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Roma

CANALE MONTERANO COME TERRITORIO DA VALORIZZARE E COME OSSERVATORIO SPERIMENTALE.

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Tempo di lettura 12 minuti Natili domanda al neo Governatore Nicola Zingaretti quali i progetti della nuova Giunta sul tema

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Daniele Natili

Canale Monterano (RM) – La scorsa domenica 10 marzo 2013 vi è stata una visita al territorio di Canale Monterano da parte del Gruppo Operativo dell’Associazione A.PRO.D.U.C. (Associazione per la Tutela delle Proprietà Collettive e dei Diritti di Uso Civico. Notizie nel sito web della stessa: http://www.demaniocivico.it/).

L’A.PRO.D.U.C. ha sede in Roma e fu costituita nel 1989 – sull’onda emotiva provocata dalla scomparsa del grande avvocato demanialista Giudo Cervati – da un gruppo di studiosi, giuristi ed avvocati appassionati delle questioni ambientali e della materia relativa agli usi ed ai demani civici.
Il Gruppo Operativo A.PRO.D.U.C., di cui io stesso faccio parte, sta lavorando alla mappatura dei demani civici italiani, vuole cioè contribuire ad un censimento delle proprietà collettive ancora esistenti nel nostro paese. In questo ambito, tale gruppo di giovani studiosi, cultori e docenti universitari di diverse discipline (storia medievale, economia, architettura ed urbanistica, diritto agrario, diritto degli usi civici) vuole promuovere un progetto pilota, che possa fare cioè da modello per altre simili iniziative, di valorizzazione economica (in modo sostenibile) di una proprietà collettiva. Ciò è di particolare interesse, se si considera l’attuale momento storico di crisi globale delle economie e l’aggressione sempre maggiore che subisce il suolo italiano a causa, soprattutto, della cementificazione.
Il progetto pilota vorrebbe proporre un modello di sviluppo economico che guardi al futuro e, allo stesso tempo, alla nostra tradizione: ossia l’Italia come antica terra di usi civici, dove il feudalesimo ha lasciato in eredità non soltanto scomodi relitti di un passato da superare, come i particolarismi ed i privilegi, ma anche un modello di sfruttamento collettivo della terra. Le popolazioni della Penisola vivevano, infatti, lavorando collettivamente la terra del feudo e soddisfacevano alle esigenze dei singoli nuclei familiari valorizzando le utilità che la natura circostante offriva loro: semina, legnatico, pascolo, pesca, caccia, raccolta dei funghi, il cipollatico, ecc., senza qui completare il lungo elenco dei singoli usi civici, che altro non sono se non forme tipiche di utilizzazione dei beni offerti dalla terra ad una collettività di abitanti. Un modello che si è rivelato un nostro patrimonio storico-culturale, una realtà nascosta nella società rurale, un mondo imbarazzante per la cultura politica e giuridica ufficiale, una consuetudine strisciante e radicata nelle comunità locali e, soprattutto, l’unica esperienza millenaria che abbia dimostrato, nelle società umane, effettiva capacità di economia sostenibile e conservazione dell’ambiente.
Gli usi civici delle popolazioni italiane sono la prova, ancora viva, di “un altro modo di possedere”, come ebbe a dire Carlo Cattaneo e come ha ribadito Paolo Grossi, insigne storico del diritto e giudice della Corte Costituzionle, in un libro celeberrimo del 1977 che dalle parole del Cattaneo ha tratto il titolo.

