MARO’, ASSOTUTELA: DIFFIDATO GOVERNO E FARNESINA PER MANCATA ATTUAZIONE SU PROCEDURA TRIBUNALE ARBITRALE

Redazione

“Abbiamo presentato una diffida formale nei confronti del nostro governo italiano e quindi del presidente del Consiglio, del Ministero e del Ministro degli Esteri affinché presenti, come le convenzioni internazionali convenute in sede Onu dettano, la richiesta per l’istituzione di un tribunale arbitrale per risolvere una buona volta questa dolorosa vicenda riguardante i nostri Maro’ Latorre e Girone”. Lo dichiara il presidente di Assotutela Michel Emi Maritato che precisa inoltre: “La diffida è fondata sul fatto che qualora ci fosse una questione internazionale in merito alla giurisdizione da applicarsi in acque internazionali qualora accadano incidenti come quelli che hanno visto interessati i Marò si deve avviare avvia la procedura di nomina del Tribunale Arbitrale – composto da 5 arbitri scelti in seno ad un elenco depositato presso le Nazioni Unite – di fatto investendo le Nazioni unite di un problema che sino ad ora loro stessi avevano glissato.

Lo Stato Italiano, o meglio il Governo, ora dovrà dimostrare all'intera assemblea plenaria delle Nazioni Unite di avere quella giusta credibilità internazionale poiché, in difetto, è inutile dirlo che l'esito della decisione del Tribunale Arbitrale oltre ad avere ripercussioni sulla sorte dei nostri connazionali, porrà in evidenza quanto sia la pochezza dell'Italia a livello di politica estera, visti anche i risultati dell’operazione Mare Nostrum”. “Basta con l'Italietta – chiosa Maritato – siamo una Nazione e non un paese come ci vogliono far credere, non possiamo sempre prestare il fianco o porgere l’altra guancia e soccombere: la vicenda Maro' identifica perfettamente lo status di inciviltà e di arretratezza sociale della nostra governance”. Nel dettaglio dei termini delle diffida entra il legale che ha rappresentato nel ricorso di Assotutela. “Il Governo Italiano nella persona del presidente del Consiglio dei ministri nonché il ministero degli Affari Esteri, nella persona del ministro pro tempore avrebbero dovuto avviare ufficialmente dinanzi al Consiglio delle Nazioni Unite, così come previsto dall’art. 3 di cui all’allegato VII della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (United Nations Convention on the Law of the Sea – UNCLOS, in combinato disposto con gli tabella 287 e 298 citata convenzione, formale richiesta di istituzione di un Tribunale arbitrale costituito ai sensi e per gli effetti dell’art. 3 della tabella VII di cui alla detta UNCLOS – conclude l’avvocato Antonio Petrongolo -. Questo Tribunale arbitrale deve determinare l’applicazione alla questione giurisdizionale oggetto della presente diffida la Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare”.




ELENA CESTE: I VESTITI DELLA DONNA RISULTANO "SENZA TRACCE"

di Simonetta D’Onofrio


Ultime notizie sul caso di Elena Ceste, scomparsa nel nulla dalla sua casa di Costigliole d’Asti da oltre sette mesi, lasciando il marito e i suoi quattro figli, senza alcun avvertimento.
Nei prossimi giorni sarà fornita ufficialmente dagli inquirenti la lista delle persone che saranno indagate.

Tra gli elementi di novità e che dovrebbero essere confermati a breve, ci sarebbe il nome del marito di Elena Ceste, Michele Buoninconti. Inoltre sembrerebbe risolto il rebus sugli indumenti trovati dal marito in concomitanza della loro abitazione. Michele li avrebbe consegnati agli investigatori la mattina della sparizione e sarebbero stati i vestiti lasciati dalla moglie nel giardino. In realtà dai risultati delle analisi emergerebbe un dato sconvolgente, poiché gli indumenti sembrerebbero privi di tracce supplementari come acqua, fango, profumo ed erba. Tutto ciò dimostrerebbe che qualcuno li abbia preventivamente lavati e ne abbia appositamente eliminato qualsiasi segno che possa destare un indizio di colpevolezza.
Sono stati intervistati anche i genitori di Elena, i quali credono ancora alla versione riportata dal genero. Inoltre tra i punti oscuri da chiarire definitivamente ci sarebbero l’utilizzo del telefonino di Elena Ceste e del profilo Facebook, il marito ne avrebbe sempre negato l’accesso. 

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FRANCESCO TAGLIENTE: "LA STORIA LEGA IL PASSATO AL PRESENTE"

di Chiara Rai

Taranto – Esistono dei grandi uomini servitori dello Stato che riescono a suscitare sentimenti di ammirazione e stima da tutti coloro che hanno la fortuna di conoscerli. Ci sono uomini che hanno capito esattamente quali sono i valori della vita e anche come trasmetterli al prossimo. In questo specifico caso parliamo di Francesco Tagliente, già Questore di Firenze, Questore di Roma e Prefetto di Pisa, un uomo che ha avuto a sua volta la fortuna di aver ricevuto un grande insegnamento dall'integrità morale, la grande dignità, il senso del dovere di suo padre Donato Tagliente.  Il prefetto di Taranto Umberto Guidato ha appena consegnato ai familiari di Donato Tagliente, militare che dopo l'8 settembre rifiutò di collaborare con i tedeschi e fu deportato in Germania fino al settembre 1945, la speciale benemerenza del Presidente della Repubblica. La cerimonia ha avuto luogo nel corso di una riunione straordinaria a seduta aperta del Consiglio Comunale di Crispiano in provincia di Taranto, dove l'insignito ha vissuto, convocata dal Sindaco Egidio Ippolito. Lo stesso Comune di Crispiano ha deciso di rendere onore al concittadino Benemerito della Patria, intitolandogli una strada cittadina. Francesco Tagliente ha ringraziato i presenti con delle toccanti parole che di seguito proponiamo:

 

di Francesco Tagliente, già Questore di Firenze, Questore di Roma e Prefetto di Pisa

"Voglio preliminarmente esprimere la mia gratitudine al sig Prefetto di Taranto Umberto Guidato , al Questore Enzo Mangino e ai comandanti provinciali dei Carabinieri Daniele Sirimarco, della Guardia di Finanza Salvatore Paiano e dei Vigili del Fuoco Francesco Notaro per aver onorato, con la loro presenza, la memoria di mio padre. Ringrazio il Sindaco Egidio Ippolito,il Presidente del Consiglio comunale, la Giunta e tutti i consiglieri per i diversi ruoli esercitati per consentire questo momento istituzionale. Ringrazio tutti voi per la presenza e l'intera comunità di Crispiano della quale faccio parte con grande orgoglio.

Questa giornata per me ha un significato particolare.
Quando si è giovani in carriera, può capitare – come è successo a me – che la vita professionale sia caratterizzata da impegni Istituzionali a ritmi accelerati tali da non consentire di riflettere sul valore di quello che hanno fatto i genitori. Chi corre pensando alla meta rischia di non accorgersi delle bellezze che circondano il proprio cammino e di percepire i profumi dei territori in cui vive. Ciò vale anche per il fattore culturale e la diversa sensibilità nel cogliere i messaggi non verbali ricevuti. Se non conosco la storia della Resistenza, i lutti e le ferite della guerra, le atrocità dei campi di sterminio e di lavoro per l'economia di guerra non riesco a rendermi conto di quello che hanno sofferto i deportati.
Mio padre – come molti reduci della deportazione – non amava parlare di quello che aveva sofferto, come se volesse rimuovere o non alimentare l'odio verso il popolo che lo aveva tenuto in quelle condizioni di privazioni inumane. Quando, raccontando della prigionia, diceva "Sie mussen arbeiten" (bisogna lavorare) e "Kartoffelscahalen" ( "Bucce di patate") nei suoi ricordi non faceva trasparire a noi ragazzi la realtà di quel periodo di profonda sofferenza.

Con il passare degli anni sono cambiati sia la percezione del valore delle cose che diceva, sia dei messaggi che ci ha trasmesso.

Sono grato a mio padre per averci trasmesso i suoi valori come il "Senso dello Stato" e lo spirito di servizio, e ancora la determinazione con la consapevolezza che " volere è potere".
Sono fiero di mio padre e del servizio da lui reso alla Nazione durante le 4 campagne di guerra in Libia, Albania, Grecia e Sicilia e nei due anni di atrocità nei campi nazisti in Germania.

La storia lega il passato al presente.

Ci sono cose che insegnano alla vita, e che il tempo non scalfisce: " I valori".




