Lettura dai 0 ai 6 anni: benefici e consigli pedagogici

Il Comune di Bologna, nel 1999, ha fatto partire un’importante iniziativa chiamata “Nati per leggere”

La lettura nella fascia d’età 0/6 rappresenta un momento catartico e ricco di emozioni
sia per i bambini che per gli adulti.

La lettura a questa età è un momento di espressione, ma anche di esplorazione.
I bambini nascono con una grande propensione all’ascolto. Già nel grembo materno il
bambino è in grado di riconoscere le voci, soprattutto quella materna e possiede già
una propria sensibilità all’intonazione.

Perciò la lettura ad alta voce ha dei risvolti importanti per lo sviluppo della personalità
dei bambini sia sul piano emotivo, relazionale, cognitivo, linguistico, sociale e
culturale.

Dal punto di vista emotivo la lettura consente al bambino di dare un nome alle emozioni
dei protagonisti e, successivamente, anche alle proprie; da un punto di vista relazionale
consente al bambino di percepire le azioni e le emozioni dei protagonisti, stimolando
l’empatia; da un punto di vista cognitivo la lettura, fin dai primissimi mesi di vita,
sviluppa la creatività, la memoria e la logicità; da un punto di vista linguistico leggere,
in “tenera” età stimola lo sviluppo del linguaggio e del pensiero; dal punto di vista
sociale i bambini che leggono, sia a scuola che a casa, dimostrano di avere un migliore
rendimento scolastico e sono preparati ad inserirsi nel contesto sociale; da un punto di
vista culturale il libro insegna molte cose: il libro è storia, morale e valori che si
tramandano da generazione a generazione.

I bambini devono essere stimolati alla lettura fin dai primi mesi di vita

Si tratta di una lettura condivisa, ovvero quella in cui l’adulto legge ad alta voce;
l’adulto deve dimostrarsi un lettore consapevole poiché solo così si può trasmettere al
bambino, anche di 7 mesi, una valida esperienza di ascolto e di osservazione.
La lettura deve essere proposta in momenti e luoghi adatti (es. costruire un angolo
lettura con materassini morbidi) per favorire non solo l’ascolto, ma anche il
rilassamento.

L’adulto (educatore e/o genitore) deve leggere con espressività e stabilire un contatto
visivo con il bambino o il gruppo di bambini. Leggere ai bambini nei primi anni di vita fa si che il cervello del bambino raggiunga una ricettività agli stimoli esterni che mai più si ripeterà uguale.

Dopo aver sottolineato i principali benefici del leggere ad alta voce e della rilettura,
osserviamo quali sono i consigli pedagogici da un punto di vista dell’offerta educativo formativa:

  • tra i 0 e i 6 mesi sono consigliati i libri tattili poiché, il neonato alla nascita riesce
    a vedere in modo sfocato e solo in bianco e nero; perciò le prime immagini che
    il bambino vede hanno contorni netti, regolari e lineari. In questa fase, è
    importante prediligere libri piccoli in bianco e nero, con forti contrasti cromatici
    e immagini semplici. Questo primo approccio al libro è soprattutto fisico, per
    questo sono preferibili libri da manipolare e stimolare i cinque sensi. In questa
    fascia d’età si possono leggere filastrocche oppure cantare, favorendo nel
    bambino la capacità di ascolto;
  • tra i 6 e i 12 mesi lo sguardo del bambino è più attento, quindi si consigliano
    libri veri e propri con pagine spesse e cartonate, magari ancora di piccolo
    formato per renderli più maneggevoli. I libri di questa fascia d’età possono
    raffigurare animali o soggetti che fanno parte della loro quotidianità. Importanti
    sono anche i primi libri sonori;
  • tra i 12 e i 18 mesi il libro diventa una vera e propria scoperta; in questo caso si
    possono proporre libri con i buchi, con le finestrelle o con delle alette da alzare.
    In questa fase, i bambini sfogliano i libri con un adulto e indicano con il dito le
    figure. Il libro è un oggetto ancora da scoprire e da manipolare. I bambini
    attribuiscono suoni alle cose e danno un nome agli oggetti. Dai 18 mesi si
    propongono storie semplici e brevi caratterizzate da una trama essenziale (inizio,
    svolgimento e fine). È in questa fase che il bambino acquisisce la
    consapevolezza che esiste un prima e un dopo;
  • tra i 18 e i 24 mesi il bambino ripete piccole sequenze di storie e gli piacciono i
    libri che parlano di animali o di azioni legate alla sua quotidianità. È verso i 24
    mesi che il bambino inizia a comporre le sue prime frasi e il libro diventerà
    sempre più un oggetto “suo”;
  • tra i 2 e i 3 anni il bambino possiede un ampio vocabolario e riconosce molte
    immagini e parole. È la fase dell’autonomia e della sperimentazione. In questa
    fase, i libri consigliati sono gli albi illustrati (es. i libri sulle emozioni, sulle
    diversità, sull’autonomia, sull’amicizia etc …);
  • tra i 3 e i 6 anni il bambino è considerato un piccolo lettore, legge insieme ai
    pari, agli insegnanti, ai genitori oppure da solo.
    Dai 4 anni in poi si possono proporre la lettura di fiabe classiche, degli albi
    illustrati e anche dei silent book.

Questo excursus ha evidenziato i benefici della lettura fin dai primissimi mesi di vita e
ha suggerito quali tipologie di libri presentare in ogni fascia d’età.

Il Comune di Bologna, nel 1999, ha fatto partire un’importante iniziativa chiamata “Nati per leggere” tutt’ora attiva

È un progetto nazionale nato dall’alleanza tra esperti (pediatri) e bibliotecari per incentivare la lettura ad alta voce ai bambini dall’età prescolare ai 6 anni. Questo progetto sostiene da sempre la crescita e lo sviluppo dei bambini attraverso la lettura ad alta voce e la rilettura.

Il progetto “Nati per Leggere” si è espanso anche a livello nazionale, istituendo anche percorsi formativi per gli adulti (educatori, insegnanti e genitori). Ogni anno viene istituito un seminario o degli incontri a tema dove, gli esperti, parlano per dare nuovi suggerimenti agli adulti che sono a stretto contatto con i bambini. È un progetto che sta avendo molto successo e che incentiva i propri obiettivi anno per anno.




Albano Laziale, colpo di scena al Consiglio comunale: la maggioranza scricchiola

Aria di crisi per la maggioranza che sostiene il governo locale ad Albano Laziale guidato dal sindaco Massimiliano Borelli? Sembrerebbe proprio di si dopo quello che definiamo come un vero e proprio colpo di scena avvenuto durante il Consiglio comunale di giovedì 9 novembre.