La visita a Canale Monterano del 10 marzo si è svolta nell’ambito dell’attività che il Gruppo A.PRO.D.U.C. sta portando avanti per realizzare tale progetto pilota. La visita ha avuto ad oggetto la tenuta ‘Pergugliano’, proprietà collettiva gestita dall’Università Agraria, e la Riserva Naturale regionale “Monterano”, con le suggestive rovine dell’omonimo borgo di origine etrusca. Alla giornata erano presenti, fra gli altri, l’Avv. Maria Athena Lorizio, Segretario generale A.PRO.D.U.C. e specialista di diritto degli usi civici, e Gaia Pallottino, ex Segretario generale di “Italia Nostra” e socio fondatore di A.PRO.D.U.C.; a ricevere il gruppo erano presenti il Sindaco di Canale Monterano, Angelo Stefani, e la locale Università Agraria, nella persona del suo Presidente, Belisario Gentili, e dei Consiglieri Giovanni D’Aiuto e Fulvio Magagnini.

La Riserva Naturale “Monterano” ha messo a disposizione il suo personale per le informazioni relative all’istituzione, alle finalità e alle specie animali e vegetali dell’area protetta; l’Archeologa Flavia Marani in rappresentanza della Cooperativa Sociale Lympha – una cooperativa che ha sede a Canale Monterano e che si occupa di visite guidate nei luoghi di interesse storico e naturistico del Lazio – ha guidato il gruppo in un percorso esplicativo degli aspetti archeologici e storico-artistici dell’antico abitato di Monterano. La visita si è conclusa con un piccolo rinfresco, finanziato esclusivamente con donazioni spontanee di alcuni cittadini di Canale Monterano che qui ringrazio; il rinfresco si è tenuto nei locali (c.d. “Granaroni”) messi a disposizione dall’Università Agraria.
Mi auguro vivamente che questa bella giornata possa portare dei frutti concreti, magari una collaborazione fra le autorità di Canale Monterano e A.PRO.D.U.C. in vista dell’interessante progetto pilota da me ricordato. Ciò è importante sotto diversi profili, che trascendono l’ambito del comune di Canale Monterano.

CHE COSA SONO GLI USI CIVICI E LE PROPRIETÀ COLLETTIVE

Dobbiamo innanzi tutto ricordare che per “usi civici” si intendono fenomeni molto diversi fra loro. In senso lato, vi sono usi civici ovunque ciascun membro di una collettività determinata abbia diritto di raccogliere legna o funghi o altro, di esercitare il pascolo, di pescare, ecc. (gli usi civici sono tipici); se la popolazione, attraverso i singoli individui, ha tali diritti su terra di proprietà privata (come se questa fosse gravata da servitù a favore della popolazione), ci troviamo di fronte agli usi civici in senso stretto. Se, invece, una comunità di abitanti esercita tali diritti (funzionali alle esigenze dei nuclei familiari che la compongono) in un comprensorio terriero che appartiene alla comunità stessa, allora siamo di fronte ad una proprietà collettiva o demanio civico in senso stretto.