YARA GAMBIRASIO: L'APPROFONDIMENTO DE L'OSSERVATORE D'ITALIA

A cura di Alessandra Kitsune Pilloni, di Sashinka Gorguinpour, di Laura Clemente di S. Luca

Ecco una approfondita analisi degli elementi probatori a carico di Massimo Bossetti. Diverse firme per una attenta analisi e un commento dopo circa 4 anni anni di indagini sulla morte della piccola Yara Gambirasio. 

 

La svolta alle indagini è ancora lontana

di Chiara Rai


Oggi verrà presentata l'istanza di scarcerazione per Massimo Bossetti da parte dei suoi due legali Silvia Gazzetti e Claudio Salvagni. Sappiamo bene che questa può essere anche concessa quando sostanzialmente viene a cessare il pericolo di fuga e la reiterazione del reato. Di fatto senza volerci sostituire alla competenza del pm che valuterà gli atti depositati dai legali, ci limitiamo a constatare che Massimo Bossetti ha trascorso oltre 80 giorni in una cella d’isolamento senza che ci fosse nessuna prova che possa essere considerata “Regina” a sostegno della tesi d’accusa. Ad oggi possiamo asserire che non si conosce il volto dell’assassino di Yara Gambirasio e nonostante ci si attorcigli in voli pindarici per attribuire a Bossetti la piena colpevolezza di un omicidio commesso con l’aggravante della crudeltà, di fatto si è di fronte ad indagini costellate di incertezze.

L’arresto di Massimo Bossetti avviene dopo quasi 4 anni di indagini serrate, in cui la pista dell’esame scientifico è stata quella privilegiata. E’ stato giusto concentrarsi maggiormente su prove scientifiche la cui integrità è opinabile, soprattutto alla luce del fatto che il cadavere di Yara è stato trovato in un campo all’aperto di Chignolo d’Isola in avanzato stato di decomposizione?

Il corpo è stato ritrovato a febbraio del 2011 quando la ragazza è scomparsa il 26 novembre del 2010. Può essere stato spostato, può essere successo di tutto. La bambina è stata riconosciuta solo grazie ai vestiti che indossava e all’apparecchio ai denti.
In tutto questo tempo Bossetti, il muratore di Mapello, non ha mai lasciato la sua casa e i suoi tre figli Nicolas, Alice e Aurora. Contro di lui una traccia di Dna trovato sugli slip della vittima oltre a “coincidenze” ed elementi da considerarsi poco influenti. Insomma di certo sappiamo che Dna di Massimo, 44 anni, padre di tre figli, coincide con quello di "Ignoto uno", e cioè con il presunto assassino della tredicenne Yara Gambirasio. Sembrerebbe che per la Procura il movente dell’omicidio sia di natura sessuale e forse per questo si continua a scavare nella vita privata di Bossetti e nel suo rapporto con la moglie. Ma quali indizi di colpevolezza si cercano? La coppia Bossetti – Coma non ha mai dichiarato di avere problemi ma anche se ci fossero, dove sarebbero le prove per mezzo delle quali si potrebbe narrare la presunta follia omicida di Bossetti?

Da non sottovalutare, è il fatto che dai computer di casa Bossetti sia stato visionato materiale pedopornografico. L’accesso a pedoporno e la ricerca di parole chiave come “tredicenni” certo non volgono a favore del muratore di Mapello ma questo non significa che sia lui l'assassino di Yara.
In Italia migliaia di persone, purtroppo, hanno visionato questo genere di materiale e la polizia postale è continuamente al lavoro per scovare questi malati morbosi che adescano minorenni o scaricano infinità di materiale che le riguarda. Le indagini potrebbero concentrarsi piuttosto su eventuali casi precedenti che vedono coinvolto Bossetti in questa sfera. Ma finora non sembra esserci niente di più di circa cinque visualizzazioni di materiale pedopornografico.

Bossetti frequentava le vie di Brembate di Sopra dove Yara andava a prendere il bus e andava dal dentista. Il furgone Iveco di Bossetti è inquadrato dal benzinaio davanti alla palestra frequentata da Yara. Di fatto la svolta nelle indagini ancora è da ritenersi lontana. Il corpo di Yara è stato soggetto ad intemperie, contatto con animali e quant’altro in quel maledetto campo di Chignolo d’Isola. Si deve cercare l’assassino e non costruirlo. 

 

DNA: la prova scientifica nel processo penale

di Alessandra Kitsune Pilloni

Mai come negli ultimi tempi il DNA è stato al centro della cronaca. Sebbene si sia parlato nei primi giorni di prova regina, fuor di retorica, la questione della prova scientifica, ed in particolare del DNA, nel processo penale, è molto più complessa di quanto comunemente si creda.
Nell’indagine sull’omicidio della piccola Yara Gambirasio, la pista del DNA ha finito per essere l’unica direttrice seguita.
Dopo anni di ricerche si è giunti ad un nome, quello di Massimo Bossetti, il cui DNA coinciderebbe con quello di Ignoto1, fonte del materiale genetico rinvenuto sul corpo di Yara, in un’area “attigua ad uno dei margini recisi” dei leggings e degli slip.
Un nome giunto al culmine di un’indagine per molti aspetti irrituale, che potrebbe rivelare molti colpi di scena.
Se è vero, infatti, che il DNA costituisce un indizio forte, è altrettanto vero che ben difficilmente una singola traccia di DNA, per giunta di natura biologica incerta, potrà essere considerata una prova regina, soprattutto se avulsa da un corollario di indizi univoci che possano confortarne la valenza probatoria.
Un indizio forte, ma insufficiente, da solo, a fare di un uomo un assassino.
Non è certo un caso che dopo l’entusiasmo dei primi giorni, nei quali si ventilò perfino l’ipotesi di una richiesta di giudizio immediato, la realtà abbia rivelato spesso un’indagine che sembra arrancare ed arenarsi su elementi di dubbia rilevanza.
L’inappellabile condanna mediatica potrebbe, in buona sostanza, non rispecchiare una realtà fattuale.
Si è parlato tanto di DNA, ma ciò che in pochi si sono presi la briga di dire all’opinione pubblica è che il DNA, al netto di (pur possibili e concretamente verificatisi, specie in ambito statunitense in cui si fa un grande uso del DNA nei processi) errori di laboratorio, serve unicamente ad identificare un individuo.
Nel caso di Massimo Bossetti, è quasi certo che il test genetico non sarà ripetibile dalla difesa, in quanto è altamente probabile che non vi sia più materiale da estrarre dalla traccia originale, ma anche qualora procedure di estrazione, campionamento ed analisi si rivelassero impeccabili, la questione non sarebbe affatto risolta: una traccia di DNA indica appartenenza, non colpevolezza.
La confusione della probabilità statistica che una traccia di DNA appartenga ad un determinato soggetto con la probabilità che il soggetto sia colpevole è comunemente detta “fallacia dell’accusatore”, espressione che designa una fallacia logica che abbraccia tutti quei casi nei quali una probabilità statistica viene attribuita ad una classe di fatti diversa da quella alla quale si riferisce.
La domanda, dunque, qualora non vi fosse alcuna contestazione di ordine scientifico, sarebbe come il DNA è arrivato nel punto e sul corpo in cui è stato trovato.
Potrebbe sembrare una domanda retorica, ma non lo è: tra i due più evidenti limiti del DNA nell’accertamento processuale vi sono infatti non databilità e facile trasportabilità, due elementi che portano come inquietante corollario la possibilità che la fonte del materiale genetico rinvenuto sulla scena del crimine non sia implicato nel crimine stesso.
Un gran numero di studi scientifici dimostra che il trasferimento secondario di DNA, che si verifica quando il DNA depositato su un elemento o una persona viene trasferito su un altro oggetto o su un’altra persona senza che vi sia stato alcun contatto fisico tra il depositante originale e la superficie finale è ipotesi scientificamente possibile.
In assenza di certezza sull’origine biologica della traccia, si potrebbe perfino ipotizzare che possa avere un’origine tale da facilitare ulteriormente il trasferimento secondario.
Anche qualora la traccia fosse certamente ematica, inoltre, una possibilità di questo tipo non potrebbe essere esclusa.
La nota genetista forense Marina Baldi ha più volte spiegato che in presenza di un’unica traccia di DNA l’ipotesi di un trasferimento secondario verificatosi, ad esempio, attraverso un’arma del delitto precedentemente contaminata è scientificamente possibile.
Viepiù che astrattamente possibili, ipotesi analoghe risultano essere già incluse nella casistica giudiziaria: il criminologo Ezio Denti, ad esempio, ha illustrato un caso concretamente verificatosi in cui il DNA di un uomo fu trovato sul corpo della vittima, uccisa a colpi di cacciavite.
L’uomo al quale era riconducibile il DNA, tuttavia, non era l’assassino: era semplicemente stato ferito in una rissa due giorni prima dell’omicidio con lo stesso cacciavite poi usato come arma del delitto, ed il suo aggressore risultò essere il vero colpevole.
E come nel delitto di dostoevskijana memoria confessò la sua colpa.
In fondo gli antichi, sia pure senza le indagini all’insegna della genetica forense, lo avevano capito meglio di noi, eternandolo nell’annoso brocardo regina est confessio probationum.
La confessione è la regina delle prove.
Il DNA invece, per quanto utile, potrebbe essere spodestato.

