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Editoriali

CASO ELENA CESTE, PROFILO PSICOLOGICO: COSA È SUCCESSO ALLA DONNA IL GIORNO DELLA SPARIZIONE?

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Tempo di lettura 8 minuti Ursula Franco, chiarisce una volta per tutte, che cosa sono le psicosi, l’autopsia psicologica e le dinamiche dell’allontanamento

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di Domenico Leccese

“Se i quattro studi di questo volume si rivolgono a una vasta schiera di persone colte, non possono tuttavia essere compresi e giudicati che dai pochi che non sono completamente estranei alla natura propria della psicoanalisi”. (Sigmund Freud, Totem e tabù, 1913).

… per chi giudica il lavoro di un professionista senza averne le competenze. Questa citazione, pubblicata dalla Dott.ssa Ursula Franco, mi ha suscitato, ulteriore curiosità, e mi ha spinto, a contattarla, nuovamente anche sul Caso Elena Ceste.

La Dott.ssa Ursula Franco, ci chiarisce una volta per tutte, che cosa sono le psicosi, l’autopsia psicologica e le dinamiche dell’allontanamento di Elena Ceste da casa la mattina del 24 gennaio 2014.

Che cos’è la psicosi?

La psicosi è un disturbo psichico molto comune, ad eziologia multifattoriale, a modalità di esordio variabile, che si differenzia da soggetto a soggetto per sintomatologia, gravità e prognosi e che viene spesso definito volgarmente ‘esaurimento nervoso’. Un soggetto affetto da psicosi necessita di una terapia specialistica, nel caso una crisi si risolva spontaneamente, facilmente recidiva se il soggetto non viene sottoposto a terapia farmacologica.
Soggetti diversi sviluppano crisi psicotiche caratterizzate da un diverso ‘set’ di sintomi. Le modalità d’esordio della psicosi sono variabili da soggetto a soggetto e prima della vera e propria crisi psicotica possono manifestarsi i cosiddetti prodromi o precursori, come: cambiamenti di umore, ritiro sociale, pensieri ossessivi e ritualità comportamentali, segnali difficilmente riconoscibili come clinicamente rilevanti all’occhio inesperto di un familiare e spesso perfino a quello più esperto di un medico di base, ma indici comunque di un esordio subacuto della crisi. La classica crisi psicotica è più spesso caratterizzata da un delirio, in genere di tipo persecutorio e da allucinazioni, spesso di tipo uditivo.

Che cos’è un’autopsia psicologica?
L'autopsia psicologica è una perizia post-scomparsa o post-mortem che permette di dire se un soggetto possa essersi allontanato volontariamente o nel caso ne venga ritrovato il corpo, in caso di dubbio, sia morto per cause accidentali in seguito all’allontanamento o in seguito ad un atto suicidiario o sia vittima di un omicidio. Per ricostruire il profilo psicologico di un soggetto scomparso o deceduto è necessario raccogliere alcuni elementi, quali le testimonianze di parenti, amici, colleghi e di coloro che lo hanno incontrato nelle ultime ore prima della scomparsa o della morte. Tali dati, insieme alle cartelle cliniche del soggetto esaminato permettono di ricostruirne lo stato mentale prima dei fatti e di formulare un’ipotesi sulle cause della sua scomparsa o della sua morte.

Lei ha sottoposto Elena Ceste a questo tipo di autopsia, ci sintetizza le sue conclusioni?