Come si sono formati i diritti di uso civico e le proprietà collettive? Le origini sono molto discusse fra gli studiosi, ma possiamo tenere per certo che in epoca medievale erano consolidate presso le popolazioni forme di godimento comune della terra del feudo del tutto lontane dal moderno modello della proprietà privata. Nascevano regole e si sviluppavano consuetudini concernenti l’utilizzazione collettiva dei fondi, in un mondo nel quale ciascuna comunità di abitanti era parte integrante di un territorio affidato per investitura ad un feudatario. L’investitura feudale implicava, cioè, il riconoscimento in capo agli abitanti del feudo della possibilità di soddisfare alle esigenze della loro sopravvivenza nel territorio dove vivevano.  E questa possibilità si poteva esplicare in due modi: o esercitandola in generale nel feudo (e da questa situazione hanno origine gli usi civici in senso stretto), oppure sfruttando collettivamente una parte soltanto del territorio, che era stata appositamente concessa dal signore alla popolazione e che in tal modo acquisiva un vincolo di esclusiva destinazione ai bisogni essenziali degli abitanti o cives (e così nascevano le prime proprietà collettive). Ad esempio, nonostante si tratti di un episodio successivo all’età medievale, la prima proprietà collettiva di Canale Monterano nacque nel novembre del 1578, quando il duca di Bracciano Paolo Giordano I Orsini concesse ai Monteranesi la tenuta Bandita affinché costoro la usassero per raccogliervi la legna.
Ad ogni modo, il nostro paese, l’Italia, da Nord a Sud ha visto svilupparsi nel corso della sua storia una congerie infinita di queste situazioni possessorie collettive, estranee al modello napoleonico di ‘proprietà privata’. Tali situazioni possessorie devono intendersi non semplicemente come esperienze di economia comunitaria, ma soprattutto come l’espressione più immediata delle diverse tradizioni, culture e autonomie locali. Il vincolo di destinazione alle esigenze della popolazione che caratterizza le proprietà collettive; le regole e gli statuti con i quali l’uso collettivo della terra viene variamente disciplinato; e le diverse forme organizzative che nel corso dei secoli le popolazioni si sono date per gestire i loro patrimoni territoriali (si ha, così, un elenco ricchissimo di comunità organizzate per lo sfruttamento collettivo della terra: pensiamo alle Regole del Cadore e delle altre comunità dell’arco alpino, alle Partecipanze emiliane, alle Società di antichi originari della Lombardia ed alle Associazioni agrarie del Centro-Italia, per fare solo degli esempi) sono i principali aspetti di un fenomeno tanto importante quanto poco conosciuto del localismo italiano: la presenza secolare dei demani civici nel tessuto delle territorio nazionale.
Questo immenso patrimonio fondiario e culturale ha resistito agli attacchi della Rivoluzione Francese e, più in generale, della modernità. Con la Rivoluzione Francese gli usi civici furono visti come un relitto storico, un residuato del feudalesimo che si voleva abbattere. Non si comprese che, in realtà, quel modo di possedere era ben più che un’antiquata sopravvivenza di esperienze medievali; era, infatti, un modo di rapportarsi alla terra connaturato da sempre alla vocazione dell’uomo a vivere in società. In Italia, agli inizi dell’Ottocento, cominciò un percorso legislativo travagliato che ancor oggi non può dirsi conluso.
Nei diversi stati preunitari comparvero le c.d. leggi eversive della feudalità, vale a dire – con estrema semplificazione – normative che tendevano, con procedimenti di liquidazione, ad abolire gli usi civici ed a trasformare in proprietà privata (che l’ideologia borghese riteneva più funzionale ad un’economia moderna) i demani civici. Negli anni successivi all’Unità d’Italia, tuttavia, di fronte ai gravi problemi che il nuovo stato doveva affrontare, vi furono alcune coscienze illuminate nella classe dirigente e nelle forze politiche parlamentari. Vi fu chi, finalmente, si rese conto che tutto l’universo dei modi comunitari di possedere la terra rappresentava non un relitto feudale, ma un fenomeno millenario attraverso il quale le popolazioni avevano dimostrato capacità di svilupparsi e di far vivere la terra con un uso naturale e sostenibile, cioè conservandola e senza alterarne i caratteri morfologici e ambientali.