Tra i vari ordini del giorno quello che riguardava l’elezione del Consiglio delle Autonomie Locali – CAL – l’organismo che ha la funzione di controllo e raccordo tra le attività regionali e quelle delle autonomie locali – i Comuni – e nella fattispecie la lista di centrodestra “Territorio e Partecipazione” ha battuto quella di centrosinistra che governa Albano Laziale.

“L’urna ha dato questa sentenza infatti i consiglieri di minoranza sono 9 e noi abbiamo preso 12 voti. Quindi viene da sé che tre consiglieri di maggioranza hanno votato la lista di centrodestra.” Questo il commento del Consigliere comunale e coordinatore di Fdi Roberto Cuccioletta durante la trasmissione web del venerdì mattina Officina Stampa BAR la rassegna settimanale condotta da Chiara Rai.

La puntata di Officina Stampa BAR la rassegna stampa di Chiara Rai di venerdì 10 novembre con ospite Roberto Cuccioletta Consigliere comunale di Fdi ad Albano Laziale

Sulla questione il Consigliere comunale Giovanni Cascella ha commentato: “A metà legislatura con un Paese in grandissime difficoltà è evidente che questa maggioranza mostra evidenti segni di cedimento. Ricordiamo che bastano quattro Consiglieri di maggioranza insieme a quelli di opposizione per sfiduciare il Sindaco. Quello che è successo ieri – 3 Consiglieri di maggioranza che votano a favore della lista di centrodestra – è qualcosa di clamoroso e un chiaro segnale dello stato di salute di Albano, una Città ormai senza prospettive e governata con poca competenza e lungimiranza”.

Un’intervista a 360 gradi dove si sono toccati molteplici argomenti che stanno a cuore ai cittadini di Albano Laziale come quello del termovalorizzatore o dell’anfiteatro. Ma Cuccioletta ha voluto porre l’accento sulla variante al Prg relativa la conversione di un’area, situata sulla via Nettunense incrocio via Tenutella con via Cancelliera, da alberghiera in commerciale.

“L’attenzione al suolo, all’ambiente a una programmazione che possa sviluppare un’attività turistico ricreativa su Albano è venuta in qualche modo a mancare.” Ha commentato Cuccioletta criticando quella che ha definito come l’assenza di una programmazione effettiva all’interno del Comune. La via Nettunense in quel tratto è piena di attività commerciali alle quali se ne andrebbero ad aggiungere altre con la conversione di questa area.

“Un’altra area, – ha dichiarato il Consigliere comunale Marco Moresco – dopo quella di Cecchina, destinata al commerciale, e soprattutto in una zona dove già molte attività hanno chiuso e quelle esistenti fanno fatica ad andare avanti. Un albergo sicuramente poteva dare un valore aggiunto al nostro territorio. L’area così destinata, circa 10 mila metri cubi, creerà ancora più disagi agli automobilisti che dovranno attraversare la Nettunense.”

Sintetico il consigliere Massimo Ferrarini che ha detto “L’Ennesima improbabile scelta di una amministrazione che invece di risolvere i tanti e diversi problemi dei cittadini sembra si diverta a crearne di nuovi”.




Albano Laziale: tra politica, opere e decadimento. Una Città divisa

Albano Laziale, città incantevole, è indubbiamente un posto affascinante e appetibile che offre una combinazione di bellezze naturali e patrimonio storico. Visitare questa Città significa immergersi in una ricca tradizione, esplorare la sua storia millenaria e godere della bellezza del paesaggio circostante con lo sguardo che arriva fino al mare.

Ciononostante, Albano Laziale è una gemma poco conosciuta per come potrebbe esserlo. C’è il Lago Albano, uno dei gioielli naturali più affascinanti d’Italia. Il Palazzo Savelli affacciato su Piazza Mazzini, costruito nel Medioevo come fortezza lungo la via Appia che ultimamente perde pezzi d’intonaco e meriterebbe una manutenzione particolare, non solo esterna.

L’Anfiteatro Severiano edificato dalle maestranze della Legione Albana nei primi anni del III sec. d.C., oltre il lato Nord Est del Castra. Rappresenta un luogo straordinario per scoprire la storia dell’antica Roma. Potrebbe essere gremito di turisti ma non è valorizzato e non è ancora stato pensato un circuito turistico che ne amplifica la giusta importanza. Il centro storico, i negozi e ottimi ristoranti, i parchi, il Museo Civico, il teatro, un cinema che non c’è più. I cisternoni fatti costruire dall’imperatore Settimio Severo tra il II e il III secolo d.C. per rifornire d’acqua l’accampamento della Seconda legione Partica. Sono grandi quanto una basilica a cinque navate scavati direttamente nel banco di tufo e tra le varie cisterne d’acqua che furono costruite dagli antichi romani, si è perfettamente conservata ed è conosciuta in tutto il mondo non solo per la sua maestosità, ma anche perché ancora funzionante. Con un patrimonio del genere Albano potrebbe essere meta di turismo mondiale, una miniera per la ricchezza e il benessere socio economico dell’intera area castellana. Offrono meno, alcune cittadine che per qualche azzeccata campagna pubblicitaria e comunicativa sono finite sui quotidiani esteri promuovendo “l’isola che non c’è” o meglio la nave mai ritrovata.

Albano è una vecchia signora, elegante, nobile e ricca di tesori nascosti. Ogni vicolo racconta qualcosa, ogni frazione ha la sua storia. Piace ma nel contempo dispiace vedere che alcune cose proprio non vanno e non si può puntare il dito soltanto sull’attuale sindaco. Sarebbe troppo facile, superficiale e si ridurrebbe a una mera strumentalizzazione del momento perché la caratteristica di chi è amministrato è avere la memoria corta. Si tratta di un discorso ampio e complesso e anche di alcuni fallimenti collezionati dal Partito Democratico che governa ormai da circa tredici anni e che, purtroppo, ha fallito sul punto più cruciale: la salute dei cittadini. la politica “locale” non è riuscita fare da scudo rispetto la Capitale imponendo un niet forte e autoritario: Albano non deve essere la discarica dei rifiuti di Roma. Il più grande dei fallimenti è stata proprio la questione della discarica di Albano, l’impianto del compianto e combattuto (ma non a ragion veduta) “ras della monnezza”, tanto contrastato per strada e nelle piazze ma che avrebbe risolto in piccolo e meglio di adesso lo smaltimento della monnezza.