 

Gli elementi indiziari: tracce, prove e smentite

di Sashinka Gorguinpour

Nonostante non si sappia granché dell'autopsia, perché anche i risultati di questa sono secretati e nemmeno i familiari hanno potuto accedervi, i pochi elementi a disposizione si possono reperire dall'ordinanza di custodia cautelare a carico di Massimo Bossetti, nella quale si evidenzia che il corpo ed alcuni indumenti di Yara Gambirasio, riportano polveri riconducibili a calce e che nelle scarpe e in alcune sedi dei vestiti sono state repertate delle piccole sfere di ferro-cromo-nichel, i cosiddetti “tondini”. La ragazzina, quindi, deve avere presumibilmente soggiornato in ambienti saturi di tali sostanze o deve essere entrata in contatto con qualcuno che aveva parti anatomiche e/o indumenti imbrattati dalle stesse. Per “parti anatomiche” si intendono con molta probabilità “le mani”. Se così fosse, il fatto di aver colpito la povera Yara con crudeltà, avrebbe necessariamente lasciato delle tracce, dato l’elemento delle parti del corpo e degli indumenti pregni delle sopracitate sostanze. Le polveri sembrerebbero simili ai materiali analizzati nel cantiere di Mapello (quello dove inizialmente si erano concentrate le indagini e dove risiede anche l'accusato), ma non perfettamente corrispondenti. Inoltre, la scarsa quantità del materiale sul corpo di Yara, non ha permesso di stabilirne dei dettagli precisi. E malgrado nel documento della Procura si dica che gli elementi rinvenuti sulla piccola tredicenne non si ritrovino nella stessa forma nei luoghi controllati (casa, palestra, piscina, sterrato vicino al Campo di Chignolo d'Isola), le indagini naturalistiche arrivano a concludere che, con alta probabilità, il corpo sia rimasto nel campo di Chignolo d'Isola dal momento della sua morte, poche ore dopo la sua scomparsa, fino al ritrovamento. A partire da tali elementi si genera il collegamento con Massimo Bossetti che di mestiere fa il carpentiere, quindi lavora nell'edilizia.

Nel periodo in cui Yara scompare, però, Bossetti è impegnato nel cantiere di un altro paese, Palazzago. Per quanto riguarda gli altri elementi indiziari relativi ai reperti, nel corso della vicenda si sono susseguite moltissime notizie discordanti, ma una delle più note riguarda i peli e i capelli ritrovati sul corpo.

Tra le tracce rinvenute, circa 200, vi sarebbero sia peli animali che umani. In data 27 giugno, il direttore del Dipartimento di Medicina Legale di Pavia sembra riferire ad alcuni organi di stampa che i peli e i capelli ritrovati appartengono a Massimo Bossetti. Poco dopo arriva la smentita di colui che realmente stava analizzando i reperti, perché incaricato dalla Procura, seguito più tardi anche dagli inquirenti, i quali fanno sapere che quei peli non sono di Bossetti. Stessa musica per le analisi sul furgone e sull’auto, setacciati con il luminol da cima a fondo: a fine luglio, stando alle fonti della difesa – i cui consulenti avevano svolto l'accertamento a fianco dei RIS -, le conclusioni sentenziano che non esiste alcuna traccia di Yara.

Non è valso nemmeno il tentativo di indagare su un cambio di tappezzeria, perché non ne esiste prova. Il legame di queste “fughe di notizie” è che sono lanciate apparentemente senza criterio e smentite velocemente, facendo diventare così la “verità” un elemento avulso del suo significato. In questo intricarsi di false informazioni, suona difficile capire, analizzare gli elementi e costruire un’idea sul caso. Sia per le tracce pilifere che per gli esiti dei test sui veicoli viene rimarcato il fatto che, in ogni caso, le perizie saranno depositate dopo l’estate, quindi probabilmente siamo vicini all'esito ( settembre/ottobre) e non è una coincidenza che alla luce di tutte queste smentite, la difesa di Massimo Bossetti stia presentando in questi giorni l’Istanza di scarcerazione.

 

Bossetti e quella confessione che non è mai arrivata
 

di Laura Clemente di S. Luca

Dal 16 giugno di quest'anno un nome riecheggia da Trieste a Pantelleria. E' il nome di un uomo come tanti, cittadino italiano, lavoratore e padre di tre figli. Massimo Giuseppe Bossetti, arrestato in diretta tv sul luogo di lavoro, è stato accusato dalla Procura di Bergamo, nella persona del P.M. Letizia Ruggeri, di essere l'assassino di Yara Gambirasio. Il gip di Bergamo Ezia Maccora, tre giorni dopo, ha deciso che Massimo Giuseppe Bossetti doveva rimanere in carcere, pur non convalidandone il fermo perchè insussistente la motivazione del pericolo di fuga, giustificando la sua decisione di trattenerlo vista la "gravità intrinseca del fatto, connotato da efferata violenza". Si legge ancora nell'ordinanza che il G.I.P. prende in esame la personalità del Bossetti, cit. «dimostratosi capace di azioni di tale ferocia, posta in essere nei confronti di una giovane ed inerme adolescente abbandonata in un campo incolto dove per le ferite ed ipotermia ha trovato la morte».La motivazione,che sembra annunciare una sicura condanna, risulta, ad un occhio attento, alquanto bizzarra e discutibile poiché implica una preparazione in materia psichiatrica da parte del G.I.P., che anche laddove fosse, esulerebbe comunque dalle sue funzioni. Dalla sua cella d'isolamento della C.C. di Bergamo l'uomo, però, contrariamente alle pubbliche aspettative, si professa innocente. La tanto attesa confessione non arriva. Per quanto sia pacifico che una delle colonne portanti della nostra Costituzione è la presunzione d'innocenza, secondo la quale un imputato è considerato non colpevole sino a condanna definitiva, e per quanto sia risaputo che l' onere della prova spetta alla pubblica accusa, rappresentata nel processo penale dal pubblico ministero, e quindi, in soldoni, che non è l'imputato a dover dimostrare la sua innocenza, ma è compito degli accusatori dimostrarne la colpa, una cecità medioevale è calata sulla penisola in seguito ad uno dei fatti di cronaca nera più intricati e oscuri degli ultimi anni. Si va incontro alla più grande arrampicata libera sugli specchi del secolo se si pretende di dare una parvenza di credibilità, anche solo indiziaria, ad un eventuale processo, che per inciso sulle prime doveva addirittura essere celebrato per direttissima. Forse gli indizi non erano poi così "gravi, precisi e concordanti" tant'è che per ora il processo si è tenuto solo al livello mediatico. C'è chi ha sfoderato immediatamente la baionetta e chi ha riflettuto abbastanza da capire che la morte di Yara, rimasta un mistero per così tanti anni, rappresenta una ferita talmente profonda da trasformare l'esigenza di trovare un perché e sopratutto un colpevole, la cui cattura metta a dormire i nostri "demoni", in una folle sete di sangue. Oggi, 10 settembre, ci sarà una svolta nel fatto giudiziario più controverso degli ultimi anni. I legali del sig. Bossetti, la dottoressa Silvia Gazzetti ed il dottor Claudio Salvagni rimasti fedeli alla loro linea discreta e mantenutisi al di fuori di ogni battibbecco televisivo, presenteranno l'Istanza di scarcerazione. Non ci sarà dato sapere, nell'immediato, come verrà accolta. Non sappiamo se il sig. Massimo sarà scarcerato perchè prosciolto da ogni accusa a suo carico, se verrà sottoposto al regime degli arresti domiciliari in attesa del processo o se l'istanza verrà respinta e lui rinviato a giudizio. Una cosa è certa, in principio era Alfano e Alfano dovrà rinnovare la nostra Fede liberando nell'etere un nuovo "tweet"…dopotutto si sa "una notizia un po' originale non ha bisogno di alcun giornale come una freccia dall'arco scocca vola veloce di bocca in bocca."