L’analisi delle testimonianze di parenti ed amici mi ha permesso di concludere con certezza che già dai mesi di ottobre e novembre la Ceste aveva manifestato segnali di un disturbo psicotico. In quei mesi Elena mostrò di essere tormentata da pensieri ossessivi persecutori, riconoscibili a posteriori quali i prodromi della crisi psicotica che la colpì a fine gennaio. I pensieri ossessivi che tormentavano la Ceste nei mesi di ottobre e novembre sono ben descritti dai suoi confidenti, purtroppo nessuno li riconobbe come segnali di un disturbo psichico e quindi la Ceste non fu sottoposta a terapia farmacologica. Una severa alterazione dell'equilibrio psichico di Elena, una vera e propria crisi psicotica, caratterizzata da un delirio persecutorio e da allucinazioni uditive si manifestò dal pomeriggio del 23 gennaio fino al momento della sua scomparsa, cui seguì a breve la morte. Probabilmente, ancora prima del pomeriggio del giorno precedente la sua scomparsa erano tornati a manifestarsi con forza nella mente della Ceste quei pensieri ossessivi che l’avevano afflitta nel mese di ottobre, già il 22 gennaio, infatti, l’amica Fiorenza si era accorta che qualcosa turbava Elena. A quella manifestazione pomeridiana psicotica del 23 gennaio, cui Michele assistette, seguì un periodo di apparente tranquillità, finché il quadro sintomatologico si arricchì durante la notte delle allucinazioni uditive, voci che dicevano ad Elena che non era una buona madre e che lei tentava di scacciare picchiandosi sulla fronte, inoltre il delirio persecutorio si fece più importante, non solo non la lasciavano stare, ma i suoi persecutori erano, a suo dire, decisi a portarla via da casa, ad allontanarla dai suoi figli, il motivo ce lo spiegano le sue allucinazioni uditive che le ripetevano che non era una buona madre. La Ceste allo scopo di allontanare le allucinazioni uditive si era picchiata ripetutamente sulla testa, tanto da arrossarsi la fronte, anche questa reazione alle allucinazioni uditive è di comune osservazione nei soggetti affetti da questo tipo di sintomi ed avvalora il racconto del marito. Durante la notte tra il 23 ed il 24 gennaio si compose quindi un quadro classico di psicosi con totale disgregamento della personalità. Dopo quella notte ‘difficile’ la Ceste, nonostante apparisse serena, non accompagnò i figli a scuola perché non se la sentiva, anche se era compito suo, questo fatto inusuale ed improvviso, come confermato dai bambini, è la riprova che qualcosa non andava. Quella mattina, i figli non notarono nulla di anomalo nel comportamento della madre, ella infatti non aveva manifestato evidenti segnali di ‘squilibrio’ ma pochi minuti prima che il resto dei familiari lasciassero l’abitazione, Elena, mentre i bambini si trovavano in auto, invitò il marito a non portare i figli a scuola, tornando a manifestare un delirio persecutorio, questa volta arricchitosi da idee di controllo sui figli da parte di soggetti estranei alla famiglia.

Che cosa hanno sostenuto i consulenti della Procura invece?

La Procura ha sostenuto che Elena aveva avuto una crisi psicotica nei mesi di ottobre e novembre e poi era ‘miracolosamente’ guarita senza sottoporsi ad alcuna terapia. Le cito l’ordinanza del Giudice Marson: ”Lo scompenso… qualificato dai consulenti psicologi e psichiatri come di tipo psicotico proiettivo delirante veniva notato da tutti i suoi interlocutorii… si era presentata una crisi psicotica con proiezioni e diffusi spunti deliranti…".

Ci illustra allora le differenze tra le risultanze dell’autopsia psicologica fatta dall’accusa e la sue.
Elena come abbiamo visto in precedenza manifestò, alcuni mesi prima della crisi psicotica vera e propria, i cosiddetti ‘prodromi’, ovvero un profondo disagio emotivo e pensieri ossessivi specifici con neppur troppo sfumate idee di riferimento. Ciò che io ho definito ‘prodromi’ sono stati definiti invece dall’accusa ‘crisi psicotica con proiezioni e diffusi spunti deliranti’, una crisi, a loro avviso, poi superata. La sostanziale differenza tra la mia autopsia e la loro sta nel fatto che per me quella che loro chiamano ‘crisi psicotica’ non erano altro che i ‘prodromi’, ovvero semplicemente le prime manifestazioni di un disturbo psicotico che ha avuto il suo apice tra il 23 ed il 24 gennaio. La condizione psichica descritta dai consulenti della Procura si risolve difficilmente senza l’uso di farmaci, e se appare temporaneamente in remissione, tende invece spesso a recidivare.

Che cosa disse la Ceste ai suoi confidenti e loro che impressioni ebbero?
La Ceste confidò alla madre, alla sorella, all’amica Fiorenza Rava, all’amico Giandomenico Altamura ed al parroco di Motta alcune sue paure, originate da suoi comportamenti ‘sbagliati’. Sempre nel mese di novembre rinfacciò all’amico Silipo alcuni messaggi apparsi su Facebook, lamentandosi con lui di aver perso fiducia e dignità e dicendosi sulla bocca di tutti. Elena era convinta di essere stata ‘tradita da una vecchia conoscenza’ e di ‘essere sulla bocca di tutti’.  I confidenti della Ceste ebbero l’impressione ascoltandola che nei suoi racconti ci fosse qualcosa di anomalo, che non fossero aderenti alla realtà.