La raccolta differenziata ad Albano è molto spinta e virtuosa, i residenti fanno la loro parte e il vicesindaco Luca Andreassi, ingegnere specialista ambientale, ci si è sempre dedicato. Ha fatto scelte politiche a volte criticabili e per certi versi infauste ma è comunque rimasto coerente e fedele alle sue idee. Oggi sarebbe probabilmente seduto da un’altra parte solo se avesse preso scelte diverse ma col senno del poi sono piene le tasche e al momento la sua situazione è paragonabile a quella di un osservatore consapevole e silenzioso a meno che non disegni un piano strategico politico coraggioso che però non può tener conto di alcune tempistiche dettate anche da forbici e nastri che raccontano qualche fatica. Il suo progetto politico e la fondazione e battesimo dell’associazione civica “Nel merito”, racconta la volontà di fare che anima un nutrito numero di amministratori sparsi per l’area dei Castelli e dei Monti Prenestini. La beffa è che il virtuosismo e la buona volontà non sono bastati a risolvere l’annosa questione della gestione dei rifiuti. Ora pende sulle teste dei residenti di Albano la realizzazione del termovalorizzatore nel vicino quadrante romano di Santa Palomba, che ricade nei confini del Municipio IX di Roma ma di fatto si trova ai Castelli Romani, attaccato ad Albano Laziale. Un capitolo nero per i residenti castellani. Come previsto dall’ultima ordinanza emessa dal sindaco di Roma Roberto Gualtieri la discarica di Albano Laziale verrà avviata a bonifica. Danneggiati e beffati. Da una parte si bonifica e vicino, vicino, dall’altra parte della strada, per intenderci, si incenerisce e con metodi ben più obsoleti di quelli tanto contrastati ma più innovativi di Manlio Cerroni che a maggio scorso, dopo una prima chiusura dettata dalla Procura, tramite la Ecoambiente ha prodotto le “garanzie finanziarie previste per la cosiddetta gestione post mortem dell’impianto”.

Massimiliano Borelli, brillante, onesto e politico di professione, proiettato a uno sforzo continuo di strenua e tenace volontà di remare controcorrente o contro la sua corrente, appare come un uomo lasciato solo che si muove in una vasca di squali. Nicola Marini, l’ex sindaco che ha governato per un decennio, attuale presidente del consiglio, che lo ha comunque sostenuto più o meno con intenzione, anche se a parole rimane un signore della politica viene tradito da una mimica facciale, tessuta di principi, che vanno da tutt’altra parte del suo sindaco che ricordiamo essere non di sua diretta espressione perché le mire erano altre ma quando ci sono dei professionisti che vengono coinvolti non sempre, questi, sono disposti a lasciare o allentare i propri ritmi personali lavorativi. Soprattutto se seduti in certe stanze trapuntate da bottoni. Su tutte una verità: Marini ha governato Albano in maniera meno social (erano altri tempi), più autoritaria forse, senza pensare di dover dire a troppe persone dei sì che poi si sarebbero potuti trasformare in boomerang. Che poi Marini abbia amministrato bene o meno bene è inutile stilarne a posteriori un bilancio. Albano Laziale è la diretta interessata e con le sue criticità e virtuosità è pronta a raccontare la sua storia. Prima di Marini, il centrodestra, aveva avviato opere e progetti di un certo rilievo. Progetti che sono stati interrotti e che oggi, una coalizione coesa, non senza spigolature da smussare, vorrebbe riprendere e sarebbe assurdo non farlo. Se non fosse che la buona eredità è come una pianta sempreverde, se la voglia di leadership non sovrasta le idee, il vento potrebbe girare pure in favore di qualche fiche politica di vantaggio. Del resto sono le urne il vero banco di prova: si valutano i risultati e poi si sceglie.

Purtroppo al momento la manutenzione di Albano è carente: diversi palazzi cadono a pezzi e lo raccontano le cronache, molte strade comunali gridano vendetta e su questo l’opposizione ha chiesto che venga convocato al più presto un Consiglio comunale straordinario e urgente per affrontare questa condizione ormai definita da ‘terzo mondo’ con immobili, strade, scuole, parchi, giardini e infrastrutture obsolete. Ad alzare la voce sono Massimo Ferrarini, Roberto Cuccioletta, Marco Moresco, Matteo Orciuoli, Romeo Giorgi, Pina Guglielmino, Luca Nardi, Federica Nobilio e Giovanni Cascella.

“Il controllo continuativo delle condizioni dei beni demaniali – scrivono – rientra negli obblighi (istituzionali) di manutenzione ordinaria, dai quali l’ente locale non può esimersi, ciò in quanto il progresso tecnologico predispone, oggi, gli strumenti di verifica più idonei a evitare insidie. Sussiste l’obbligo dell’amministrazione pubblica di osservare, a tutela dell’incolumità dei cittadini e dell’integrità del loro patrimonio, le specifiche disposizioni di legge e di regolamento disciplinanti le attività manutentive e gestionali delle opere custodite, nonché le comuni norme di diligenza e prudenza, con la conseguenza che l’inosservanza di dette disposizioni e norme comporta la responsabilità dell’amministrazione per i danni arrecati, o potenzialmente arrecati, a terzi”.

Albano è una città bellissima ma ricca di contraddizioni: merita di vivere un periodo di crescita e prosperità.




Diversità sessuale: un difficile cammino verso una maggiore consapevolezza

Negli ultimi decenni il tema della diversità sessuale e del transessualismo è stato molto discusso, soprattutto nell’ambito sociale, politico, legislativo e religioso. Sono stati decenni ricchi di controversie sia nell’ambito psicoanalitico che nell’opinione pubblica.

La psicoanalisi ha dovuto affrontare concetti che sono entrati in un processo di frammentazione: la nascita di nuove forme sessuali, variazioni di genere e nuovi assetti
famigliari.

Dopo aver seguito un corso di formazione intitolato “Educare alle diversità sessuali”
mi sono ritrovata, insieme ad altre colleghe, a comprendere maggiormente il complesso
rapporto che esiste tra sesso biologico e identificazione di genere.

Come affermò Bachtin già nel 1963, tali aspetti ci mostrano la necessità di avere un
dialogo aperto, basato sul principio della “comprensione dialogica attiva”, e di pensieri
critici da attivare per evitare qualsiasi pregiudizio.

Un altro aspetto, non indifferente, è che negli ultimi anni è cambiato il modo di pensare
al proprio corpo. Come sostenne Lemma nel 2005, il corpo fa parte di una cultura
tecnologicamente avanzata, di un mondo soggettivo, di un progetto personale, che ha
il diritto ad essere modificato e costruito sulla base di ciò che desideriamo essere.

Oggi giorno urge costruire uno spazio in cui elaborare i cambiamenti del proprio corpo,
con la consapevolezza e il rispetto per il valore altrui. Ciascuna persona dovrebbe
pensare in modo più avanzato all’unità e alla diversità, evitando le rigidità che da
sempre hanno accompagnato questo argomento. Tuttavia, non è richiesta la sola
capacità di inclusione, ma, come dichiara Marion nel 2017, si deve costruire un
pensiero orizzontale e paritetico.