 

La morte di Yara – E' il 26 novembre 2010 quando Yara esce dalla palestra che dista poche centinaia di metri da casa e di lei si perdono le tracce. Tre mesi dopo, il suo corpo viene trovato in un campo abbandonato a Chignolo d’Isola, distante solo una decina di chilometri da casa. L’autopsia svela una ferita alla testa, le coltellate alla schiena, al collo e ai polsi. Nessun colpo mortale: era agonizzante, incapace di chiedere aiuto, ma quando chi l’ha colpita le ha voltato le spalle lei era ancora viva. Il decesso è avvenuto in seguito, quando alle ferite si è aggiunto il freddo.

Un delitto che porta, in pochi giorni, all’arresto di Mohamed Fikri, rilasciato per una traduzione sbagliata. Su di lui si riaccendono i riflettori e cambia ancora la scena: per Fikri cade l’accusa di omicidio e si profila quella di favoreggiamento. Il giudice delle indagini preliminari Ezia Maccora archivia il fascicolo con la prima ipotesi, ma rimanda gli atti al pm di Bergamo Letizia Ruggeri perchè indaghi sulla seconda.
Una mezza vittoria per mamma Maura e papà Fulvio che, attraverso l’avvocato Enrico Pelillo, si erano opposti all’archiviazione. Il gip ricorda che dalle analisi e dagli esami sui vestiti e nei polmoni di Yara c’erano polveri riconducibili a calce, sostanze “simili ai materiali campionati nel cantiere di Mapello”, dove lavorava il tunisino. Inoltre, la zona in cui le celle telefoniche agganciano il cellulare della ragazza, nell’arco di tempo che va dalle 18.30 alle 19, “coprono anche l’area del cantiere, “rendendo plausibile in quel range temporale la presenza di Yara e di Fikri in un territorio circoscritto”. Ma l’operaio non l’ha uccisa.
Due gli elementi che lo scagionano: il suo Dna non corrisponde con quello trovato sugli slip e sui leggings della 13enne, l’analisi delle celle telefoniche dimostrano che il tunisino non è andato nel campo di Chignolo d’Isola, dove la vittima è stata uccisa e abbandonata. Tuttavia secondo il giudice ci sono delle “incongruenze” nelle telefonate di Fikri e “in assenza di una plausibile ricostruzione alternativa”, queste “incongruenze” potrebbero far ritenere che la sera del 26 novembre 2010, l’uomo “ha visto o è venuto a conoscenza di circostanze collegate alla scomparsa e all’ omicidio di Yara “. Per il gip appare verosimile che sia stato spinto a nascondere quello che ha visto, “per proteggere o favorire la persona che ritiene in qualche modo coinvolta nel delitto”. Nei mesi scorsi la sua posizione è stata archiviata e il sospettato numero uno esce di scena. E le indagini proseguono ripartendo dalle analisi genetiche sulle tracce trovate sugli abiti della vittima, circa 18mila i Dna prelevati e analizzati da carabinieri e polizia che lavorano fianco a fianco nell’inchiesta.

Chi è Massimo Bossetti – Originario di Clusone, Massimo Giuseppe Bossetti ha 44 anni, è sposato e ha tre figli. L’uomo, senza precedenti penali, lavora nel settore dell’edilizia ed ha una sorella gemella. Il Dna lasciato sul corpo della vittima sarebbe sovrapponibile a quello di Giuseppe Guerinoni, l’autista di Gorno morto nel 1999 e ritenuto in base all’analisi scientifica il padre dello sconosciuto assassino al 99,9%.
Il profilo genetico del presunto assassino è in parte noto. Per questo era stata riesumata la salma di Giuseppe Guerinoni, morto nel 1999, che secondo gli esami scientifici risulta essere il padre del presunto assassino di Yara. Avere la certezza che l’autista è il padre dell’uomo che ha lasciato il proprio Dna sui vestiti di Yara non risolve il problema: trovare il killer, un presunto figlio illegittimo di cui non c’è traccia. L’ultima conferma sull’analisi scientifica arriva nell’aprile scorso contenuta nella relazione dell’anatomopatologa Cristina Cattaneo, la stessa esperta che aveva eseguito l’esame sulla salma della giovane vittima.

La testimonianza della moglie di Bossetti Marita Coma
"Non è stato Massimo perché era a casa": è questa la frase con cui esordisce difendendo a denti stretti la tesi del marito. Racconta inoltre di questi giorni di prigionia, descrivendo minuziosamente i loro incontri in carcere, sei per l'esattezza. Incontri tristi in cui spesso i discorsi sono stati interrotti dalle lacrime.
Bossetti, secondo i racconti della sua signora, continua a chiedersi il perché di quello che chiama accanimento nei suoi confronti. Altrettanto preciso è stato il racconto del giorno dell'arresto: venti carabinieri che all'improvviso piombano dentro casa ovunque,ma l'unico pensiero in quel momento la tutela dei bambini. Un attacco Marita lo sferra contro le televisioni e i giornali, non d'accordo con le ricostruzioni del profilo psicologico che la stampa in questi giorni ha diffuso riguardo Massimo Bossetti. Per quanto riguarda quel maledetto 26 Novembre 2010 invece, Marita sostiene che nell'ora in cui la piccola veniva uccisa, il marito fosse in casa e sarebbe proprio per questo motivo che continua a gran voce a sostenerne l' innocenza.
 




DELITTO GARLASCO, CHIARA POGGI: IL 22 SETTEMBRE LA CONSEGNA DI RICOSTRUZIONI E PROVE SCIENTIFICHE

di Simonetta D’Onofrio

Garlasco – Nuove prove per scoprire il colpevole dell’omicidio di Garlasco, che ha visto morire, nell’estate di sette anni fa (era il 13 agosto) Chiara Poggi. È quanto si spera di ricavare dall’analisi del DNA estratto dai residui organici prelevati sotto le unghie di Chiara.
In passato dalle mani della ragazza morta erano stati prelevati dei reperti dai quali non era stato possibile estrarre il DNA (si trattava di peli, che però erano privi del bulbo pilifero), mentre stavolta i risultati delle analisi hanno confermato per tre volte lo stesso dato, è stato rilevato un cromosoma Y, che identifica il sesso maschile. Questo significa che il materiale organico sotto le unghie appartiene a un uomo, presumibilmente l’assassino, e che Chiara ha provato a difendersi prima di rimanere esanime. Il giudice ha disposto il prelievo di materiale organico su Alberto Stasi, ex fidanzato della vittima e unico imputato nei due precedenti processi, avvenuto ieri mattina, lunedì 8 settembre.
Altro elemento che promette novità importanti, in vista del processo d’appello bis, è l’esame di due foto, scattate dai Carabinieri, che mostrano il braccio di Alberto, che appare graffiato. Proprio questi graffi, se è vero che Chiara si è difesa con le unghie, diventano un indizio (certamente da confermare con la prova del DNA) contro il ragazzo.
La Corte d’Appello ha disposto, oltre al test del DNA, altri due accertamenti, sulla camminata di Alberto (ricostruita al computer e confrontata col possibile percorso effettuato dall’assassino), e sulla bicicletta nera da donna, che era stata notata la mattina del delitto nei pressi della villetta dei Poggi, ma mai sequestrata perché era stata prelevata in sua vece una bici da uomo bordò.
Le ricostruzioni e le prove scientifiche devono essere consegnate alla Corte entro il 22 settembre, per poterle acquisire alla ripresa delle udienze.

Resta da capire come mai dopo sette anni il DNA dell’unico imputato non sia stato già acquisito agli atti (sebbene fosse stato effettuato un prelievo pochi giorni dopo il delitto), come mai le foto del braccio ferito non siano state prese in considerazione, come mai sia stata sequestrata la bicicletta sbagliata. Ci si chiede se, a sette anni dal delitto, l’analisi della bicicletta, o delle scarpe di Alberto, possano ancora fornire i risultati che sarebbe stato possibile raccogliere subito dopo il delitto.
Altro elemento ignorato nelle prime indagini è stato il contenuto del posacenere ritrovato a casa Poggi, Conteneva della cenere, ma non i mozziconi, come se qualcuno che stava fumando (né Chiara né tantomeno Alberto erano fumatori) avesse prelevato i mozziconi, poiché questi avrebbero potuto rappresentare una traccia per le indagini.
Si attende con grande attesa il risultato del DNA su Stasi, e gli altri accertamenti predisposti potranno fornire una prova quasi definitiva sulla sua innocenza o colpevolezza.
 