Insomma, per la prima volta ci si rendeva conto che i diritti di uso civico e le proprietà collettive erano ‘beni comuni’, essenziali alle esigenze delle comunità ivi abitanti. Ne risultarono due leggi specificamente dedicate agli usi civici delle ex Province dello Stato Pontificio: la L. 24 giugno 1888 n. 5489, che seppur trattando della Abolizione delle servitù di pascolo, di seminare […] nelle ex Province Pontificie e quindi apparentemente finalizzata ad abolire gli usi civici nei territori da ultimo acquisiti dallo stato unitario, in realtà conteneva norme che consentivano alle popolazioni di comprare i possedimenti privati gravati di usi civici, ove questi fossero di estensione tale da risultare essenziali per la sopravvivenza delle stesse (c.d. liquidazione invertita di latifondi e feudi). Ad esempio, gli agricoltori ed allevatori di Canale Monterano, nel 1919-1920, grazie a questa legge acquistarono in forma associata l’intero feudo Altieri, cioè la maggior parte dell’attuale territorio comunale; e la L. 4 agosto 1894 n. 397 (Ordinamento dei domini collettivi nelle Province dell’ex Stato Pontificio), che costituiva in Associazioni Agrarie con personalità giuridica (dando origine formale alle attuali Università Agrarie del Lazio) le comunità di agricoltori titolari di porprietà collettive, al fine di permettere che avessero una organizzazione per la gestione dei beni comuni. In sostanza, il parlamento di fine Ottocento riconosceva la realtà ed il valore di queste forme alternative di proprietà. Il Legislatore fascista non vide di buon occhio un fenomeno come quello delle proprietà collettive, in quanto espressioni di libertà, pluralismo ed autonomia e, pertanto, intervenne con la L. 1766/1927 di riordino di tutta la materia. Questa legge è ancor oggi la legge generale sugli usi civici. Essa prevedeva, in primo luogo, le completa liquidazione dei diritti di uso civico gravanti sui terreni privati (ai proprietari si dava il diritto potestativo di affrancare il proprio terreno dalle servitù civiche, pagando un canone agli enti – Comune, Frazione, Associazione agraria – rappresentativi delle comunità di abitanti beneficiarie dei suddetti diritti). Istituiva, poi, procedure di accertamento e verifica degli usi civici e delle proprietà collettive, istituendo i Commissari regionali agli usi civici quali organi responsabili delle relative funzioni amministrative e della soluzione delle eventuali controversie giurisdizionali. Tutte le proprietà collettive italiane, espressioni di gruppi sociali e assetti fondiari fra loro a volte profondamenti diversi, venivano assimilate all’unico modello dei demani comunali del Meridione (attraverso la previsione dell’art. 26 della legge stessa, dove è fissato il principio della necessaria apertura dei beni di usi civico di una Associazione agraria a tutti i cittadini del Comune). Per tali proprietà si prevedeva un procedimento amministrativo di assegazione delle terre a categoria. Le terre comuni assegnate a categoria A (boschi e pascoli permanenti) ottenevano un vincolo di assoluta inalienabilità, imprescrittibilità e indivisibilità (in quanto destinate ad una finalità economica non modificabile) ed erano affidate alle organizzazioni che già le gestivano (Comuni, Università ed Associazioni Agrarie, Regole, Partecipanze, ecc.) in nome e per conto delle popolazioni; quelle assegnate a categoria B (terre di prevalente vocazione agricola) erano destinate alla c.d. quotizzazione, cioè ad essere ripartite fra i coltivatori del luogo, con preferenza per quelli meno abbienti, per essere da questi utilizzati per la coltura agraria. In pratica, con la quotizzazione delle terre di categoria B accadeva che una parte rilevante dei domini collettivi veniva ad essere sottratta alle popolazioni che le possedevano (a volte anche da secoli) per essere assegnata in proprietà privata. La legge generale del 1927 è una legge rigorosa ma compie una scelta consapevole di preferenza per lo sfruttamento individuale della terra piuttosto che per il modello collettivo. E le popolazioni reagirono immediatamente. Infatti, già nel 1928, con il regolamento di attuazione (R.D. 332/1928) della legge generale sugli usi civici, si riconosceva alle Associazioni agrarie composte di determinate famiglie (cioè le collettività chiuse, unite da vincoli di sangue o ‘vincoli agnatizi’, non identificabili con l’intera popolazione di un comune; si trattò, in concreto, delle Partecipanze emiliane), che avessero apportato “sostanziali e permanenti miglioramenti” (art. 65 R.D. 332/1928) alle loro proprietà collettive, di non veder applicate a queste ultime le norme della legge generale del 1927 relative alla quotizzazione delle terre di categoria B. Ciò significava che i demani civici delle Partecipanze emiliane venivano sottratti alla ‘privatizzazione’ consentita dalla legge generale per le terre a vocazione agricola. A partire da allora, si cominciò a distinguere fra proprietà collettive ‘aperte’ a tutta la popolazione di un comune, per le quali la L. 1766/1927 aveva piena applicazione, e proprietà collettive ‘chiuse’, ossie appartenenti a gruppi ristretti di famiglie, che del godimento collettivo della terra facevano la loro ragione di vita e pertanto non dovevano vedersi sottratta tale terra con quotizzazioni a vantaggio di singoli individui.