I cambiamenti messi in atto, negli ultimi anni, hanno riguardato la caduta di un pensiero
verticale e gerarchico in cui predominavano il concetto di maschile e femminile come
categorie rigide e contrapposte.

La caduta di questa posizione culturale e sociale ha portato ad una decostruzione dei termini maschio e femmina. Sovente, di fronte ad un’identità di genere satura, direzionale e stabile, né è stata proposta un’altra che rimane aperta, insatura e in divenire. Per i teorici del genere la sfera sociale sostituisce quella biologica e il genere è il risultato di relazioni di potere piuttosto che di differenze sessuali. Quindi, ribaltando le credenze sessuali tradizionali, sono state accettate (in parte si e in parte no) le richieste di cambiamento di genere in nome della libertà di affermazione di sé stessi.

Gli omosessuali hanno da sempre combattuto per ottenere pari diritti e dignità di fronte
agli eterosessuali; le battaglie fatte nei confronti delle politiche, della religione e dell’opinione pubblica sono servite nel corso degli ultimi anni per ottenere alcuni diritti (es. matrimonio tra coppie omossessuali) ed eliminare il più possibile l’omofobia, ma siamo ancora un passo indietro.

In termini psicologici, si è trattato di accettare la distinzione tra la rappresentazione
psichica del corpo e quella del corpo anatomico oggettivo e specializzato.
Sostanzialmente è il nostro modo di intendere il soggetto a mettersi in gioco, tutti noi
dovremo accettare la possibile riformulazione del nostro corpo in termini di movimento
e cambiamento.

Tuttavia, bisognerebbe essere consapevoli che il corpo si trasforma e che può cambiare
genere sessuale; in virtù di ciò non dovremo pensare il corpo come univoco bensì
sarebbe opportuno riconoscere l’esistenza di un’alterità sessuale.

Per acquisire maggior consapevolezza su questi concetti dovremo essere disposti a
pensare che una polarità maschile-femminile non è all’altezza della complessità
sessuale e dei cambiamenti di genere. La sessualità contiene tante sfumature, perciò
ognuno di noi dovrebbe essere maggiormente empatico di fronte alle diversità sessuali,
evitando di creare etichette.

Oggi tante discordie su questo argomento potrebbero essere colmate se comprese, ma
il compito degli specialisti e non sembra essere ancora arduo, poiché l’argomento
appare ancora ostico e denso di incognite.

Ad esempio, il Comune di Bologna, in termini di inclusione e consapevolezza delle
diversità sessuali di genere ha proposto ai cittadini diversi seminari e incontri (non
obbligatori) per sensibilizzare gli individui a questi tipi di argomenti ancora nevralgici.
Inoltre, il Centro di Documentazione del Comune di Bologna, per incentivare la
comprensione delle diversità sessuali ha proposto ai cittadini un opuscolo dal titolo “Le
parole che fanno la differenza”, proprio per dichiarare che il maschile non è universale,
ma è solo un discorso di potere.

Il linguaggio è in grado di descrivere la realtà e di saperla modificare, parole di Mariagrazia Bonzagni (Direttrice Area Programmazione e Statistica presso il Comune d Bologna).
Tutti insieme possiamo fare la differenza se tutti lottiamo per i nostri diritti.




Scuola e disabilità: conoscere per educare all’inclusione

La disabilità si può conoscere solo quando tutti i soggetti che vi “entrano in contatto” (dalla famiglia, agli insegnanti, agli educatori etc …) sappiano trattarla nel rispetto di coloro che appunto “vivono una diversa condizione psico-fisica”.

Per questo motivo, la gestione della disabilità non può essere delegata ad un unico genitore, insegnante (es. insegnante di sostegno) o tutore.

Tutti i soggetti che “entrano” in contatto con la disabilità devono essere coinvolti nel processo d’ inclusione “facendosi carico” dell’individuo disabile.

È opportuno realizzare una “comunità educante” capace di mettere in atto interventi formativi e soprattutto orientati alla cooperazione e al sostegno.

Nel 2009 sono state varate le “Linee guida per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità” le quali, prevedono la realizzazione di incontri tra docenti e specialisti sia per la disabilità che per altri deficit come ad esempio, i DSA (disturbi sociali dell’apprendimento), i BES (bisogni specifici dell’apprendimento) o gli ADHD (disturbi autistici o derivanti da deficit di attenzione iperattiva).

Le Leggi Nazionali infatti definiscono i traguardi principali del processo formativo per la conoscenza e l’inclusione della disabilità:

  • la comunicazione;
  • l’apprendimento;
  • la relazione;
  • la socializzazione;
  • l’autonomia.

Per conoscere gli aspetti importanti legati alla storia personale dell’individuo disabile,
è opportuno identificare un progetto di intervento individualizzato (es. il PEI, nonché
il piano educativo individualizzato).

Affinché la conoscenza iniziale si concretizzi in progetto occorre che la scuola attui:
un’accoglienza continua fatta di “routine” (es. incontri periodici, attività, proposte etc
…).

Al processo conoscitivo si aggiunge quello di integrazione che coinvolge tutte le sfere
quotidiane del disabile (dalla famiglia alla scuola ai diversi centri educativi che
frequenta).

Entrambi i processi (conoscere e includere) devono tener presente di alcuni aspetti
specifici:

  • la comunicazione tra il disabile e il tutore deve essere svelata gradualmente;
  • non bisogna enfatizzare il deficit;
  • occorre accogliere la personalità e il dinamismo evolutivo del soggetto disabile.

La Costituzione Italiana riconosce ai disabili il diritto all’educazione e all’avviamento
professionale, il riconoscimento dei diritti inviolabili e della pari dignità sociale.
Tuttavia, lo scopo è quello di eliminare ogni ostacolo che possa impedire lo sviluppo
psico-fisico del soggetto disabile.

I mondi che ruotano attorno all’individuo con deficit devono andare nella direzione
dell’inclusività e della costruzione del proprio progetto di vita.
Ciascuna forma di disabilità non può essere sterilizzata e ridotta ai minimi termini.
Perciò affinché ciò non avvenga, la comunità educante (per prima la scuola) deve:
realizzare elevati standard di qualità nell’inclusione, promuovere la relazione con le
famiglie, garantire percorsi formativi specifici per tutti i soggetti coinvolti, rafforzare
le capacità inclusive, studiare metodologie e strumenti idonei, promuovere la ricerca,
sostenere lo sviluppo di una cultura dell’inclusione, favorire l’integrazione tra attività
curricolari ed extra-curricolari e incoraggiare l’interdisciplinarità.

Ribadendo i termini di conoscenza e di inclusione della disabilità è professionale
parlare di questa tematica, organizzando situazioni di sensibilizzazione e di
approfondimento per tutta la cittadinanza e non solo per i soggetti coinvolti.