Non si confidò col marito prima del 23 gennaio?
No, Buoninconti era all’oscuro sia dei tradimenti che di quelle confidenze che nessuno mai gli riferì, egli dice la verità quando afferma di non essersi accorto del disagio della moglie prima del pomeriggio del 23 gennaio. A Michele, Elena nascose i tradimenti ed anche le angosce che le avevano provocato fino a poche ore prima della scomparsa, solo in quei frangenti raccontò a Buoninconti di essersi rivolta pure al parroco e di aver ricevuto da lui delle rassicurazioni.

Perché Buoninconti non chiese aiuto per la moglie?

Nonostante i sintomi durassero da ore, sebbene con periodi di apparente remissione, Buoninconti sottovalutò le difficoltà della moglie nella speranza che non fosse altro che una crisi passeggera, un momento di stress che la faceva farneticare, ma che sarebbe passato, assumendo un atteggiamento tipico della maggior parte dei familiari che tendono a negare la malattia psichiatrica per la paura e per la difficoltà a riconoscerne i sintomi. Dopo quella notte però era deciso a portarla dal medico e per questo quel mattino, dopo aver accompagnato i bambini a scuola, si recò a controllare gli orari di ricevimento del sostituto.

Ci dica qualcosa di più sul denudamento quale sintomo della psicosi.

Il denudamento di Elena, che precedette la sua fuga da casa, rientra semplicemente tra le anomalie del comportamento che possono manifestarsi nei soggetti psicotici. Il denudamento, letto dagli inquirenti come un indubbio indizio di omicidio è stato il primo campanello d’allarme che mi ha portata a ritenere l’omicidio alquanto improbabile, quel denudamento è cruciale, è la prova della psicosi. Peraltro non avrebbe avuto ragioni Buoninconti di denudare il cadavere della moglie e se l’avesse uccisa nuda l’avrebbe di sicuro rivestita in modo che una volta ritrovato il corpo si sarebbe potuto pensare ad un allontanamento volontario.

Una volta per tutte che cosa è successo quella mattina?

La Ceste la mattina del 24 gennaio 2014 si è allontanata da casa, poco dopo le 8.15, in preda ad una crisi psicotica (psychotic breakdown) caratterizzata da allucinazioni uditive e da un delirio persecutorio. La donna dopo aver accompagnato i bambini ed il marito all’auto è rientrata in casa, si è tolta la giacca che Michele le aveva messo sulle spalle, ha premuto il pulsante di apertura del cancello automatico, è uscita di nuovo, si è tolta gli abiti in due tempi, prima le ciabatte ed il maglione, che ha lasciato sul tombino di fronte alla porta di casa, quindi si è avvicinata al cancello per impedire che si chiudesse, ha finito di denudarsi e si è poi allontanata e ha trovato la morte nel letto del Rio Mersa per assideramento.

Perché e come ha raggiunto il Rio Mersa?

I comportamenti dei soggetti psicotici sono conseguenza delle loro idee deliranti o reazioni alle loro allucinazioni che, influenzandone il pensiero, indirizzano di conseguenza i loro atti, che proprio per questi motivi sono anomali. Il suo allontanamento non fu altro che una risposta comportamentale al suo convincimento delirante. Elena quella mattina si denudò e reagì al suo delirio persecutorio, prese un'iniziativa, nel timore di venir portata via da casa, scappò e si nascose ai suoi ‘fantomatici’ persecutori nel greto di quel fiumiciattolo, inconsapevole, a causa della sua condizione psichica, che le indusse un profondo distacco dalla realtà, che il freddo avrebbe potuto ucciderla. La Ceste non desiderava morire, solo nascondersi, purtroppo, una volta sentitasi al sicuro la donna si addormentò, la notte prima di scomparire Elena non aveva dormito ed il lungo delirio che durava dal pomeriggio del giorno precedente l'aveva affaticata, al sonno subentrò lo stato soporoso indotto dall'ipotermia cui seguì la morte per assideramento. La presenza dell'acqua nel piccolo corso accelerò il processo di assideramento. Infine, è molto probabile che Elena se fosse stata vigile ed avesse sentito la voce del marito o quelle dei soccorritori non le avrebbe percepite come voci "amiche" ma piuttosto come quelle dei suoi fantomatici persecutori che intendevano "portarla via da casa" e naturalmente avrebbe continuato a nascondersi". La sfortuna della Ceste furono le basse temperature, se fosse stata primavera o estate, la donna con tutta probabilità sarebbe stata avvistata dai contadini nei campi nei giorni seguenti alla sua fuga, mentre purtroppo quel giorno ella si assopì a causa della stanchezza che le aveva causato il lungo delirio e poi al sonno si aggiunse il sopore dovuto all’ipotermia e la donna morì per assideramento.