L’omicidio
Il 13 agosto del 2007 Alberto Stasi, studente di Economia e Commercio alla Bocconi, prova a prendere contatto telefonicamente la fidanzata Chiara Poggi, con la quale aveva trascorso la sera precedente, mangiando due pizze, prima di tornare a casa, perché in quel periodo Alberto stava preparando la tesi di laurea.
Verso le 13.30 si reca a casa della fidanzata, non ricevendo risposta al citofono decide di scavalcare il cancello. Arrivato sulla porta di casa, decide di entrare, e trova molto sangue a terra, seguendo le tracce verso la tavernetta trova il corpo di Chiara.
Chiama subito i soccorsi, e si reca nella vicina caserma dei Carabinieri, che distano pochi metri dalla villetta dei Poggi.
Chiara è morta per una decina di colpi violenti inferti con un’arma appuntita, che non sarà mai ritrovata, tra le 9 e le 12 di mattina (l’orario preciso non sarà mai stabilito). Nella villetta le uniche tracce presenti sono quelle di Chiara, dei suoi familiari, di Alberto e di un falegname che aveva fatto dei lavori pochi giorni prima della morte (oltre alle tracce dei soccorritori chiamati da Stasi).
Le indagini si concentrarono sull’ex fidanzato. Hanno destato sospetto l’atteggiamento dopo il ritrovamento del cadavere (sembra che il tono di voce di Stasi quando chiamò il 118 era troppo “rilassato”), le tracce del DNA di Chiara sulla bici di Alberto, la mancanza di sangue sotto le sue scarpe, nonostante il pavimento della casa fosse pieno.
Alberto Stasi venne arrestato il 24 settembre, ma la scarsità d’indizi certi convinse il GIP a scarcerarlo dopo quattro giorni. Nelle indagini successive (dicembre 2007) viene trovato nel computer di Stasi materiale pedopornografico, elemento che ha contribuito a minare l’immagine del fidanzato di Chiara nell’opinione pubblica. Il 3 novembre 2008 Alberto Stati viene rinviato a giudizio per l’omicidio di Chiara Poggi.
 

Il processo
Il 9 aprile 2009 nel Tribunale di Vigevano si apre il dibattimento, unico imputato Stasi. Per l’accusa Chiara aveva scoperto il materiale pornografico sul computer di lui, e per questo motivo i due hanno avuto una discussione. La mattina successiva Alberto è tornato per cercare di convincere Chiara a tornare sulle sue decisioni, e al rifiuto di lei ha perso la testa e l’ha colpita.
Il 30 aprile il Gup ha chiesto un rinvio disponendo quattro nuove perizie (depositate tra il mese di settembre e ottobre), che sostanzialmente smentiscono le tesi dell’accusa, per cui il 17 dicembre 2009 Stati viene assolto per insufficienza di prove.
L’8 novembre 2011 inizia il processo di appello. L’accusa chiede due nuove perizie, una su un capello trovato nelle mani di Chiara, ma dal quale non è stato possibile estrarre un DNA valido, e una sulla bicicletta presente nel garage di Stasi, che corrisponde alla descrizione fornita da una testimone su una bicicletta da donna presente la mattina dell’omicidio fuori dalla villetta dei Poggi.
Viene chiesto anche di rianalizzare il PC di Stasi, e le scarpe che l’imputato indossava il giorno della morte di Chiara. Le nuove accuse non convincono però la giuria, e il 6 dicembre viene pronunciata una nuova sentenza di assoluzione.
In seguito al ricorso dell’accusa il caso arriva in Cassazione, che nell’ottobre 2013 ha rinviato il processo alla Corte d’Appello, per un nuovo processo iniziato ad aprile 2014, e che è stato rinviato per le verifiche di cui abbiamo dato notizia al prossimo 22 settembre.

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BURUNDI: TRE MISSIONARIE ITALIANE VIOLENTATE E UCCISE

di Maurizio Costa

Dopo il ritrovamento dei corpi delle due suore missionarie, uccise domenica pomeriggio, un’altra suora è da annoverare tra le vittime della strage che ha colpito un convento di saveriane italiane in Burundi. Bernardette Boggian è il nome dell’ultima suora crudelmente assassinata e violentata da uno squilibrato, forse la stessa persona che ha ucciso anche Olga Raschietti e Lucia Pulici il giorno prima, sempre con lo stesso metodo: prima la violenza sessuale e successivamente lo sgozzamento.
La tragedia è avvenuta a Kamenge, periferia nord della capitale Bujumbura. Secondo la polizia locale, le suore sarebbero state violentate e uccise, ma la cosa sconvolgente è che una sorella sarebbe stata anche decapitata e colpita ripetutamente in faccia con una pietra.
I motivi di questa violenza sono ancora ignoti. Potrebbe trattarsi di un tentativo di rapina andato per il verso sbagliato, ma le autorità hanno dichiarato che nel convento non sarebbe stato rubato nulla. In questo caso si tratterebbe solamente di un gesto di follia di una persona del luogo che, armata di coltello, ha ucciso le tre saveriane senza pietà.
Godefroid Benzemana, direttore della polizia del Burundi, ha rilasciato un’intervista all’Agenzia France Presse, sostenendo che “l’assassino ha sgozzato le suore e si è accanito su una di esse a colpi di pietra. Dopo le prime indagini il furto non sembra essere all’origine del delitto. Siamo alla ricerca da ore di quest’uomo che comunque è stato identificato”.
Olga e Lucia sono state uccise domenica pomeriggio intorno alle 16. La notte stessa, suor Bernardette, che aveva trovato le due consorelle morte in convento, è stata violentata e uccisa allo stesso modo di Olga e Lucia. La porta di Bernardette era aperta la notte del suo assassinio; questo perché, dopo la tragedia del giorno prima, le suore si sentivano al sicuro vista la forte presenza di polizia all’esterno del convento. Ma questa precauzione non ha evitato la morte di un’altra persona.
Il Ministro degli Esteri, Federica Mogherini, ha commentato la strage: “Ancora una volta assistiamo al sacrificio di chi, con dedizione totale, ha passato la propria vita ad alleviare le troppe sofferenze che ancora esistono nel continente africano. Attendiamo ora che le autorità del Burundi chiariscano quanto accaduto e ci adopereremo per riportare in Italia quanto prima le salme delle religiose.”
Anche il Papa ha espresso il suo cordoglio dopo la strage del Burundi: “Sono profondamente colpito dalla tragica morte delle suore. Il sangue versato diventi seme di speranza per costruire l’autentica fraternità tra i popoli.”
La missione in Burundi delle suore saveriane è cominciata nel lontano 1961, partendo da un piccola comunità ed espandendosi fino ad oggi. Le sorelle si occupano principalmente di assistenza sanitaria, di maternità e di cure ai lebbrosi.