LE TRE LEGGI SULLA MONTAGNA E L’ART. 3 DELLA L. 97/1994 (3A LEGGE SULLA MONTAGNA)

Iniziò un lungo percorso di legislazione e giurisprudenza, attraverso il quale molte comunità – specialmente quelle dell’arco alpino – si sono viste riconoscere il loro statuto giuridico di collettività chiuse, gelose delle proprie tradizioni, della propria autonomia e delle proprie consuetudini; per le quali è oggi inammissibile la privatizzazione del territorio ove si svolge la loro vita e la loro economia comunitaria; un territorio da considerare ‘bene comune’ indivisibile ed inalienabile, portatore, fra l’altro, di valori costituzionali di primissimo rango, come i diritti della persona di cui all’art. 2 Cost., la libertà di associazione, la tutela dell’ambiente e del paesaggio, il rispetto delle autonomie locali, la protezione dei beni culturali.
Tale percorso può essere sinteticamente descritto come un processo di progressiva estensione dello speciale regime delle proprietà collettive chiuse a un numero sempre maggiore di comunità locali, che così hanno visto protetta l’integrità del loro patrimonio fondiario collettivo. Vi sono state tre tappe fondamentali con le tre successive leggi sulla montagna: L. 991/1952, L. 1102/1971 e L. 97/1994.
In particolare, l’art. 34 della legge del 1952 stabilisce che le comunioni familiari nei territori montani – quindi le collettività chiuse di tali aree – “continuano a godere e ad amministrare il loro beni in conformità dei rispettivi statuti e consuetudini riconosciuti dal diritto anteriore”, riconoscendosi pertanto la loro autonomia ed il loro diritto a continuare a vivere conformemente alla loro tradizione storica di comunità locali che godono e amministrano il proprio territorio in forma collettiva. Per queste comunità, la legge generale del 1927 non può trovare applicazione.
L’art. 10 della 2a legge del 1971 ha sottratto alla privatizzazione delle terre collettive molte realtà del Settentrione; esso ha rinnovato la citata disciplina del 1952, escludendo espressamente dall’applicazione della legge del 1927 “le regole ampezzane di Cortina d’Ampezzo, quelle del Comelico, le società di antichi originari della Lombardia, le servitù della Val Canale”.
Infine, l’art. 3 della L. 97/1994 (Nuove disposizioni sulle zone montane; c.d. 3a legge sulla Montagna) è quello più importante. Esso attribuisce alle Regioni il compito di riordinare la disciplina delle comunioni familiari montane secondo il principio della personalità giuridica di diritto privato. Quel che più interessa, è che nella nozione di ‘comunioni familiari montane’ vengono espressamente fatte rientrare le Associazioni agrarie delle ex Province Pontificie. Ciò significa che con la terza legge sulla montagna anche le Università Agrarie del Lazio, come enti esponenziali delle collettività titolari dei demani civici della regione, si verrebbero a trasformare da enti assimilabili agli enti pubblici non economici (come stabilito dalla prevalente giurisprudenza) in semplici associazioni di diritto privato, sebbene dotate di personalità giuridica. La terza legge sulla montagna ha voluto con ciò riconoscere nelle Associazioni agrarie del Lazio la struttura di comunità chiuse, valorizzandole come istituzioni che incarnano le “formazioni sociali” nelle quali l’uomo esercita i propri diritti inviolabili secondo il dettato dell’art. 2 della Costituzione.
L’art. 3 L. 97/1994 prevede una sorta di ‘delega’ legislativa alle Regioni per il riordino della disciplina delle comunità agrarie titolari di proprietà collettive di tipo chiuso e detta i principi fondamentali ai quali le Regioni stesse dovranno attenersi. Oltre al principio della personalità di diritto privato prescritta per tali enti (come modello organizzativo più consono alla natura di collettività chiuse, composte da gruppi di famiglie legate da vincoli di sangue e dal godimento in comune di una terra) e ferma restando la loro autonomia statutaria, la norma statale incarica le Regioni, in particolare: 1) a disciplinare meccanismi per conservare l’originaria consistenza delle proprietà collettive, nel caso in cui una parte di queste terre venisse destinata ad usi diversi da quello agro-silvo-pastorale. Se, per esempio, la Regione autorizza l’ente locale a destinare una porzione della terra collettiva ad uso edificatorio, ciò deve accadere a condizione che la terra sottratta alla proprietà collettiva venga sostituita con l’acquisto di altra terra; 2) a predisporre le garanzie di partecipazione dei membri dell’originaria comunione familiare alla gestione comune della proprietà collettiva. Si vuole, pertanto, che alla gestione dei beni comuni siano coinvolte le collettività proprietarie; 3) a prevedere forme specifiche di pubblicità dei patrimoni collettivi, cioè a far in modo che si abbia una sorta di censimento-registro delle proprietà collettive regionali; 4) a disciplnare meccanismi di gestione sostitutiva in caso di inerzia delle organizzazioni che amministrano le terre collettive.
In sostanza, la legge del 1994 ha voluto individuare nelle proprietà collettive la categoria di beni chiamata a conservare il patrimonio agro-silvo-pastorale italiano. Essa detta i principi fondamentali della materia anche dopo la riforma dell’art. 117 della Costituzione sulla distribuzione delle competenze legislative fra Stato e Regioni. Poiché le comunioni familiari montane hanno gestito e conservato per secoli i loro territori – è un dato storico, cioè, che l’esercizio di usi civici e la gestione in proprietà collettive delle zone agricole e boschive non compromette la loro conservazione – lo Stato difende il territorio nazionale nel momento in cui tutela i diritti inviolabili di autonomia di queste comunità.