Ci racconta qualcosa la posizione delle ossa al momento del ritrovamento?
La posizione in cui sono state ritrovate le ossa di Elena Ceste è compatibile con un assideramento accidentale, la Ceste, dopo la sua morte, semplicemente cadde a faccia in giù. Elena non si rannicchiò per proteggersi dal freddo in quanto venne colta dall’ipotermia nel sonno. Per quanto riguarda il punto esatto del ritrovamento è difficile dire se Elena sia entrata nel Rio Mersa proprio nel punto del ritrovamento o poco più a monte, la logica e la conformazione dei luoghi mi fa pensare che fosse entrata poco a monte del tubo di cemento che raggiunse per nascondervici e che dopo la sua morte, in seguito alle piogge le acque del Rio Mersa l’abbiano spostata, forse solo di poche decine di centimetri, tanto da far impigliare il suo cadavere nell’incolta vegetazione”.

Ci fornisca altri dati a sostegno dell’allontanamento volontario.

Proprio il ritrovamento del suo corpo nudo ad una distanza ridotta dall’abitazione e la sede stessa, avvalorano l’ipotesi dell’allontanamento volontario. Ci conferma ancora la bontà dell’ipotesi dell’allontanamento volontario un racconto fatto dal figlio Giovanni al padre, egli ha riferito che la madre, mentre lo vestiva la mattina della scomparsa, gli aveva detto: ‘Se mamma scappa voi dovete crescere da soli’, quindi, con tutta probabilità, Elena premeditava già una fuga, la Ceste infatti usò il verbo ‘scappare’. Per il resto, dalle indagini non è emerso nulla che permetta di ipotizzare una ricostruzione alternativa, nulla che confermi l’ipotesi degli inquirenti, ovvero l’omicidio e nulla che provi l’occultamento. Mancano la causa di morte della Ceste, mancano eventuali segni di una colluttazione su Buoninconti che avrebbero dovuto esserci vista la presunta tecnica omicidiaria per soffocazione diretta sostenuta dall’accusa, mancano i segni del trasporto di un cadavere sull’auto di Michele e le macchie di fango sui suoi abiti e sulle sue calzature, mancano eventuali graffi sulle sue mani e sul suo volto prodotti dai rovi del Rio Mersa e manca il movente.
 

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1 Comment

1 Comments

  1. Bruna Parendella

    9 Aprile 2021 at 23:14

    Ma come è possibile senza prove beccarsi 30anni? Possibile che non sia stato preso in considerazione almeno il ragionevole dubbio, visto le ipotesi della difesa -per lo meno logiche? Sono spaventata.

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Codice Rosso: un’arma spuntata contro la violenza? [PRIMA PARTE]

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L’intervista a Rosy Andreacchio vicepresidente del Centro Antiviolenza Margherita di Frascati

La violenza occupa sempre di più le pagine di giornali, televisione, web.
La legge 69/2019, nota come Codice Rosso, ha introdotto una serie di strumenti di materie di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere.

A Frascati opera ormai dalla fine del 2023 un Centro Antiviolenza, il Centro Antiviolenza Margherita sezione Castelli Romani, ospitato, grazie al parroco di Cocciano don Franz Vicentini, nei locali della Parrocchia di San Giuseppe Lavoratore.

Abbiamo incontrato Rosy Andreacchio, vicepresidente del Centro Antiviolenza Margherita sezione Castelli Romani al quale abbiamo rivolto alcune domande.

Nella foto don Franz Vicentini, parroco della Parrocchia San Giuseppe Lavoratore di Cocciano e Rosy Andreacchio vicepresidente del Centro Antiviolenza Margherita di Frascati

Innanzitutto grazie per la tua disponibilità e grazie per il servizio che gratuitamente riuscite ad offrire a decine di vittime di violenza che spesso trovano porte chiuse di fronte alle loro problematiche.

Io ho l’abitudine di andare dritto alla questione: cosa succede quando una persona, una vittima di violenza viene da te. Quale è il tuo approccio?
Loro si presentano da me al Centro ma sono molto restie, purtroppo, perché sanno che vanno incontro a tutta una serie di situazione che rischiano di trasformarle da vittime in “carnefici” di sé stesse.

Cioè spiegami meglio
Purtroppo, questo tipo di legislazione di legge che abbiamo porta, diciamo, a questo finale in quanto sono tante le donne che subiscono violenza ma solo 1 su 10 che la subisce poi arriva alla denuncia … le altre no e questo perché hanno paura. Hanno paura in quanto restano sole senza alcun aiuto concreto. Non c’è nessuno, o meglio sono pochissimi gli apparati, diciamo sociali, amministrativi, comunali che riescono a stare al fianco delle donne. La loro paura, che poi diventa realtà, è che alla fine tutto gli si ritorca contro, incominciando dagli altri.