FORTUNA LOFFREDO: LA BIMBA CADUTA DAL SESTO PIANO AVEVA SUBITO VIOLENZE

di Silvio Rossi

Caivano (NA) – Chicca è morta per un incidente o è stata uccisa da qualcuno? Questa è la domanda che risuona a “Parco Verde”, un quartiere di case popolari costruito a Caivano negli anni Ottanta, per ospitare i terremotati dell’Irpinia.
Fortuna Loffredo, per tutti Chicca, la bambina, sei anni, è precipitata il 24 giugno da un balcone del palazzo, dove abitava con la mamma e i nonni paterni (il padre è detenuto a Poggioreale per traffico di CD contraffatti). Inizialmente si è pensato a un incidente domestico, la bambina sarebbe stata lasciata da sola sul balcone al sesto piano, e per qualche motivo sarebbe caduta dallo stesso, morendo durante il trasporto all’ospedale.
Le indagini dei procuratori Federico Bisceglia e Claudia Maone hanno portato a scoprire alcuni aspetti inquietanti nella tragica vicenda. Gli accertamenti autoptici hanno confermato le ipotesi degli inquirenti. Chicca aveva subito violenze, probabilmente ripetute, e forse la caduta dal balcone potrebbe essere stata solo una montatura.
Anche la madre, nella trasmissione di Rete4 “Quarto Grado”, ha confermato la possibilità che le violenze fossero subite dalla bambina da qualche tempo. Ha raccontato come la figlia si lamentava di bruciori nelle parti intime, ne parlò con la pediatra che le prescrisse dei detergenti. Forse quando la cosa successe, non pensò che le lamentele di sua figlia potessero nascondere una verità così atroce, ma dopo ciò che è avvenuto il 24 giugno, non può certo essere escluso che i fastidi della piccola nascondessero una realtà così drammatica.
La storia
Il 24 giugno, verso le 11 del mattino, Chicca con la mamma Maddalena stanno tornando a casa dalla terapia che la bambina stava seguendo per un difetto all’udito. Quando sono arrivate al sesto piano del palazzo, dove si trova il loro appartamento, la bambina si separa dalla mamma per andare a giocare da Dora, la sua amichetta del cuore, che abita al piano superiore.
La mamma di Dora non ha fatto entrare la bambina, dicendole che stava lavando i pavimenti. Dopo pochi minuti le urla dei passanti hanno destato l’attenzione di tutti, il corpo di Chicca era a terra, a pancia in giù, agonizzante. Un vicino di casa ha preso la piccola, in un disperato tentativo di portarla all’ospedale San Giovanni di Dio di Frattamaggiore, dove però giungerà morta.
In un primo momento si è pensato a una disgrazia, ma la mamma ha subito pensato che qualcuno le avesse fatto del male, chiedendo giustizia per la figlia.
I funerali
Il 5 luglio, nella parrocchia San Paolo Apostolo, alla presenza di circa seicento persone, Maurizio Patriciello, il prete conosciuto per le sue denunce contro il traffico di rifiuti tossici nell’area a nord di Napoli, ha celebrato i funerali di Chicca. E tra i primi il sacerdote ha parlato delle strane circostanze in cui si è svolta la vicenda. Le sue parole durante l’omelia, «Ci mettiamo nelle mani di Dio, ma si tratta di un caso molto strano, nel quale tante cose non tornano. Chi sa deve parlare, davanti a Dio e agli uomini. La madre di questa bambina chiede giustizia e la giustizia deve dare risposte», lasciavano intuire ciò che in seguito è stato confermato: Fortuna non è morta per un incidente.
Le indagini
Stabilire la verità nella vicenda non è semplice. Nessuno ha visto cadere il corpo di Chicca dall’alto, qualcuno ha sentito un tonfo, ma non è facile determinare da quale punto il corpo della bambina sia precipitato.
Le reticenze dei residenti non hanno certo aiutato le indagini nei primi giorni, ma qualche elemento poco chiaro (a terra nel punto dove è stata trovata Chicca non c’erano tracce di sangue) ha fatto in modo che i procuratori hanno iniziato a raccogliere gli elementi che hanno portato ad aprire un fascicolo per omicidio e per violenza sessuale, a carico di ignoti.
Il punto di svolta è rappresentato dai risultati dell’autopsia. La conferma della violenza sessuale subita dalla minore prima di morire ha convinto gli inquirenti ad approfondire le indagini, in seguito sono stati analizzati gli abiti della bambina, per trovare eventuali tracce dell’omicida. La famiglia ha chiesto che venissero utilizzati i moderni sistemi d’indagine che hanno portato a scoprire la verità (o perlomeno quella che a oggi viene ritenuta come la più probabile, in attesa del processo) nel caso di Yara Gambirasio.
Data l’assenza di testimoni, le tracce biologiche possono diventare determinanti per la possibile soluzione del caso, partendo proprio dagli appartamenti del terzo isolato del Parco Verde.
I precedenti
Sono altri due i casi di bambini precipitati nello stesso quartiere di Chicca. Lo scorso anno, il 27 aprile del 2013, un bambino di tre anni, fratello minore di Dora, proprio l’amichetta che Fortuna è andata a trovare prima di morire, è precipitato dallo stesso palazzo. Troppe coincidenze rendono i due casi legati tra loro.
Quando hanno trovato a terra Chicca aveva solo una scarpetta al piede, lo scorso anno anche il piccolo Antonio è stato trovato al suolo con una sola scarpetta. Si sospetta che l’eventuale serial killer le abbia trattenute come macabro trofeo.
Un terzo caso ha interessato lo stesso isolato nove anni fa. Anche in quel caso un bambino di otto anni, Andrea, perde la vita nel “palazzo maledetto”. Si cerca ora di acquisire maggiori informazioni sulle due morti precedenti, per verificare se fossero stato il risultato di incidenti, o se un orco abbia avuto nei loro confronti le stesse attenzioni riservate alla sfortunata bambina.
Il Parco Verde
Il complesso di palazzi dove è successa la tragedia di Chicca è una delle tante piccole “Scampia” che popolano la zona a nord di Napoli.
Così come per Casacelle a Giuliano, per il quartiere Chiaiano a Marano, per via Rossini a Frattamaggiore, i quartieri di case popolari dei centri che circondano il capoluogo campano sono territori frequentati da spacciatori, in cui la polizia ha difficoltà a entrare.
Negli anni scorsi il quartiere di Caivano è balzato agli onori della cronaca per la determinazione di due persone: Maurizio Patriciello, il prete che combatte da anni contro il traffico di rifiuti che ha devastato la “terra dei fuochi”, e la preside della scuola media, Eugenia Canfora, che per combattere l’evasione scolastica va a suonare a casa dei ragazzi più riottosi a seguire le lezioni.




YARA GAMBIRASIO: BOSSETTI NON ERA IN CANTIERE IL 26 NOVEMBRE 2010

di Simonetta D'Onofrio

Nuovi sviluppi sul caso di Yara Gambirasio, la tredicenne di Brembate Sopra rapita il 26 novembre 2010 e ritrovata morta in un campo tre mesi dopo. Secondo quanto riferito nel programma “Quarto Grado”, Massimo Bonetti, ancora in carcere, accusato del delitto della ragazzina tredicenne avrebbe richiesto di sottoporsi al test con la macchina della verità, strumento dotato di meccanismo capace di misurare e registrare diverse caratteristiche fisiologiche durante i quesiti sottoposti a chi vi si sottopone. Perplessità nascono per la richiesta fatta da Bonetti. C’è da chiedersi quanto valore possa avere il test poiché, a tutt’oggi, non è riconosciuto come prova scientifica, dato che dai risultati non si evincerebbero dati oggettivi che confermino le variazioni subite durante le rilevazioni dei valori della pressione del sangue, del polso arterioso e della respirazione di un individuo utilizzando il poligrafo.

Inoltre gli inquirenti non avrebbero conferma sulla presenza del carpentiere di Mapello in cantiere il 26 novembre 2010. Altra novità riportata sarebbe la presenza di tracce di sangue nel furgone del Bossetti, a lui appartenenti. Finora Massimo Bossetti si è sempre ritenuto innocente. Il muratore di Mapello, in carcere a Bergamo ha scoperto da pochi mesi di non essere il figlio naturale di Giovanni Bossetti, l’uomo che l’ha cresciuto accanto alla madre Ester Arzuffi. Da quanto emerso dal test del DNA invece Massimo Bossetti sarebbe nato dalla relazione extra-matrimoniale di Guerinoni, autista di Gorno con la signora Ester Arzuffi.

Un avvocato vicentino ha inoltre presentato una dichiarazione di un testimone (che resta segreto) che confermerebbe l’ipotesi secondo la quale l’omicidio di Yara sia stato una vendetta contro il padre, geometra, per un torto compiuto nell’ambiente lavorativo. Di questa testimonianza, però, venuta alla luce un mese dopo l’arresto di Bossetti, non si conoscono ancora eventuali sviluppi.

La storia
Il 26 novembre 2010 una ragazza tredicenne di Brembate di Sopra, paese del bergamasco non fa ritorno a casa dalla palestra, dove frequentava i corsi di ginnastica ritmica. Le ricerche hanno interessato la zona circostante, ma di Yara nessuna traccia.
Il cadavere di Yara Gambirasio, ritrovato il 28 febbraio 2011 in via Bedeschi a Chignolo d'Isola, che dista da Brembate circa 10 km, pone fine alla lunga attesa della famiglia di circa tre mesi.
Il corpo è stato scoperto in un avanzato stato di decomposizione e alcune tracce lasciate sul corpo dal killer hanno permesso nei giorni successivi di isolare alcune tracce di DNA, Inizialmente fu accusato Mohammed Fikri, l'operaio marocchino inizialmente incarcerato dopo la scomparsa di Yara Gambirasio, ma subito dopo scagionato completamente per le accuse rivoltogli.
Le indagini

Massimo Bonetti, operaio edile ancora in carcere ha 43 anni, è sposato, padre di tre figli è stato incastrato dal test del DNA compatibile con le tracce lasciate sul corpo della ragazzina. A lui si è giunti dopo una lunghissima verifica di DNA su migliaia di persone. Gli inquirenti hanno trovato delle compatibilità genetiche con Domenico Guerinoni, un ragazzo che era stato sottoposto allo screening in una discoteca della zona. Hanno quindi verificato tutto il ceppo familiare, compresi alcuni parenti defunti. Riesumando il cadavere di Giuseppe Guerinoni, si è scoperto che il suo DNA era compatibile con i resti trovati su Yara. Non potendo essere stato lui, morto nel 1999, l’attenzione si è rivolta prima sui figli, poi, visto l’esito negativo, sulla possibilità che avesse qualche figlio illegittimo.
Non potendo dare il nome all’assassino, gli inquirenti hanno continuato a cercare tra le possibili frequentazioni dell’uomo “ignoto 1”, così com’è stato ribattezzato il possibile figlio illegittimo dell’autista. Dopo aver sottoposto a test circa 500 donne che hanno avuto almeno un contatto col Guerinoni (comprese le passeggere del bus che l’autista guidava e le ragazze madri della zona), il Maresciallo dei Carabinieri Giovanni Mocerino raccoglie la confidenza di un collega del Guerinoni che gli ha raccontato che lo stesso aveva una tresca con Ester Arzuffi, sua vicina di casa.
Il test del DNA effettuato sulla pensionata di Mapello ha dimostrato che era lei la madre di “ignoto 1”, per cui le attenzioni sono state rivolte su Massimo Bossetti, fermato con una scusa, e sottoposto all’alcool test, dal quale hanno prelevato tracce di saliva, il muratore è stato arrestato con l’accusa di essere l’assassino di Yara.