LA REGIONE LAZIO E L’ART. 3 L. 97/1994. UNA DOMANDA AL NUOVO PRESIDENTE DELLA NOSTRA REGIONE.

Fino ad oggi, la Regione Lazio ha attuato solo parzialmente l’art. 3 L. 97/1994. Infatti, la L. Reg. Lazio 1/1986 ha, in effetti, previsto un complesso procedimento amministrativo per autorizzare il cambio di destinazione delle terre collettive di uso civico regionale, con contemporaneo recupero della consistenza originaria attraverso l’acquisto di nuove terre in sostituzione di quelle destinate ad eventuale uso edificatorio.
Manca l’attuazione delle restanti disposizioni dell’art. 3 della 3a legge sulla montagna. Per salvaguardare il patrimonio agro-silvo-pastorale e le proprietà collettive del Lazio, la Regione deve provvedere ad una riforma delle Università Agrarie secondo il modello civilistico delle associazioni riconosciute di diritto privato, e dando il maggiore spazio possibile alla loro autonomia statutaria e di gestione.
Ma ciò fino ad oggi non è successo; anzi, un recente progetto di legge di riordino (Proposta di legge n. 259 del 13 ottobre 2011), curato dalla Giunta Regionale del Lazio sotto la presidenza Polverini, andava nella direzione opposta a quella indicata dal Legislatore nazionale del 1994, poiché accentuava l’attuale configurazione pubblicistica delle Università Agrarie.
Le proprietà collettive gestite dalle Università Agrarie sono beni comuni. La 3a legge sulla montagna vuole riavvicinare i singoli cittadini al bene comune. La materia dei beni comuni, in una fase storica come quella attuale, è di primaria importanza. La competenza legislativa regionale, dopo la riforma dell’art. 117 della Costituzione, è anche essa di primaria importanza. La corretta gestione del territorio regionale è raggiungibile solo attraverso il necessario passaggio dell’attuazione dell’art. 3 L. 97/1994.
Per questo, è mio dovere porre pubblicamente una domanda al nuovo Presidente della Regione Lazio: chiedo pubblicamente all’On. Zingaretti, se l’attuazione dei principi posti dalla legge nazionale del 1994 sulle Università Agrarie e sui territori da esse gestiti faccia parte del programma della nuova Giunta Regionale; se l’urgenza di tale attuazione sia stata dovutamente valutata; quali siano, infine, i provvedimenti che la nuova Giunta Regionale intende adottare e gli uffici e le competenze che intenda predisporre per raggiungere un obbiettivo pubblico tanto nobile quanto difficile come quello del rispetto e dell’attuazione dei principi fondamentali sulle proprietà collettive di uso civico.