Quindi sole durante la violenza, sole dopo la violenza, quindi il rischio diventa questo.
Si!

Quindi, per capire: io mi rivolgo al centro di violenza antiviolenza perché sono sola, trovo sicuramente te operatrice che mi dai una mano, ma poi chi dovrebbe compiere l’azione di blindare la persona non c’è! Giusto?
Sì! Non c’è perché la legge ti blocca. La legge, la norma li si blocca si ferma, cioè nel senso che poi è il Procuratore che gestisce il cosiddetto Codice rosso. È lui che, in quel momento vede, valuta se la donna deve essere messa in sicurezza o deve essere lasciata lì, così, nella sua quotidianità.

Allora, premesso, io non conosco nel dettaglio la norma relativa al cosiddetto codice rosso a differenza di te che operi in tale ambito . Ma su che parametri dovrebbe decidere? Cioè, mi spiego meglio: io allora io vengo da te e ti dico guarda c’è una persona che mi picchia. A questo punto cosa succede? Quindi tu accerti il caso, allerti gli organi di polizia giudiziaria si arriva davanti al giudice e lui decide. Ma su parametri oggettivi o in base alla sua discrezionalità?
Allora al giudice arriva la denuncia che viene fatta presso gli organi di polizia giudiziaria, caserma dei carabinieri, commissariato di pubblica sicurezza. Deve essere improntata in una certa maniera, cioè bisogna mostrare che esiste un pericolo imminente e quando arriva questa denuncia al procuratore, è poi a sua discrezione decidere se “bloccare” l’aggressore con un braccialetto elettronico o far continuare a far vivere l’aggredito nella sua quotidianità. Il fatto è che purtroppo poi subentrano i servizi sociali nel senso che al momento in cui ad esempio una donna con un figlio, dei figli, si trova ad essere vittima di violenza e, come spesso succede, l’aggressore è il marito che è l’unico che porta reddito in casa, si corre anche il rischio di vedere i figli allontanati da una madre perché questa non è in grado, a loro avviso, di sostenerli economicamente e socialmente. E questo, te lo garantisco, genera davvero ancora più paura nelle donne che si vedono, ancora di più, allontanate dai propri affetti vicini. Ed allora di fronte a queste “concrete possibilità”, questi ostacoli decidono di non denunciare più.

Noi prima di incontrarci ci siamo sentiti al telefono e ci siamo detti una cosa: ho letto di casi di donne che si sono trovate nella situazione che tu mi dicevi – figlio tolto perché non era in grado di sostenerlo economicamente. Queste donne si lamentavano del fatto che nelle case famiglie per la gestione dei bambini lo Stato spende circa 50 euro al giorno. Se faccio i cosiddetti “conti della nonna”: 50 euro al giorno per 30 giorni vengono fuori 1500 euro. Tu sei donna, sei mamma, anche nonna mi hai detto … sappiamo bene che una madre con anche la metà, anche un terzo farebbe di suo figlio davvero un principe, o sbaglio?
Sì! Io vorrei cercare di far arrivare la mia voce, come quella degli altri operatori dei centri antiviolenza, sul tavolo di chi ci governa. È stato tolto il reddito di cittadinanza in quanto troppe lacune nella gestione dei controlli ma di fronte a questi fatti non avrebbe senso di provvedere “immediatamente” ad un reddito che possa tamponare le necessità impellenti di queste donne


Quindi tu saresti d’accordo a che il governo possa generare una sorta di “paracadute economico” per gestire queste situazioni proprio in virtù di quello che ci siamo detti cioè evitare l’isolamento in cui rischiano di finire poi le donne?
Certo che si sarebbe uno degli elementi che metterebbe in sicurezza le persone vittime di violenza, ti dico, tra le altre cose, che ci sono anche molti uomini che vivono la stessa situazione. Cioè permetterebbe loro di vivere in una situazione di maggiore tranquillità. E lo dico perché da prima linea vivo costantemente le paure di queste persone vittime di violenza che si trovano davvero alla mercè, oltre che fisica e psicologica, a dovere dipendere, per sopravvivere, dai loro aggressori dal punto di vista economico.
Quindi, se non ho capito male, quando parli di “prima linea” mi stai confermando il mio pensiero: vengono prima da te che dai carabinieri a denunciare le aggressioni?
Certo che si in quanto la difficoltà maggiore che incontrano queste vittime di violenza è strettamente collegata al fatto di sentirsi sole e di non avere alcun appoggio di fronte a queste situazioni e noi abbiamo il dovere di renderle coscienti anche dei rischi che si troverebbero di fronte ad una eventuale denuncia che rischia di isolarla ancora di più.