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CHIARA POGGI, DELITTO GARLASCO: TRACCE DI UN UOMO SOTTO LE UNGHIE DI CHIARA

Redazione

Garlasco – Quando si pensava ad una calma piatta ecco un nuovo colpo di scena nelle indagini per l'omicidio di Chiara Poggi, la giovane uccisa a Garlasco (Pavia) nel 2007. Su due margini delle unghie della ragazza sono state trovate tracce del cromosoma maschile Y. La scoperta, secondo quanto anticipato dall'agenzia Ansa, è stata fatta dopo gli esami disposti nel processo d'appello bis a carico di Alberto Stasi. Ora si dovrà stabilire se le tracce sono leggibili per poi confrontarle con il Dna di Stasi. Sarebbe invece rimasto senza esito l'esame per ricavare il Dna mitocondriale dal bulbo e dal fusto di un capello corto castano chiaro trovato nel palmo della mano sinistra della ragazza. La svolta potrebbe arrivare quindi dai risultati, ritenuti dagli inquirenti molto significativi, delle prime analisi dei margini delle unghie. Gli esperti, dopo aver estratto da quei piccoli pezzi di materiale sufficiente per le analisi, sono riusciti a individuare tracce di cromosoma Y (la procedura è stata effettuata tre volte e ha dato lo stesso esito). 

Ora, come prevede il protocollo, i periti dei giudici e i consulenti di parte dovranno valutare nel contraddittorio se quelle tracce sono leggibili distintamente. E se così fosse, dovranno procedere per il confronto con il cromosoma Y del Dna di Stasi. Comunque sia, questi accertamenti dovrebbero restringere il campo stabilendo che a uccidere Chiara, che si sarebbe anche difesa, è stato un uomo.

Potrebbe invece essere chiesto di posticipare, rispetto ai tempi fissati dalla Corte, la consegna dei risultati del cosiddetto esame della camminata con il quale si sta riproducendo, nei limiti del possibile, quella che fece Stasi quando scoprì il cadavere della fidanzata. Esame che ha lo scopo di capire come mai sulle suole delle scarpe indossate quel giorno dall'ex studente bocconiano, e consegnate agli inquirenti la mattina dopo il delitto, non è stata trovata alcuna traccia di sangue.

 Intanto il sostituto pg di Milano Laura Barbaini, il rappresentante dell'accusa, a luglio ha delegato i carabinieri di Vigevano e il Gico della Gdf, per svolgere indagini supplementari. Convocati una serie di testimoni, tra cui l'amico fraterno di Stasi, Alberto Panzarasa (avrebbe risposto con parecchi non ricordo spiegando che sono trascorsi sette anni). Effettuati accertamenti anche sulla bici nera da donna degli Stasi, mai sequestrata durante l'inchiesta della Procura di Vigevano, e ora acquisita dalla Corte d'Assise d'Appello.

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LUIGI BONAVENTURA: DALLA 'NDRANGHETA CROTONESE PASSA DALLA PARTE DELLA GIUSTIZIA

di Simonetta D’Onofrio

La mafia è un fenomeno complesso, le cui dinamiche si sono trasformate nel tempo. Le associazioni criminali hanno modificato il loro modo di operare, e hanno esteso il loro bacino d’influenza, tanto da non poter più identificare la singola organizzazione con la regione di appartenenza. Il raggio d’azione di mafia, ’ndrangheta o della camorra ha raggiunto e superato le regioni dell’Italia settentrionale, arrivando a colpire con azioni clamorose anche all’estero.
Ma non si può circoscrivere il pensiero sulle mafie solamente alle azioni malavitose, non dobbiamo limitarci a pensare il mafioso come appare in film come “Il Padrino”, o nella serie “La Piovra”. Oggi la mafia ha esteso il suo controllo nelle operazioni finanziarie, nella politica e negli ambienti societari che sembrano apparentemente meno legati al modus operandi degli “uomini d’onore”.

Anche il pentitismo ha dovuto evolversi, perché la società è cambiata rispetto ai tempi di Tommaso Buscetta, che tra i primi, negli anni Ottanta, ha svelato al giudice Falcone molte attività delle famiglie della “cupola”. Oggi i mass-media hanno azzerato le distanze, hanno creato una piazza virtuale su cui anche chi vuole far comprendere i motivi di una scelta certamente difficile, perché ritenuta infamante da quanti fino al giorno prima erano più vicini al pentito, cerca di far sentire la propria “voce”.
È questo il caso di Luigi Bonaventura, una volta esponente di spicco di una delle famiglie più note della ‘ndrangheta crotonese, che ha deciso di tagliare i ponti col passato, dissociandosi da una rete di amicizie, parentele e legami appartenenti alla ‘ndrangheta.
A suo favore è stata lanciata in Rete una petizione https://www.change.org/p/protezione-per-il-collaboratore-di-giustizia-luigi-bonaventura, che ha raccolto in poco tempo oltre 18.000 firme, adesioni a testimonianza del ruolo importante che ha avuto per la lotta alla mafia. Bonaventura ha deciso definitivamente di “cambiare vita” e con le sue confessioni e dichiarazioni ha permesso alle Procure d’Italia di stanare diversi intrecci presenti all’interno di una piaga come la mafia.
Con la raccolta delle firme si vuole sensibilizzare la società civile, la politica e le figure decisionali di questo Paese che un pentito e collaboratore di giustizia attivo deve avere alcune garanzie fondamentali per l’incolumità della sua vita. Infatti, per un pentito di primo piano come Bonaventura ci sono delle accortezze che dovrebbero essere sostenute e garantite in qualsiasi momento, perché è sempre suscettibile ad attacchi e vendette trasversali. Proprio per questo abbiamo intervistato il collaboratore di Giustizia, Luigi Bonaventura, per raccontarci la sua storia di pentito.

Com’è nata la petizione? Perché questa decisione?

La petizione è nata per dare voci a quanti sono nella mia stessa condizione e che non hanno trovato o avuto la possibilità di esternare i propri problemi, anche gestionali, che purtroppo subentrano durante un programma di protezione. Un’evoluzione che, passo dopo passo, si è trasformata, un'idea verso la ricerca di un cambiamento politico che può avvenire anche tramite una domanda semplice rivolta alla comunità digitale.
Anche in quest’ambito, purtroppo c’è il rovescio della medaglia, se così si può dire. Infatti, sono diverse le personalità e le peculiarità che intervengono all’interno di un programma di protezione. Anche in un’organizzazione criminale, troviamo i rubagalline, quelle stesse persone che all’interno della malavita, lavorando con la mafia e che con gli affari sporchi fatti con loro non avrebbero mai raggiunto uno” stato di benessere”, come quello che oggi lo Stato gli riconosce, con i diritti di legge, anche per la famiglia. Non è una cosa marginale questa differenza. Anche tra i pentiti ci sono quelli che giocano in serie A, in B e nelle divisioni regionali…C’è una bella differenza se un pentito aveva avuto nel suo passato un ruolo primario nell’’ndrangheta. Purtroppo, in questo caso raccoglie gente che ha fatto arrestare solo ladri di gallina, non c’è un giusto rapporto di equiparazione. La società questo lo deve capire…Oltretutto si va avanti su questa strada, anche se per combattere veramente la lotta alla mafia.
Diciamolo chiaramente, ancora oggi ci sono ancora tante, forse troppe che non vogliono estirpare la mafia. Non sono solo i mafiosi e i collusi a farla rimanere attiva. La mafia, come la intendo io, è una società per azioni, “La mafia S.p.A.”. Ognuno ci naviga dentro, in quest’azienda, grande e redditizia e, secondo delle azioni che si posseggono, c i si arricchisce abbastanza.

Quindi la mafia non si sconfiggerà mai? E’ solo un’utopia?

