modo per poter evitare di subire un danno importante.

F.P.L.




Devil May Cry 5, la saga torna agli antichi fasti

Devil May Cry 5 arriva su Pc, Xbox One e Ps4 dopo ben 5 anni di sviluppo e 11 anni dal lancio del quarto capitolo della serie. Guardando un po’ indietro però è bene ricordare che nel 2001 l’esordio del cacciatore di demoni Dante su Ps2 fu un vero e proprio fulmine a ciel sereno che riuscì a conquistare pubblico e critica come pochi altri titoli hanno saputo fare.

Devil May Cry rivoluzionò il modo di concepire i videogiochi action in terza persona creando un filone completamente nuovo, un sottogenere che faceva della spettacolarità il suo punto di forza, basandosi su combo incredibili e personaggi sempre ben al di sopra delle righe.

Il secondo capitolo della serie rappresentò forse il meno riuscito della saga e fu il primo che vide a figura di  Hideaki Itsuno come director, anche se fu coinvolto solo marginalmente a fine produzione.

Il director giapponese fu messo realmente al timone dell’opera concepita dall’inimitabile Hideki Kamiya dal terzo capitolo della serie, titolo che riuscì a riportare la saga nell’Olimpo degli action games. Col quarto capitolo si decise di introdurre un nuovo compagno per Dante, quel Nero che ancora oggi porta con sé numerose domande e che è presente anche nel nuovo Devil May Cry 5. Poi la serie si bloccò, nuovi personaggi conquistarono il pubblico appassionato di questo genere ed il buon Dante andò momentaneamente in pensione. Capcom decise quindi di optare per un reboot della serie con il DmC di Ninja Theory nel tentativo di avvicinarsi maggiormente ai gusti del pubblico occidentale. Scelta decisamente coraggiosa, ma che riuscì nell’intento di creare una nuova visione del Mondo di Devil May Cry contraddistinta da un gameplay sopraffino, ma che non seppe conquistarsi il favore del grande pubblico, più per le scelte di design nella nuova interpretazione stilistica del figlio di Sparda che per le qualità del gioco. Dopo il remake in HD dei capitoli canonici della saga però, ecco tornare il nuovo titolo della serie e noi siamo qui per analizzarlo. Devil May Cry 5 ha un grande merito: fare pulizia di eventuali congetture, teorie e quant’altro ideate dai fan nel corso degli anni, e dare risposta a diversi degli interrogativi posti negli scorsi capitoli. Il tutto sfruttando sia il fan service esagerato, sia mettendo sulla scacchiera ogni singola pedina fondamentale dei quattro episodi precedenti.