In che senso, scusami?
Per quello che ci siamo detti fin ora. Io denuncio resto da sola con mio figlio, il mio aggressore è l’unico che lavora … mi spieghi dove va questa donna a vivere e con quali soldi? E se ci aggiungiamo che in queste situazioni vengono allontanate dal contesto violento e messe in sicurezza senza, molte volte, neanche la possibilità di poter uscire mentre, troppe volte, assistiamo agli aggressori che se la spassano tranquillamente in giro. Quindi una protezione che diventa una sorta di “arresto domiciliare” che non fa altro che generare ulteriore disequilibrio per la persona vittima di aggressione che diventa così isolata, spesso anche senza la possibilità di telefonare a quei pochi amici o amiche. Faccio io una domanda a te: tu riusciresti a vivere cosi?

Di certo no, te lo posso assicurare. Quindi questa in apparenza “blindatura” diventa un vero e proprio isolamento mentre il “mostro”, l’aggressore, se la spassa in giro?
Certo ho assistito ed assisto a numerosi casi di questo genere dove la vittima è isolata e l’aggressore se la spassa in totale tranquillità e se ci sono bambini questi finiscono per la loro “sicurezza” in una casa famiglia spesso separati dal genitore vittima di aggressione.
Io faccio un salto indietro perché mi frulla una cosa in testa: tu all’inizio mi hai parlato di “pericolo imminente” all’interno della denuncia ma poi è il giudice che deve decidere se il “pericolo è imminente o meno”?
No, vuole tutte le fotografie, vuole tutte gli audio che devi mettere da parte a testimonianza delle aggressioni. Per cui se una donna, per esempio, non ce l’ha queste queste cose, o magari ha cambiato telefono bisogna predisporre un altro iter che ovviamente allunga ancora di più i tempi di intervento.

Allora, se ho ben capito, è sempre la soggettività di un giudice che decide.
Sì!

Quindi se lui ravvisa che non c’è rischio se ne assume pure la responsabilità?
Si, dovrebbe essere così

Ragionando per ipotesi: la donna o l’uomo vittima di aggressione vengono uccise dall’aggressore la responsabilità, teoricamente, andrebbe in capo al giudice?
In teoria si, ma non lo è! Ed è questo che non riesco a capire: questa norma che, nella visione, dovrebbe garantire non ha strumenti concreti ed immediati per aiutare le vittime di violenza.

Allora provo a girare la domanda. Se tu domani avessi la possibilità, conoscendo, perché le vivi, le necessità ed i bisogni delle vittime di violenza, quali correzioni porteresti al cosiddetto “Codice Rosso”?
Attuare immediatamente un programma di protezione alla vittima, ma lasciandola libera nella sua casa, magari con i suoi figli, aiutandola magari economicamente ed il carnefice deve essere allontanato. Ti dico che, ad esempio, perché a me piace parlare sul dato concreto, io ho donne che stiamo assistendo e l’unico modo è mandarle in delle strutture in Calabria allontanadole dal loro contesto sociale, famigliare che è invece da sempre qui ai Castelli Romani e la loro colpa è essere vittime di violenza. Quindi oltre il danno la beffa di essere allontanate dai loro spazi di vita.

Anche perché, correggimi se sbaglio, in questo modo gli eventuali figli e anche le condizioni psicologiche di queste persone subirebbero ulteriori danni davvero poi non più quantificabili.
Correttissimo perché, sempre per esperienza, si assiste davvero ad uno sfilacciamento anche del rapporto, ad esempio, tra la mamma, vittima di aggressione, con dei figli. Questi poi si sentono davvero isolati con è un padre violento, con tutte le ripercussioni che questo può generare loro, ed una madre lontana che spesso fatica pure nel mantenere con loro dei rapporti genitoriali completi.

Questa è la prima parte dell’intervista rilasciataci da Rosy Andreacchio, vicepresidente del Centro Antiviolenza Margherita, sezione Castelli Romani, di Frascati.

Domani pubblicheremo la seconda parte nella quale verranno evidenziati anche i problemi delle violenze effettuate da minori verso i loro famigliari.

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Editoriali

Oriana Fallaci: Il coraggio della verità

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Scusaci Oriana,
non ti abbiamo proprio capito.