 

Costume e Società

Il magico Maestro della Pizza a Fregene: un tributo di Francesco Tagliente a un pizzaiolo straordinario

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Il Prefetto Francesco Tagliente ha recentemente condiviso sulla sua pagina Facebook una commovente testimonianza, raccontando l’incredibile esperienza culinaria vissuta al ristorante Back Flip Da Moisè di Fregene. Questo racconto non è solo un omaggio a una pizza straordinaria, ma anche un tributo a Michelangelo, il pizzaiolo settantaquattrenne la cui dedizione e passione hanno trasformato un semplice piatto in un’opera d’arte.

Seduto al ristorante con sua moglie Maria Teresa, Tagliente ha descritto la pizza come “la migliore che abbia mangiato negli ultimi cinquant’anni”. Tuttavia, ciò che ha reso questa esperienza davvero speciale è stata la scoperta della storia dell’uomo dietro la pizza. Michelangelo, un ex contadino che si sveglia ogni mattina all’alba per curare il suo orto, dedica le prime ore del giorno alla coltivazione delle piante e alla cura della famiglia. Solo dopo queste attività, si prepara per andare al ristorante e mettere tutto se stesso nella preparazione della pizza.

L’Arte di Michelangelo: Tradizione e Passione

Michelangelo non è solo un pizzaiolo, ma un vero e proprio maestro dell’arte culinaria. La sua vita semplice e laboriosa, fatta di dedizione e umiltà, è un esempio di come l’amore per il proprio lavoro possa trasformare un piatto comune in un’esperienza indimenticabile. La sua capacità di fondere la tradizione contadina con la sapienza artigianale nella preparazione della pizza è un’arte rara e preziosa.

Tagliente ha scritto: “La dedizione e l’umiltà di quest’uomo, che dalla vita contadina riesce a creare una delle migliori pizze che abbia mai assaggiato, mi hanno colpito profondamente. Il suo nome rimane anonimo, ma la sua storia di passione e impegno è qualcosa che merita di essere raccontata.”

L’Umanità di Francesco Tagliente

Il racconto del Prefetto Tagliente non solo mette in luce le straordinarie qualità culinarie di Michelangelo, ma riflette anche le qualità umane dello stesso Tagliente. Conosciuto per la sua sensibilità e il suo impegno sociale, Tagliente ha sempre dimostrato un profondo rispetto per le storie di vita quotidiana e per le persone che con il loro lavoro contribuiscono a rendere speciale ogni momento.

La sua capacità di cogliere e apprezzare la bellezza nascosta nei gesti quotidiani e nelle storie semplici rivela un’anima attenta e sensibile, sempre pronta a riconoscere il valore degli altri. Il tributo a Michelangelo è un’ulteriore testimonianza della sua umanità e del suo desiderio di dare voce a chi, con passione e dedizione, arricchisce la vita di chi lo circonda.

Un Esempio di Vita

La storia di Michelangelo, come raccontata da Tagliente, è un potente promemoria di come la passione e l’impegno possano elevare il lavoro quotidiano a forme d’arte. “La sua pizza è un capolavoro che continuerà a risuonare nei miei ricordi, così come la sua storia di dedizione e umiltà,” ha scritto Tagliente, riconoscendo il valore di un uomo che, nonostante l’età e la fatica, continua a regalare momenti di gioia e piacere attraverso la sua cucina.