Un paese con diverse culture: come educare all’inclusione?

I flussi migratori che oggi caratterizzano il nostro paese sono tanti e spesso vengono sottovalutati e addirittura discriminati. La politica italiana, nonché i regolamenti del “nostro” paese sono discordanti nell’attribuire alla migrazione una giusta collocazione sia in termini giuridici che inclusivi. Quindi c’è spesso il rischio di andare verso un’educazione monoculturale che cristallizza e sviluppa degli stereotipi, favorendo l’intolleranza e il rallentamento dello sviluppo di una società più democratica e soprattutto inclusiva.

L’intento pedagogico, in quest’ottica, è di diffondere l’idea di interculturalità e di educazione all’inclusività sia nelle scuole che nelle famiglie. Educare all’interculturalità significa trasferire tutti i codici “diversi”, rispetto alla cultura dominante, con il fine di incentivare la convivenza tra etnie differenti.

Il concetto di educare alla “diversità” sta nel creare contesti di rispetto e di tutela delle diverse identità. La pedagogia interculturale si è sempre espressa sulla necessità di interrogarsi sull’incontro con “l’altro”, sui contenuti che si mettono in gioco, sulle dinamiche che si costruiscono e sulle strategie che possono accompagnare e sostenere i processi di accoglienza e convivenza.

La scuola ha da sempre rappresentato il contesto idoneo per realizzare e ricevere una società multiculturale, gradevole e dinamica. Le istituzioni scolastiche mediante, progetti di inclusione, rappresentano l’ambiente più fertile dove bambini, insegnanti, genitori e adulti possano essere educati all’inclusione dell’ “altro”, nonché alla lotta contro il razzismo e il disprezzo. Gli adulti devono rappresentare l’esempio di tolleranza e inclusione dell’“altro” nei confronti dei bambini. Tuttavia, si riconosce un ruolo basilare all’atteggiamento degli adulti, poiché i bambini imitano chi è più grande di loro.

L’adulto ha quindi una responsabilità molto importante nel mettere in primo piano comportamenti di sostegno nei confronti delle diversità culturali.

È opportuno combattere pregiudizi e stereotipi attraverso percorsi educativi e pedagogici, offrendo momenti di incontro e confronto basati sull’empatia (es. la lettura di un libro, il racconto di una storia, parlare dei propri vissuti etc …). Questi momenti consentono ai bambini e agli adulti di osservare il “diverso” da più punti di vista.

La scuola in effetti ha messo in atto diversi progetti per l’accoglienza di altre culture:

  • preparare un ambiente di accoglienza sia per il bambino che per la famiglia;
  • predisporre un percorso di adattamento e di benessere psico-fisico;
  • sostenere la crescita del bambino;
  • rafforzare ogni giorno il dialogo con la famiglia del bambino, servendosi anche
    di un mediatore linguistico, qualora fosse necessario per la comprensione della
    lingua.

Ogni agenzia educativa (dalla famiglia alla scuola etc … ) deve sviluppare attenzione verso culture differenti, creare dialogo, scambio e comprensione. È importante sostenere la conoscenza dell “altro” in un’ ottica di trasmissione, mettendo in gioco la curiosità. Educare all’inclusività significa evitare le differenze e i confini.




Le “BUONE PRASSI” per la gestione di chi è bullo e di chi è vittima

Oggi il bullismo e il cyberbullismo sono due fenomeni piuttosto frequenti nelle comunità educative, poiché è proprio all’interno delle istituzioni scolastiche che, solitamente, nascono le amicizie di gruppo.

Le ultime ricerche mostrano che è proprio il gruppo di amici il “luogo” dove possono instaurarsi sia relazioni benevole che devianti.

Come affermato nell’articolo precedente, i bulli/cyberbulli sono spesso degli adolescenti, momento di vita in cui i ragazzi/e possono ritrovarsi a dover superare vissuti poco armoniosi, derivanti dall’indole caratteriale (es. sensazioni di depressione, attacchi di panico etc …) oppure dai trascorsi familiari (es. separazioni o divorzi genitoriali, lutti, incomprensioni etc …).

È così che per riscattarsi, questi giovani tendono, in gruppo o da soli, ad innescare atteggiamenti di “cattivo gusto” verso vittime innocenti.
Il mondo della scuola come quello della famiglia si sentono assorbiti da queste vicissitudini per cui è opportuno definire alcune buone pratiche, sia per prevenire, sia per gestire che per contrastare tali fenomeni.

In “veste” di pedagogista porrei in evidenza alcune “Buone Prassi”, sia generiche che specifiche per fornire sostegno ai soggetti coinvolti.

In termini generici sarebbe utile:

  • attivare punti di ascolto gratuiti costituiti da professionisti del settore (es.
    psicologi, pedagogisti, mediatori familiari etc …);
  • attivare indirizzi e-mail e siti web per ricevere informazioni o fare segnalazioni
    all’interno dei punti di ascolto;
  • gli adulti devono monitorare costantemente, sia a casa che a scuola, i
    comportamenti dei loro figli/alunni, con particolare riguardo alle relazioni con il
    web e con l’uso dei dispositivi tecnologici (es. il pc, il telefono cellulare etc …);
  • occorre avere uno sguardo a 360° per “captare” il bullo/i e la vittima/e;
  • è necessario organizzare eventi pubblici (es. seminari, dibattiti etc …) per dare
    informazioni ai cittadini su questi argomenti;
  • è appropriato predisporre lezioni alternative dove si parla di bullismo e
    cyberbullismo con i ragazzi/e, instaurando un dialogo privo di giudizio;
  • è importante incoraggiare i ragazzi/e a parlare con un adulto (insegnante,
    professionista, genitore etc …) nel caso avvertissero malessere, paura,
    ingiustizia, negatività etc …
    In qualità di professionista, sarebbe opportuno stilare delle “Buone Prassi” anche
    per contrastare il bullismo e il cyberbullismo e per sostenere le vittime.
    Le “Buone Prassi” da seguire per ostacolare il bullo o il gruppo di bulli, a scuola
    e/o a casa potrebbe essere il seguente:
  • se l’episodio accade a scuola il docente deve avvisare immediatamente il
    Dirigente Scolastico (o chi per lui) che a sua volta informerà il Presidente del
    Comitato Genitori sugli avvenimenti accaduti;
  • se la vicenda avviene tra le mura domestiche il genitore può rivolgersi presso lo
    sportello d’ascolto del suo distretto e segnalare eventuali atteggiamenti sospetti
    o certi di bullismo e/o cyberbullismo, osservati nel proprio figlio/a o nel gruppo
    di amici che frequenta;
  • a scuola, prima di parlare di sospensione del ragazzo/a, è utile indire un Consiglio
    di Classe immediato;
  • la scuola deve convocare i genitori dei figli designati come “carnefici” per
    sostenerli a trovare delle soluzioni;
  • gli insegnanti, all’unanimità con i professionisti, potrebbero suggerire ai genitori
    incontri per studiare insieme strategie che frenino tali atteggiamenti;
  • a casa i genitori possono chiamare i professionisti del consultorio per organizzare
    degli incontri (se fosse possibile in presenza anche con il ragazzo/a);
  • dare al ragazzo/a la possibilità di esprimersi, favorendo la sua versione dei fatti;
  • non creare discussioni e fraintendimenti;
  • i professionisti potrebbero decidere di attivare colloqui individuali con il bullo
    oppure con il gruppo di bulli;
  • si devono applicare misure correttive e rieducative mediante progettazioni;
  • si deve informare il bullo/i della gravità della situazione e delle possibili sanzioni;
    Per quanto riguarda le vittime dei bulli/cyberbulli si possono proporre le seguenti
    “Buone Prassi”:
  • sostenere empaticamente, con l’intervento dei professionisti, le vittime;
  • ove è necessario attivare dei percorsi psicologici o di consulenza;
  • approfondire con la vittima quello che è avvenuto durante gli episodi subiti;
  • far parlare la vittima/e senza giudicarla;
  • monitorare la vittima/e congiuntamente al suo stato di salute psico-fisico.
    Un’ottima pratica, se entrambi sono d’accordo, è che bullo e vittima si incontrino
    per consentire al bullo di esprimere un suo possibile pentimento e alla vittima di farsi
    ascoltare. In ogni caso, sarebbe consigliato sostenere sia le vittime che il “carnefice”,
    coinvolgere le famiglie per instaurare dialoghi e alleanze costruttive.
    Tuttavia, è rilevante non giudicare, contrastando la volontà d’ espressione.
    Sostenere, dialogare, ascoltare, aiutare, progettare, ripristinare e rieducare
    potrebbero essere gli “ingredienti” idonei per dire “STOP” ad atti di bullismo e di
    cyberbullismo.



La comunità italiana in Venezuela dal 1814

“Paisà, oggi a te, domani a me”, questa era una delle frasi  che molti venezuelani ascoltavano dagli  italiani appena arrivati, in una comunione di destino e di speranza che univa idealmente due mondi così lontani e pure così vicini

Dal 1814, il Venezuela cominciò a ricevere l’arrivo dei primi italiani che con il desiderio di migliorare, non solo  l’aspetto economico, se non anche di trovare un’ideologia di libertà e giustizia, decidono di stabilirsi nelle terre americane. Come afferma la Professoressa Pierina D’Elia nel suo scritto sopra l’emigrazione italiana nel Venezuela: “questo fenomeno non registra un arrivo massiccio come si manifesterà poi nel 1870”.

Negli anni successivi molte  di queste persone a volte umili contadini,  ma anche artigiani, professionisti e tecnici,  continuarono ad arrivare in Venezuela, lavorando con molto impegno e aiutando lo sviluppo di un paese in terre lontane. Una grande percentuale proveniente dalla Sicilia, dalla Campania,  dall’Abruzzo, dalla Puglia,   ma anche da regioni  del Nord industrializzato, dal Veneto, dall’Emilia-Romagna e dal Friuli-Venezia Giulia.

Persone che si sono radicate in tutte le regioni del Venezuela creando le loro comunità ancora attive tutt’oggi e integrate con la popolazione locale.

Nei vari settori produttivi e industriali, così come nell’agricoltura e nel commercio  sono numerosi gli italiani che hanno dato vita ad imprese e società. Basti pensare che negli anni cinquanta la maggior parte degli edifici di Caracas fu costruito da imprese italiane.

Nel Paese si percepisce vivida la presenza della comunità italiana, nei monumenti, nelle piazze e nelle vie che portano il nome dell’Italia o dei suoi rappresentanti.

Nella stessa  Caracas c’è Piazza Italia e sono presenti varie opere architettoniche realizzate da discendenti di italiani, da Juan Pedro Rosani, Angelo di Sapio, Ricardo Morandi per citarne solo alcuni. Numerosi poi i circoli “Club” di italiani dove si gusta un buon caffè espresso o si beve una birra tra una partita di briscola e l’altra parlando rigorosamente in italiano.

Che dire poi delle tradizioni  gastronomiche, diffuse in tutto il Venezuela e che ancora oggi deliziano i palati di chi, con rispetto e orgoglio, afferma che la cucina italiana è una delle migliori  del mondo. Sono davvero tanti i ristoranti di chef italiani o di figli di italiani presenti nel nostro Paese che propongono i piatti tradizionali della cucina italiana.

E ancora più degno di nota citare  il sostegno che le varie istituzioni  educative, sociali, religiose e culturali italiane offrono  alla nostra popolazione  per migliorare il sistema di istruzione, di lavoro e di vita. Insomma  la presenza della  comunità italiana in Venezuela non ha abbandonato la sua essenza, le sue radici, le sue tradizioni,  ma  le ha integrate con rispetto, amore e passione alla cultura e alle tradizioni venezuelane, contribuendo allo sviluppo di due Popoli e di due Paesi.

“Paisà, oggi a te, domani a me”, questa era una delle frasi  che molti venezuelani ascoltavano dagli  italiani appena arrivati, in una comunione di destino e di speranza che univa idealmente due mondi così lontani e pure così vicini.




Bilinguismo e code switching: nuove visioni di pedagogia interculturale

In Italia il cambio di registro linguistico (code switching) è legato al passaggio dall’italiano al dialetto regionale

Il termine bilinguismo potrebbe sembrare una traduzione dall’inglese del concetto di code switching, ma in realtà non lo è. Bilinguismo e code switching sono due nozioni differenti e con caratteristiche proprie.

Il bilinguismo è sostanzialmente la capacità di parlare due lingue, mentre il code switching deriva dall’inglese e significa cambiamento del codice linguistico.

La traduzione linguistica dei due concetti balza ai nostri occhi come termini già sentiti, ma non approfonditi. La ricerca da me condotta nell’anno 2023, mediante questionari, ha fatto emergere come i due termini non siano ben recepiti nel contesto linguistico.

Lo studio, condotto nell’area metropolitana di Bologna, rivela come la maggior parte degli intervistati concepisce così i due termini: alcuni affermano che il bilinguismo è parlare due lingue, mentre altri dichiarano che il code switching significa esprimersi mediante forme dialettali. Tuttavia, le interviste documentano come la popolazione italiana non ha ben chiaro i significati dei due termini.