Non solo ci avevi messi in guardia ma avevi lasciato che quello che tu chiamavi “alieno che vive in me” ti divorasse perché ritenevi più importante educarci alla riscossa dell’Occidente che salvare la tua vita.

Dopo quasi 20 anni dalla tua scomparsa– te ne andasti via in silenzio quel 15 settembre 2006 – siamo ancora con quell’estremismo islamico mascherato da buonismo che si insinua nel nostro pianeta con la rapidità di un virus al quale non siamo un grado di porre rimedio o, meglio, non vogliamo porre rimedio.

Le tue parole, i tuoi gesti, anche estremi, il chador buttato a terra – cencio da medioevo -, non hanno fatto presa.

Purtroppo un ecumenismo buonista ci copre gli occhi.

Gli Stati Uniti, un tempo custodi di un ordine mondiale democratico, si inginocchiano per l’ennesima volta di fronte alle guerriglie talebane divenendo, ancora una volta, artefici di confusione e non di libertà.

Le donne afgane tornano ad essere al pari di animali da riproduzione e nessuna voce si scaglia più contro questa ignominia.

Il sangue di giovani soldati occidentali sparso sulla terra non grida solo giustizia ma verità e rispetto per la loro missione di democrazia.

Il sangue di troppe giovani vittime colpevoli solo di vivere “nella parte sbagliata del mondo” muoiono sotto “bombe intelligenti” che dimostrano, sempre di più, la “stupidità del genere umano”.

Senza dimenticare la continua corsa ad un riarmo che in apparenza vuole imporre la pace ma poi diventa solo “fabbrica di morti”.

Scusami se mi rivolgo a te solo oggi.

Ma sento attorno a me il silenzio della rassegnazione di un mondo prono alla violenza.
Sento l’ipocrisia di chi vorrebbe un mondo organizzato dall’alto con scelte di chi, nel mondo, ormai non vive più perché abituato alle mollezze di un cultura che vuole essere solo di morte e non più di vita.

Oggi saresti stata l’emblema vivente di una riscossa necessaria ad un mondo senza più attributi né coraggio.

Saresti quel punto di riferimento di chi, come me e tanti altri, crede ancora nella possibilità che questo martoriato mondo possa tornare ad essere luogo di pace, di rispetto reciproco, luogo in cui le “libertà individuali” possano divenire valore aggiunto.

Ma, purtroppo, non ci sei più e sentiamo terribilmente la tua mancanza.
Ci manchi, mi manchi!

15 settembre 2006 – 15 settembre 2024

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Editoriali

Omosessualità, il caso del Vescovo Reina e le ombre sulla formazione nei seminari

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L’inchiesta sul Vescovo Reina getta luce su presunte problematiche all’interno della Chiesa, alimentando il dibattito sulla formazione dei sacerdoti e il trattamento dell’omosessualità nei seminari cattolici

L’omosessualità, la maturità umana e i requisiti per il sacerdozio sono temi centrali di un dibattito che negli ultimi anni ha assunto una dimensione sempre più rilevante all’interno della Chiesa Cattolica.

Questo approfondimento de L’Osservatore d’Italia intende analizzare il contesto che coinvolge il Vescovo Baldo Reina, ex rettore del seminario di Agrigento, accusato di aver adottato pratiche discutibili nella formazione dei seminaristi, in particolare riguardo ai candidati con tendenze omosessuali.

La vicenda è stata approfondita in una recente inchiesta giornalistica, che solleva interrogativi sulle dinamiche di discernimento, il rispetto dei “fori” interno ed esterno e la condotta morale all’interno dei seminari cattolici.

La formazione nei seminari: un quadro confuso

Un primo elemento critico è la mancanza di un progetto formativo univoco che regoli la formazione dei seminaristi in modo uniforme in tutta la Chiesa cattolica.
I seminari, infatti, seguono orientamenti e approcci diversi, il che complica il processo di valutazione dei candidati al sacerdozio. In questo contesto, emergono problematiche legate alla gestione delle tendenze omosessuali e al modo in cui queste vengono affrontate durante la formazione.

La Chiesa Cattolica ha stabilito una distinzione tra due concetti fondamentali nella gestione della formazione: il foro interno e il foro esterno. Il primo riguarda l’intimità spirituale e personale del candidato, tutelato dal sigillo sacramentale e gestito da padri spirituali e confessori. Il secondo concerne la dimensione pubblica e formativa del seminarista, supervisionata da rettori e insegnanti. Tuttavia, il confine tra questi due “fori” non sempre viene rispettato, come dimostrato nel caso del seminario di Agrigento.