Ma veniamo alla trama: la storia di Devil May Cry 5 riprende qualche tempo dopo gli avvenimenti visti nel quarto capitolo partendo proprio dal protagonista, Nero, intento già dal primo minuto in un’intensa battaglia contro il malvagio demone Urizen, un essere muto ed immobile, ma apparentemente impossibile da scalfire. Nero è affiancato come sempre dal protagonista originale della saga, ossia Dante, il figlio di Sparda e miglior cacciatore di demoni, anche lui messo alle strette dal nemico e in evidente difficoltà. Ai due si affianca un terzo misterioso individuo chiamato V, che proseguendo nella storia aiuterà Nero e Dante nella battaglia contro colui che desidera diventare il Re dei demoni. Da qui in avanti la narrazione della storia procede con dei flashback, facendo fare al giocatore dei salti temporali tra passato e presente per scoprire tutti gli eventi che hanno portato alla distruzione della città, palesemente ispirata a Londra, chi sia la causa della perdita del braccio demoniaco di Nero e svelare l’identità di V e la su storia. Per quanto la trama si regga su abbastanza bene e approfondisca adeguatamente la storia dei tre protagonisti, non si può dire lo stesso dei personaggi che affiancano i tre scaccia demoni: Nico, Lady e Trish. Per quanto riguarda Dante, in questo nuovo capitolo della serie si approfondirà ancora più nel dettaglio la dinamica di odio e amore con il fratello gemello Vergil facendo un giro nei ricordi del protagonista e scoprendo anche qualche piccolo dettaglio in più sulla figura dell’adorata madre. Quindi per i fan di vecchia data, seguire le vicende raccontate in Devil May Cry 5 è di fondamentale importanza per comprendere il passato del tenebroso protagonista della serie. L’unico grosso problema narrativo della produzione Capcom risiede nel finale che già da metà campagna si può intuire nonostante ci sia qualche piacevole sorpresa di contorno e qualche piccolo colpo di scena. Detto ciò, per quanto riguarda il gameplay, Devil May Cry 5 mantiene sempre il suo stile originale, offrendo però tre varianti di stile, una per personaggio. Nero è la perfetta via di mezzo tra accessibilità e tecnicismo che soddisferà la sete di action dando comunque un po’ di filo da torcere per raggiungere il ranking massimo. Ci vorrà qualche minuto prima di riuscire a padroneggiare il Devil Breaker (ossia il nuovo braccio robotico del personaggio), che oltre ad acciuffare i nemici lontani può sparare raggi a distanza, perforare o malmenare a dovere i nemici in base al modello indossato, ed alternarlo con le bocche da fuoco e le immancabili armi bianche. Per quanto riguarda V, egli è il personaggio con cui sarà più semplice realizzare combo in quanto nonostante sia sprovvisto di una particolare forza fisica, può contare sul potere di evocazione di alcuni demoni. Le creature in questione sono tre, due di questi tramite la semplice pressione dei tasti di attacco e sono Griffon, una sorta di uccello demoniaco utile per gli attacchi a distanza e Shadow, un enorme felino mutaforma indispensabile per gli attacchi a ravvicinati e a medio raggio. Tramite l’attivazione del Devil Trigger V evocherà Nightmare, un gigantesco demone/golem che infliggerà in totale autonomia potenti attacchi ai nemici. I demoni evocati non potranno però uccidere da soli i nemici, spetterà infatti a V dare il colpo di grazia ad ogni nemico con il suo inseparabile bastone da passeggio. Per quanto riguarda Dante, invece, il personaggio icona del brand possiede uno stile di combattimento molto tecnico, che oltre a concatenare attacchi ravvicinati e a distanza richiederà una buona conoscenza delle combo e degli stili da intervallare. Diciamo questo perché oltre a poter alternare diverse tipologie di armi, usando Dante si dovrà fare attenzione allo stile da utilizzare con ogni nemico. Gli stili sono quattro, alternabili tramite la croce direzionale, ed ognuno ha una peculiarità ed un movimento specifico (delegato al tasto B). Trickster Style è lo stile dedicato alla velocità di movimento e all’evasione delle mosse, Swordmaster come suggerisce il nome trasformerà Dante in uno spadaccino letale. Le ultime due varianti sono Gunslinger, che concentra tutto sulla potenza delle bocche da fuoco ed in fine Royal Guard, utile per non far sopperire il protagonista sotto i colpi nemici, a cui reagirà con un contrattacco immediato premendo B nel momento giusto. L’utilizzo dei tre personaggi è determinato nella maggioranza dei casi dallo svolgimento della trama, e quindi è il gioco stesso a proporre quello da usare in ciascuna missione, ma ci sono anche momenti in cui la scelta è nelle mani di chi gioca. Inoltre è possibile sfruttare il nuovo sistema di gioco cooperativo chiamato Cameo System: se si gioca connessi online, durante alcune missioni si potrà vedere uno degli altri personaggi combattere al proprio fianco controllato da un altro giocatore in tempo reale, oppure tramite il classico ghost. A fine missione si potrà valutare il compagno virtuale e, se valutato come “Stylish”, lui otterrà una gemma dorata come bonus. Questa è certamente un’introduzione marginale ad un gioco che è e resta assolutamente single player, ma è comunque apprezzabile e che consente di ottenere qualche bonus che non fa mai male. A completare l’offerta c’è poi “Il Vuoto”, ossia una vera e propria modalità allenamento che viene sbloccata dopo aver terminato il gioco almeno una volta, e che si rivela assolutamente utile per padroneggiare gli stili profondamente diversi dei tre protagonisti.



Per quanto riguarda il corposo moveset dei personaggi è bene sottolineare però che le mosse, se non quelle base, saranno tutte da sbloccare. Per farlo bisognerà spendere le classiche anime rosse al “negozio” di Nico, oppure tramite l’ausilio delle storiche statue dorate. Ovviamente sia Nico che le statue danno la possibilità di acquistare potenziamenti e gadget utili a proseguire nei livelli. In ogni caso, nel corso dell’avventura non sarà possibile sbloccare tutte le abilità, visto che il numero di gemme che si potranno raccogliere è inferiore al costo necessario per acquistare tutto. Per poter comprare ogni tecnica, per ogni singolo personaggio, bisognerà completare la campagna più di una volta o pagare con moneta reale nello store dedicato. Come da tradizione Devil May Cry 5 non è il tipico gioco da abbandonare una volta finito, anzi: questo è probabilmente il peggior modo di giocarlo. Completandolo una prima volta (impresa che richiederà circa una dozzina d’ore a difficoltà normale) si sbloccherà infatti il primo livello di difficoltà aggiuntivo per poi sbloccarne altri man mano che si finisce l’avventura. Il nostro consiglio è quello di non commettere l’errore di abbandonare il gioco dopo una sola “run”, anche perché per padroneggiare a fondo tutti e tre i personaggi ci vorrà molto tempo, ce ne vorrà ancora di più per potenziarli al massimo, ma vi assicuriamo che alla fine le combo che si potranno eseguire saranno qualcosa di assolutamente spettacolare e che ripagheranno ampiamente tutto il tempo speso.