L’Italia di fatto non è un paese bilingue (tranne il Trentino Alto-Adige e il Friuli Venezia Giulia) per cui i fenomeni linguistici sono spesso congiunti al fenomeno dei flussi migratori.

I migranti infatti portano con sé la loro lingua d’origine, utilizzandola insieme ad una mediocre percentuale della lingua italiana che già conoscono.

Il code switching è visto dagli italiani come una sorta di “alieno” che si è inserito nella linguistica italiana senza avere un’identità ben precisa.

L’Italiano medio rispetto ai cittadini di altri paesi europei e non, dove conoscere un’altra lingua (rispetto la lingua madre) è diventato pressoché obbligatorio, utilizza scarsamente la seconda lingua senonché il dialetto.

I risultati emersi dimostrano che in Italia il cambio di registro linguistico (code switching) è legato al passaggio dall’italiano al dialetto regionale.

Nell’analisi condotta il 70% dei bambini e degli adulti stranieri migrati in Italia si è mostrato contento dell’accoglienza ricevuta e dichiara di sentirsi partecipe dei progetti inclusivi proposti ad esempio, nelle scuole.

Il rimanente 30% ha dichiarato di aver avuto molte difficoltà, soprattutto con la lingua e con l’inserimento nel nuovo contesto di vita.

Dall’altro canto le insegnanti italiane dichiarano che la diffusione di più lingue è positiva, ribadendo che il cervello dei bambini è come una spugna assorbente che sa acquisire in tempi rapidi un’ altra lingua, rispetto all’adulto che mostra più difficoltà.
L’indagine condotta riporta l’interesse italiano di approfondire nuove culture e nuove lingue, così come per gli stranieri.

Il ruolo di noi adulti verso i bambini e i ragazzi è, quindi, favorire l’accoglienza e l’opportunità di costruire la propria quotidianità su nuovi saperi.

L’Italia, nella maggioranza dei casi, è aperta al nuovo e al diverso, in effetti, ultimamente stanno aumentano i corsi di alfabetizzazione per gli adulti stranieri e le opportunità di apprendimento per i bambini-ragazzi sia a scuola che a casa.

L’idea pedagogica è di conoscere il nuovo e il diverso, di estendere nuovi percorsi linguistici per bambini, adulti stranieri e non ed educare a nuove esperienze culturali.

Per i bambini, i ragazzi e gli adulti italiani/stranieri è opportuno diffondere l’immagine dell’ “altro” mediante una lettura positiva priva di preconcetti.

La pedagogia necessità di organizzare dei percorsi inclusivi, trasformare le parole in fatti concreti e consentire, senza obblighi e stereotipizzazioni, la crescita di una popolazione concorde nel diffondere una pedagogia interculturale.




Albano Laziale, 10 anni dal funerale di Priebke. Marini: “Di quell’evento restano i valori democratici e antifascisti”

L’intervista al consigliere comunale di Albano Laziale già sindaco per 10 anni Nicola Marini

Per dieci anni Sindaco del Comune di Albano Laziale. Consigliere Nicola Marini, il prossimo 15 ottobre ricorre il decimo anniversario del funerale di Priebke. Un giorno fondamentale per la città di Albano

Un giorno storico, oserei dire perché nostro malgrado la Città di Albano Laziale è stata protagonista involontaria di un evento tanto drammatico quanto fondamentale nel ribadire i principi e i valori di democrazia e libertà. Avevano scelto, infatti, la nostra Città per svolgere i funerali di Erich Priebke, ex ufficiale delle SS naziste condannato all’ergastolo per aver partecipato e pianificato l’eccidio delle Fosse Ardeatine.

Ma a dieci anni di distanza non posso non ricordare i fatti per come sono accaduti, affinché ognuno si assuma le responsabilità di quanto accaduto.

Il 15 ottobre 2013, la salma di Priebke fu trasferita dall’ospedale Gemelli di Roma all’Istituto Pio X dei Padri Lefebvriani di Albano Laziale, dove si sarebbero dovuti svolgere i funerali in forma privata. Ovviamente, la notizia non poteva che suscitare sdegno e indignazione tra i miei cittadini e cittadine – cose che ho da subito comunicato a chi di dovere – e che li ha portati spontaneamente a scendere in piazza a protestare e ad opporsi in ogni modo ai funerali di un criminale di guerra ad Albano. Oltre a questa comunicazione per possibili tafferugli, ho immediatamente firmato come Sindaco un’Ordinanza che vietasse il passaggio della salma sul nostro territorio.

Ricordo che ci fu però una decisione calata dall’alto Dodici minuti dopo, tuttavia, il Prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro emanava un’Ordinanza che annullava la mia per consentire ugualmente la celebrazione dei funerali ad Albano Laziale. A quel punto gli scontri tra cittadini e gruppi di estrema destra giunti da Roma è stata inevitabile e si è deciso di portare via la salma di Priebke in un luogo segreto e privato. Mi continuo a chiedere oggi perché non si sia arrivati subito a questa soluzione.

Domanda più che condivisibile. Secondo lei perché? Sembra quasi si volesse creare un caso. Celebrare i funerali di un criminale di guerra come Priebke avrebbe ricevuto un netto no da qualsiasi città d’Italia. E questo il Prefetto non poteva non saperlo e prevederlo. Forse, allora, erano più concentrati sull’attenzione mediatica e politica che sulla risoluzione della questione in sicurezza.

Comunque sia è innegabile che la vicenda dei funerali di Priebke ad Albano Laziale ebbe un forte impatto sulla città, che si ritrovò al centro di una polemica internazionale.
Lo ripeto, Albano Laziale si è trovata improvvisamente e suo malgrado ad essere il centro del mondo: celebrare i funerali di un criminale di guerra non è una cosa che accade tutti i giorni, soprattutto in maniera così plateale e senza alcun rispetto per le sensibilità della nostra Città. Ricordo che Priebke non si pentì mai per le sue azioni e che Albano è “medaglia d’oro al valor civile” . Non potevamo consentire che il nostro nome venisse associato un evento dal forte significato politico e ideologico, anche perché il mondo intero ci guardava. La risposta istituzionale e popolare, per fortuna, fu fortissima e netta, tanto da costringere il Prefetto a rivalutare in extremis le sue scelte.