Tanto si potrebbe scrivere sulle origini e sviluppo della coscienza ecclesiale di questi due “fori” ma prendiamo un intervento di Papa Francesco che vale a spiegare bene in cosa consista: «E vorrei aggiungere – fuori testo – una parola sul termine “foro interno”. Questa non è un’espressione a vanvera: è detta sul serio! Foro interno è foro interno e non può uscire all’esterno. E questo lo dico perché mi sono accorto che in alcuni gruppi nella Chiesa, gli incaricati, i superiori – diciamo così – mescolano le due cose e prendono dal foro interno per le decisioni in quello all’esterno, e viceversa. Per favore, questo è peccato! È un peccato contro la dignità della persona che si fida del sacerdote, manifesta la propria realtà per chiedere il perdono, e poi la si usa per sistemare le cose di un gruppo o di un movimento, forse – non so, invento –, forse persino di una nuova congregazione, non so. Ma foro interno è foro interno. È una cosa sacra. Questo volevo dirlo, perché sono preoccupato di questo». (Papa Francesco – Presentazione della nota sull’importanza del Foro Interno e l’inviolabilità del sigillo sacramentale, 29 giugno 2019.)

La nota sull’intervento, ovviamente, ci aiuta a capire dalle stesse parole di Papa Francesco l’importanza e la serietà con cui vengono visti i due “fori”, specialmente quello interno.

Il caso di Agrigento: “Libertà” o pressioni?

Nel seminario di Agrigento, sotto la direzione di Baldo Reina, un giovane seminarista con tendenze omosessuali è stato inviato a seguire un percorso noto come “Verdad y Libertad”, un programma di guarigione dall’omosessualità, ampiamente criticato e condannato sia dalla comunità scientifica che dalla Chiesa stessa.

La decisione di sottoporre il giovane a questo programma, che ha provocato disorientamento e danni psicologici, è stata presa nel foro esterno, sotto la supervisione di Reina quando era rettore del seminario di Agrigento.

Questo solleva questioni etiche e pastorali, poiché la proposta di partecipare a tali programmi dovrebbe avvenire con il consenso del seminarista, che però si è trovato di fronte a pressioni implicite per conformarsi.

L’elemento più inquietante è l’assenza di separazione tra foro interno ed esterno: il seminarista, che si è confidato spiritualmente, è stato poi giudicato e obbligato a seguire un percorso di “cura” che violava i principi di riservatezza e rispetto del foro interno. Questo modus operandi è stato fortemente criticato, poiché ha sovrapposto il giudizio spirituale a quello formativo, con effetti devastanti sulla persona coinvolta.

Le critiche a Reina: Un giudice unico?

Reina ha agito come giudice unico nel caso del seminarista, dimostrando una gestione della formazione caratterizzata da un’autorità indiscutibile e da un’interpretazione rigida delle norme. L’inchiesta pubblicata su “Domani” evidenzia come il percorso imposto al giovane seminarista non solo mancasse di fondamento medico e psicologico, ma fosse anche moralmente discutibile. Le pratiche proposte dal programma “Verdad y Libertad” sono state condannate in vari paesi, compresa la Spagna, e ritenute contrarie agli insegnamenti della Chiesa stessa (QUI L’ARTICOLO DEL QUOTIDIANO DOMANI).

Un clima di tensione nella Diocesi di Roma

La nomina di Baldo Reina come vescovo ausiliare di Roma ha sollevato preoccupazioni anche per la gestione della Diocesi di Roma, in particolare per quanto riguarda la gestione del patrimonio immobiliare e le dinamiche interne al Vicariato. La presenza di figure discusse, come Don Renato Tarantelli Baccari, ex avvocato diventato sacerdote, e Mons. Michele Di Tolve, ex rettore del seminario lombardo, ha creato un clima di sfiducia e tensione tra i sacerdoti romani. La mancanza di trasparenza e il rischio di favoritismi hanno alimentato il malcontento.

Il caso del Vescovo Reina solleva questioni profonde su come la Chiesa Cattolica gestisce la formazione dei futuri sacerdoti, soprattutto quando si tratta di tematiche delicate come l’omosessualità. L’assenza di un progetto formativo chiaro e la mancata distinzione tra foro interno ed esterno espongono i candidati a pressioni psicologiche e morali che possono compromettere il loro percorso. La Chiesa dovrà riflettere su questi episodi per garantire un ambiente di formazione più rispettoso e trasparente, evitando che si ripetano errori simili.

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