Non disco questo. Le parole di Falcone bisogna ripeterle sempre, in ogni momento. Lui lo diceva chiaramente: “ogni fenomeno umano è destinato a nascere e a morire”. L’utopia, poi, come parola la considero deleteria, penso che ogni volta che si pronunci non si desideri intenzionalmente far nulla. Per la specie umana nulla è impossibile, quindi anche la mafia può essere sconfitta. Siamo arrivati oggi, nel 2014 a un punto di non ritorno, paradossalmente se stiamo così ora, è ancora per questo motivo. Per sconfiggerla in Italia si dovrebbe raggiungere un picco massimo, considerare un’emergenza esponenziale, allora sì che qualcuno sarà costretto veramente a intervenire.


Parlare di mafia circoscritta al sud è ormai una definizione anacronistica. Tutte le mafie sono così diffuse nel territorio italiano?

In linea di massima sì, non si tratta di un fenomeno di questi ultimi anni. Se vogliamo fare una distinzione, possiamo considerare solo “Cosa nostra” diversa dalle altre, di tipo federalista, presente nella Sicilia occidentale…
Oggi la politica, in particolare, si stupisce se si afferma che la mafia nel Nord sia molto fluida, ma sono quarant’anni che esiste là, non è un anno, sono tanti anni che è radicata nel Settentrione. Anzi si è internazionalizzata. Come non ricordare la strage di Duisburg, quelli che venivano dalla faida di S. Luca. La strage di Ferragosto in Germania avvenuta il 15 agosto 2007, è un fatto unico, non solo perché è avvenuto davanti a un ristorante italiano “Da Bruno”, ma è stato un atto che di legittimazione della ‘ndrangheta europea. Anche se c’è stata una risposta mediatica da parte dei media, anche allora alcuni apparati deviati preferirono ridimensionare l’accaduto.
 

Ritorniamo alla petizione in suo favore. In questo momento in Italia c’è tanta crisi, il lavoro che non c’è, le famiglie indebitate, le aziende che chiudono giornalmente. Una piaga diffusa. Che senso ha mobilitarsi a favore di un pentito?

La gente si dovrebbe mobilitare per quello in cui crede realmente, ognuno deve lottare per il proprio settore. Io non chiedo soldi, aumento di stipendio, cose in più. Proteggere un ex-mafioso, significa anche agire sull’economia, un “valore aggiunto” al sistema paese. Intervenire direttamente in alcuni campi “comprometterebbe” positivamente il sistema-paese. Io attualmente prendo dallo Stato circa 1.500 euro al mese, ma sono tutti giustificati questi soldi. Consideri che collaboro con undici Procure in tutta Italia e una straniera, compresa la Direzione Antimafia. Ripeto non sto attaccando lo Stato. Forse per qualcuno non sono motivati, per quello che ho fatto in passato, ma adesso ho intrapreso un altro cammino. Collaborare per sconfiggere la mafia significa anche attenuare il livello di crisi che stiamo vivendo, se poi vogliamo entrare nel merito della mia storia personale, sono un collaboratore volontario; se per qualcuno siamo troppo onerosi al Paese, allora non vi servite dei collaboratori di giustizia.
 

Le 18.000 mila firme stanno a significare che c’è qualcosa che non va nel sistema in generale, il punto da scardinare è l’apparato che circonda lo Stato. Una parte della politica collusa, uomini a essa legati come Cosentino, Dell’Utri, Scaiola, non vogliono che la mafia sia debellata. Ci chiediamo il perché?

Questa petizione serve anche a questo, cioè andare contro questa parte oscura che tutt’oggi “lavora” in Italia.
Anche sotto l’aspetto organizzativo, i programmi di protezione sono da rivedere. Mi spiego meglio. Appena sono entrato nel programma, mi hanno trasferito a Termoli, vicino ad altri appartenenti alla Sacra Corona Unita e ho trovato anche alcuni miei compaesani crotonesi. Poi stavo a due passi dalla camorra. Questa è la situazione, io sono costretto a certe restrizioni e sarebbe meglio osservarle bene queste cose. Se mi chiede se ero felice quando ero mafioso, come posso risponderle? Sono nato in una famiglia mafiosa e ne sono uscito, sono felice di essere così. L’ho fatto soprattutto per i miei figli e non me ne pento.
 

I figli cosa ne pensano?

I miei due figli, due suoceri, una moglie, due cognati tutti sotto protezione. Ho spezzato una catena, sono orgogliosi di ciò, anche se il loro destino è segnato dal passato così particolare che ha avuto il loro papà. Quando si nasce sotto mamma ‘ndrangheta, ci si affilia, vivi in un ambiente così blindato che non puoi andare da un’altra parte. Dove vai quando nella tua famiglia sei figlio di un ‘ndranghetista. I miei figli appartengono a questa nuova vita, una stella differente, non importa se oggi anche gli altri che mi sono vicino non mi credono. Io ho lottato per nuovi valori.
Cos’è un valore importante per la mafia? Ad esempio l’onore è avere prestigio tra la gente, nelle processioni religiose ci ferma qualche volta sotto la casa del mafioso importante di turno.
Sì, accade anche questo. Non tutta la chiesa è così, una parte, però legittima la mafia, o meglio l’atteggiamento mafioso, una parte della chiesa ripeto. Le posso dire che una parte della Chiesa non andrà mai a prendere il caffè a casa di un pentito.

Perché?

Loro, i mafiosi fanno benevolenza, danno le offerte, somme di denaro consistenti per far camminare la macchina religiosa. Apparentemente vanno anche da un mafioso che ha tre gradi di giudizio, solo perché devono redimire le anime del peccato. Anche nel mio paese molti mi avevano detto di non collaborare. Non importa se non sono più venuti a casa mia e se non verranno più, la mia coscienza mi dice che sto facendo la cosa giusta.




FORZE DELL’ORDINE PRONTE ALLO SCIOPERO

di Maurizio Costa

ROMA – “Le buste paga dei dipendenti statali saranno bloccate anche nel 2015.” Le parole del Ministro della Pubblica Amministrazione, Marianna Madia, hanno fatto infuriare i lavoratori pubblici. I sindacati delle forze dell’ordine, in particolare, hanno avuto una reazione forte, che secondo Angelino Alfano, Ministro dell’Interno, è anche un po’ eccessiva nei toni utilizzati.

Il comunicato diramato dai sindacati della polizia, del corpo forestale, dei vigili del fuoco e dai Cocer di Esercito, Marina, Aeronautica, carabinieri e Guardia di Finanza, ha annunciato uno sciopero per la fine di settembre in tutte le piazze italiane, con campagne di sensibilizzazione per informare tutti i cittadini dell’oltraggio dello Stato nei confronti dei difensori della sicurezza pubblica.

Gli stipendi delle forze dell’ordine rimarranno fermi. Dal 2010 ad oggi la situazione è rimasta la stessa: infatti, i compensi non aumentano da quell’anno perché lo Stato non ha le risorse necessarie. Questo significa che chiunque faccia avanzamenti di carriera nel reparto statale, comprese le forze dell’ordine, non percepisce un aumento di stipendio. Questa condizione crea delle situazioni molto strane: può capitare, infatti, che un superiore guadagni meno di un suo sottoposto.

Anche le ore di straordinario sono limitate: la legge impone che ogni dipendente non superi una certa soglia. Se questo limite viene oltrepassato, il lavoratore statale non percepisce nessun aumento di stipendio.

Una situazione che va avanti dal 2010 e che il Ministro Madia ha alimentato negli ultimi giorni. Si calcola una perdita netta in busta paga di 400 euro mensili se si prende come esempio un maresciallo dei carabinieri con 20 anni di servizio.

Angelino Alfano è disposto al dialogo ma modera i toni: “Sono legittime le richieste della Polizia ma i modi utilizzati sono stati eccessivi nel comunicato stampa.” Il Ministro dell’Interno incontrerà i vertici delle forze dell’ordine e anche i sindacati, cercando di far calmare le acque. “Ribadisco che la sicurezza è una priorità assoluta soprattutto in questo momento – ha continuato Alfano – e siamo molto vicini alle forze dell’ordine.”

Anche il premier Matteo Renzi ha detto la sua: “Il blocco degli stipendi statali era già previsto nel Def (Documento Economia e Finanza), quindi non c’è nulla di nuovo.” In Galles, durante il vertice della Nato, l’ex Sindaco di Firenze ha anche detto che “siamo l’unico Paese ad avere cinque forze di polizia”, una dichiarazione forte che potrebbe risultare distruttiva in questo momento.

Intanto, i sindacati di Polizia di Bologna hanno annunciato un blocco delle deroghe di orario. “Sappiamo che si tratta di una decisione grave – hanno dichiarato i sindacati bolognesi – ma è assolutamente necessaria.”