Questo tributo non è solo un omaggio a un pizzaiolo straordinario, ma anche un invito a riflettere sull’importanza del lavoro fatto con passione e amore. Grazie, Michelangelo, per averci mostrato che dietro ogni grande piatto c’è una grande storia, fatta di lavoro, passione e amore per la semplicità. E grazie, Francesco Tagliente, per aver condiviso con noi questa storia ispiratrice, ricordandoci di apprezzare le piccole grandi cose della vita.

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Roma

Roma, maxi-rissa metro Barberini. Riccardi (Udc): “Occorrono misure decisive”

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Dopo l’ennesima maxi-rissa tra bande di borseggiatori che ha portato alla chiusura della stazione metro di piazza Barberini provocando, tra l’altro panico e paura tra i cittadini romani ed i tanti turisti presenti in città, la politica della Capitale non tarda a far sentire la sua voce.
“Questa ennesima manifestazione di violenza e illegalità non può più essere tollerata. Richiamo con forza il Governo ad un intervento deciso e definitivo. È inaccettabile che i borseggiatori, anche se catturati, possano tornare ad operare impuniti a causa di leggi troppo permissive, che li rimettono in libertà quasi immediatamente.
L’Italia è diventata lo zimbello del mondo a causa di questa situazione insostenibile.
È necessario adottare misure più severe e immediate per garantire la sicurezza dei cittadini e dei turisti. Proponiamo una revisione delle leggi esistenti per introdurre pene più dure e certe per i borseggiatori, rafforzare la presenza delle forze dell’ordine nei punti critici della città e migliorare la sorveglianza con l’uso di tecnologie avanzate”
.

il commissario romano UdC, Roberto Riccardi

A dichiararlo con decisione è Roberto Riccardi, commissario romano dell’UdC.
Da sempre attento ai problemi sulla sicurezza Riccardi fa notare con estrema chiarezza che tali situazioni non fanno altro che portare un’immagine della capitale sempre meno sicura agli occhi dei molti turisti che sono, per la capitale, una fonte di ricchezza economica oltre che di prestigio.
La fermata della Metro A Barberini a Roma è stata teatro di una maxi-rissa tra bande di borseggiatori sudamericani, che ha richiesto l’intervento delle forze dell’ordine e il blocco della stazione per circa 40 minuti. La violenza è scoppiata a seguito di una serie di furti e scippi ai danni dei passeggeri.
Riccardi ha poi concluso: “Non possiamo permettere che episodi come quello avvenuto alla Metro Barberini si ripetano. È ora di passare dalle parole ai fatti, con azioni concrete che ripristinino l’ordine e la sicurezza nelle nostre città. I cittadini hanno il diritto di vivere in un Paese sicuro e il dovere del Governo è garantirlo”.
Molti cittadini ci scrivono ogni giorno preoccupati da questa escalation di violenza e di insicurezza ma soprattutto preoccupati per la poca attenzione che il governo cittadino e quello nazionale stanno avendo nei riguardi di questa situazione ormai alla deriva.

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Cronaca

Roma, metro Barberini: una rissa provoca la chiusura della stazione

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Tragiche le notizie che arrivano in un torrido sabato sera romano.
La stazione metro Barberini viene chiusa per questioni di sicurezza.
All’origine del fatto, avvenuto tra le 19 e le 19,30 una rissa tra nord africani e sudamericani con almeno 15 persone coinvolte. Molti passeggeri spaventati dalla situazione si sono rifugiati nella cabina del conducente fino all’arrivo delle forze di polizia allertate dalla centrale di sicurezza di Atac Metro.
Per ora sono ancora tutti da decifrare i motivi che hanno portato a ciò.

Un’estate romana che sta diventando ogni giorno più bollente.

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