Al momento è assente invece il classico Bloody Palace, la modalità Survival che i fan conoscono bene, ma si tratta di un’assenza momentanea in quanto essa verrà aggiunta gratuitamente tramite un aggiornamento pianificato per il mese di aprile. A livello grafico, appena entrati nell’universo di Devil May Cry 5, non si può fare a meno di rimanere a bocca aperta. Per la realizzazione del gioco Capcom si è infatti affidata alle prodezze dello stesso motore grafico utilizzato per Resident Evil. Cut-scene a parte, anche nelle scene più confuse e negli scontri più veloci e accesi le animazioni raggiungono picchi d’eccellenza straordinari. Ovviamente, nonostante l’alto livello grafico e la fluidità in game, Devil May Cry 5 non è perfetto.

La prima parte, ambientata soprattutto nella rocambolesca Red Grave City, è infatti capace di mostrare dei bei panorami, e di sfruttare al meglio il motore grafico. A ribaltare la situazione è la seconda metà dell’avventura che, svolgendosi all’interno dell’enorme albero che ha invaso la città, risulta molto meno piacevole alla vista, oltre che estremamente limitata e dalla struttura sicuramente poco sorprendente. In ogni caso nel complesso ci si trova dinanzi a una produzione “tripla A” e quindi il risultato finale è assolutamente grandioso. A fornire il giusto supporto sia alla maestosità delle location sia alle incredibili battaglie è il comparto sonoro che, con le sue melodie suddivise tra heavy metal puro e sonorità “drum and bass” tipiche della serie, accompagnano con grinta ed enfasi ogni mossa dei protagonisti, rendendo le combo ancora più devastanti e l’atmosfera di gioco adrenalinica.

Tirando le somme, Devil May Cry 5 è un titolo con tutti gli attributi. L’ultima fatica di Capcom è un action game esagerato, spavaldo ed estremamente adrenalinico. Proseguendo nella storia è ben evidente come la trama, seppur importante, sia stata messa in secondo piano rispetto al gameplay. In questo quinto capitolo Hideaki Itsuno ha però voluto puntare molto sui fatti che fanno da sfondo al gioco, regalando una sceneggiatura davvero profonda e interessante, ricca di colpi di scena, capace di dare tante risposte ai fan che le cercavano da tempo e soprattutto in grado di tenere incollati allo schermo dall’inizio alla fine. Tutte le 20 missioni che compongono l’opera hanno qualcosa da dire e lo fanno molto bene, senza mai annoiare accompagnando il giocatore verso un finale ricco di sorprese e confezionato davvero bene. I tanti anni di sviluppo si vedono, e si nota chiaramente la passione messa dal team nella realizzazione di un’opera che, a parere nostro, resta una delle migliori di sempre. Devil May Cry 5 rappresenta ciò che i fan desiderano, un prodotto solido, realizzato con il cuore e che gode di una straordinaria giocabilità. Non giocarlo sarebbe un grave errore.

GIUDIZIO GLOBALE:

Grafica: 9

Gameplay: 10

Sonoro: 9,5

Longevità: 9

VOTO FINALE: 9,5

Francesco Pellegrino Lise




Roma, eSports: il Torneo Open di Fifa 19 1Vs1

Appuntamento per il 24 marzo a Roma per targato “Successful Career Esports”

Appuntamento per il prossimo 24 marzo per il Torneo Open di Fifa 19 1Vs1 targato “Successful Career Esports”. L’evento si terrà a Roma in via Nomentana 1111 presso la prestigiosa Arcade and Food, il primo fast food italiano ambientato totalmente nel modo dei videogiochi anni 80/90.

L’intero torneo è stato studiato per dare la possibilità a tutti di sfidarsi ad armi pari. Infatti, grazie alla fase preliminare del torneo, si potranno confrontare solo player dello stesso livello. Tanti i premi in palio: per il 1° Classificato Champions League una PlayStation 4 O Vr PlayStation 4, per il 2° Classificato Champions League “Dualshock Controller Ps4 + Panino + Bibita”, per il 1° Classificato Europa League un “Buono Amazon del valore di 50 euro”, per il 2° Classifica Europa League una “Psn card da 20 euro + Bibita”, per il 1° Classificato Intertoto “Fifa points e un Panino”, per il 1º Classificato di ogni Girone un panino, mentre gli ultimi classificati di ogni girone avranno un Tesseramento annuale “Successful Career Esports” con premi ed agevolazioni.

Tutti i partecipanti riceveranno un gettone Omaggio per partecipare al nuovissimo gioco targato “Successful Career Esports”. Successful Career è una giovane associazione sportiva dilettantistica, gestita da tre ragazzi, in continua espansione sul territorio. Successful Career fa dei suoi tornei live con la piattaforma PlayStation 4 e il gioco Fifa il suo cavallo di battaglia, vantando già numerosi tornei organizzati, con un numero sempre crescente di partecipanti. cdn/AGIMEG