Albano ha sempre avuto una forte connotazione democratica, in questo senso ritiene che l’evento abbia in parte incrinato questa immagine?
Albano Laziale ha rischiato di veder associato il suo nome per sempre al gerarca nazista Erich Priebke. Questo ovviamente avrebbe potuto incrinare fortemente i valori democratici che da sempre la contraddistinguono. Ma la risposta così sentita e forte, invece, li ha ulteriormente rafforzati: Albano ha una tradizione di lotta antifascista, partigiana, di battaglie democratiche e di libertà a cui si è andata ad aggiungere la cacciata della salma di un criminale di guerra.
È bene ricordare, inoltre, che nel 2018 il Comune di Albano Laziale ha approvato una mozione che impegna la Città a promuovere la cultura della memoria e della legalità. La mozione prevede, tra l’altro, la realizzazione di un percorso di visita alle Fosse Ardeatine.
Ed è in linea con questa necessità di ricordare e di ribadire i valori della democrazia che il 15 ottobre prossimo, in occasione del decimo anniversario dell’evento, la Città ha organizzato un incontro pubblico al quale parteciperanno tutte quelle componenti che in quel giorno del 2013 contribuirono a salvaguardare l’immagine di un’Albano profondamente antifascista.

Cosa resta di quell’evento, cosa resta di quella forza civica che ha smosso centinaia di persone di tutte le età?
Resta la reazione di una Città intera, dal Sindaco ai cittadini e alle cittadine. Resta la memoria onorata di chi per mano del nazifascismo è morto. Restano i valori democratici e antifascisti.
Capisco che per molti è ancora difficile fare i conti con un passato che ha visto l’Italia dalla parte sbagliata della storia, ma negandolo, non chiamando le cose col proprio nome, accettando magari una salma per “quieto vivere”, non avremmo fatto e non faremo mai giustizia e chiarezza. Penso che tutti, i singoli, le istituzioni, le scuole e i partiti stessi, debbano impegnarsi in tal senso.

Il funerale di Erich Priebke ha dimostrato che la memoria può essere un’arma a doppio taglio. Da un lato, può essere utilizzata per onorare le vittime e per promuovere la giustizia. Dall’altro lato, può anche essere utilizzata per negare o dimenticare le atrocità commesse.
La memoria è un processo dinamico e complesso. Essa è influenzata da fattori individuali, sociali e culturali. Ed è per questo che i presidi culturali come la scuola e le istituzioni debbono portare avanti una ricerca di memoria onesta e completa, e divulgarla il più possibile.
Non possiamo lasciare uno strumento così importante come il ricordo nelle mani di chi non ha l’onestà intellettuale di fare i conti con gli errori commessi.
Stiamo perdendo fisicamente le persone che hanno vissuto queste atrocità sulla loro pelle, abbiamo il dovere morale di non disperdere il loro ricordo.

Archivio video de L’Osservatore d’Italia



I ragazzi a scuola e in famiglia: come colmare le distanze

Oggi si parla spesso di intelligenza emotiva, ma poche persone propongono questo tipo di relazione: né a scuola, nel rapporto ragazzi-insegnanti e viceversa, né a casa, nella relazione ragazzi-genitori.

Sovente, gli insegnanti arrivano in classe dando per scontato l’idea di fare una lezione frontale quindi, quando l’attenzione dei ragazzi inizia a calare, è complicato ritornare ad una relazione di ascolto.

La medesima cosa può accadere tra le mura di casa, dove spesso i genitori, impegnati nella loro quotidianità, non riescono ad avviare un dialogo con i propri figli e viceversa.

Instaurare rapporti sani per colmare le distanze emotive-relazionali, sia a scuola che in famiglia, potrebbe essere così proposto:

Insegnante: “Bene ragazzi che ne dite se oggi facciamo una lezione insieme? Un po’
spiegate voi e un po’ io?”

Oppure,

Padre/Madre: “A. vieni qui da papà/mamma che parliamo un po’, dal momento, che
quest’anno ti diplomi. Mi racconti la tua giornata? Mi dici come stai e cosa hai fatto?”

Oppure,

Ragazzo/a: “Prof. oggi facciamo un po’ di conversazione”?
“Papà/Mamma vi posso parlare di un problema sentimentale”?

Tuttavia, dai migliori esperti di psicologia, quali Galimberti, Crepet, Morelli etc … siamo tempestati, soprattutto sui social, di continui interventi sul come educare all’intelligenza emotiva e quindi su come l’insegnante, i genitori e i ragazzi dovrebbero colmare i vuoti emotivi.

Goleman, studioso di gran pregio, anticipò nel 1996 le proprie teorie sull’intelligenza emotiva, scrivendo frasi e libri dedicati proprio a questo argomento.

Oggi, a seguito di questi interventi, mi chiedo: Ma la scuola che ruolo ha? Cosa ci aspettiamo dai docenti, dai genitori e dai ragazzi? Sarà idoneo formare docenti aditi a creare momenti di empatia? Ma l’intelligenza emotiva si insegna, si impara o nessuna delle due?

Personalmente, da pedagogista e docente, non credo che esista un modo per insegnare ad essere emotivi ma sicuramente esistono capacità innate e non, adite a stimolare l’emotività; in alcuni individui, per altro, potrebbe essere necessario incoraggiare la relazione empatica. Ci sarà chi è più propenso a questo “lavoro emotivo” e chi deve “impegnarsi” a “capire come essere emotivi”.

Per colmare questa “non empatia”, sia in famiglia, sia in casa, sia a scuola è utile “ascoltar-ci” e poi “trasmetter-ci gli uni agli altri”.

Sentire noi stessi e gli altri è un compito arduo ma è fondamentale che qualcuno dia inizio a questo “viaggio introspettivo e relazionale”, senza che rimanga una nozione astratta. Perciò la famiglia e la scuola dovrebbero impostare il dialogo, la partecipazione continua, e soprattutto una comunicazione di reciprocità. I bambini molto piccoli, ad esempio, sono i primi a “sentire” le emozioni. Molte volte, bimbi di 3/4 anni, mi hanno rivolto questa domanda: “maestra, come stai? Stai bene o sei triste?”, e qui si coglie la specialità dell’infanzia e di come noi adulti dovremmo imparare da questa fascia d’età.

I bambini piccoli hanno questo dono perché vivono il presente e non, come noi adulti, il passato o il futuro per indagare cosa è stato e cosa sarà senza mai sentir-ci nel qui ed ora.

L’ingenuità dell’essere bambino sta nel percepire il tipo di adulto che si ha di fronte e di fruirne l’emotività che quest’ultimo potrebbe non avere o avere solo in parte.
Il compito delle comunità educative (famiglia e scuola) è di osservare i bambini piccoli, cercando di “imitarli”: un gesto, uno sguardo, un atteggiamento valgono più di mille
parole dette all’interno di corsi di aggiornamento.

L’intelligenza emotiva non si insegna anzi, è spontaneità, è il creare un ambiente armonioso che ci permette di vivere e condividere le nostre emozioni con quelle altrui.

L’infante, crescendo non dovrebbe perdere questo grandissimo dono, perciò noi adulti, sia in casa che a scuola, abbiamo il compito di promuovere la pratica emotiva, diffondendo “perle” di empatia e sensazioni che possono e devono essere condivise.