Consiglio di Stato: non si boccia in prima media

BOLOGNA – Nonostante diverse insufficienze ed essere stato bocciato, alla fine di un iter giudiziario potrà accedere lo stesso dalla prima media alla seconda. Protagonista della vicenda – come riporta ‘il Resto del Carlino’ – uno studente di una scuola media di Scandiano, nel Reggiano, grazie a una pronuncia del Consiglio di Stato in base alla quale occorre prendere in considerazione periodi più ampi, nel passaggio dalle elementari alle medie, per decretare un giudizio sull’allievo.
A luglio la bocciatura subita dal ragazzino era stata cancellata da un ricorso ‘eliminato’, a sua volta, alla fine agosto da una decisione del Tar che aveva ravvisato carenze scolastiche a causa dei voti riportati durante l’anno.

Una cosa, questa, che ha spinto i familiari del giovane a rivolgersi al Consiglio di Stato.

Che ha ribaltato la sentenza del Tar poiché, a suo giudizio, nel passaggio dalle elementari alla medie appare necessario che il profitto venga valutato su base biennale e non solo sui risultati del primo anno.




Smartphone e altre “droghe”: c’è chi la chiama “cocaina digitale”

C’è chi la chiama “cocaina digitale”. In effetti hanno molto in comune.
In entrambi i casi vieni preso, portato in un mondo frizzante di illusioni e finte speranze e poi rilasciato in un senso di vuoto e di apatia.
In entrambi i casi non hai idea di essere dipendente da qualcosa.
In entrambi i casi ti senti molto figo perché hai tanti amici virtuali.
In entrambi i casi inizi a vivere una doppia vita.
In entrambi i casi sei solo.
In entrambi i casi ti dici che smetti quando vuoi.
In entrambi i casi non è vero.
È la prima cosa che fai quando apri gli occhi la mattina e l’ultima prima di addormentarti.
Se scrivi un whatsapp a qualcuno che non risponde immediatamente e vedi la fantomatica “doppia spunta blu” vai in ansia, pensi che non voglia più vederti, che forse hai fatto una gaffe senza accorgerti che hai rovinato inesorabilmente il vostro rapporto e ora probabilmente non
potrai mai più riparare, pensi che in effetti potevi usare un tono diverso quando gli hai scritto che era meglio vedervi giovedì e che un rapporto come quello sarà difficile da ricostruire e poi – finalmente – il tuo telefono trilla: ti ha risposto.
Siamo l’esercito della notifica. Del tweet, del like, del poke, del wave…
Un’enorme folla narcotizzata che lentamente scivola nella sillabazione delle risposte farcite di emoticon senza accorgersi di alimentare un analfabetismo funzionale che, probabilmente, non sarebbe opportuno sottovalutare.
Un tempo i bambini facevano rumore al ristorante. Si sbucciavano le ginocchia. Costruivano la casa sotto il tavolo con gli scialli delle mamme e ci portavano dentro le provviste. I pavimenti erano tappeti di pennarelli dove rischiavi di romperti un dente perché i bambini, un tempo, disegnavano.
Oggi hanno le occhiaie presto, quelle da monitor, e gli occhi pallati che cercano di raccogliere tutte le caramelle per finire il quadro… al ristorante non li vedi e non li senti. Sono buoni. Buonissimi. Troppo. Non si muovono più. Forse tra qualche centinaio d’anni non avremo più bisogno delle gambe, ci basterà telecomandarci in giro per il mondo.
Da qualche parte iniziano a spuntare studi, terapie ad hoc per disintossicarci; e iniziamo a renderci conto che non è poi così facile.  Lo smartphone ci è entrato dentro, è una parte del nostro cervello.
Benedetta tecnologia, ma per favore non abituiamoci al punto di non saper più riconoscere quando stiamo per essere lobotomizzati.

Valeria De Luca




Il razzismo? Dipende dal QI basso. Ecco perché

Lo psicologo Gordon Hodson, della Brock Univerisity dell’Ontario, ha effettuato diverse ricerche negli ultimi anni volte ad osservare la correlazione – se mai ce ne fosse una – tra inclinazione ai pregiudizi, agli atteggiamenti conservatori, razzisti o omofobi e il QI.
Un suo famoso studio mette in luce una correlazione piuttosto significativa che non ha mancato e
non mancherà di far discutere.

 

Lo studio

Lo studioso ha infatti selezionato un campione britannico di circa 15000 bambini di 10/11 anni che sono stati sottoposti a test per la valutazione del quoziente intellettivo; lo stesso campione, 20 anni dopo, è stato ascoltato riguardo a opinioni su alcune tematiche del tipo “le donne che lavorano a tempo pieno causano un problema alla famiglia” “saresti disposto o meno a lavorare con persone di altre razze”, “è necessario educare i bambini a obbedire all’autorità”.

 

I test

I bambini che all’epoca del test avevano avuto i risultati più scarsi in termini di QI si sono rivelati essere mediamente più d’accordo con la linea conservatrice-discriminatoria rispetto a quelli che avevano avuto i risultati migliori.

Al netto di generalizzazioni che sarebbero una sterile strumentalizzazione dei risultati della ricerca di Hodson, c’è un dato interessante che emerge da quanto osservato: un QI meno sviluppato risulta essere correlato alla resistenza al cambiamento, all’ostilità nei confronti del diverso e riluttanza verso il nuovo.

 

Le cause

Da questo consegue una posizione meno aperta al diverso in ogni sua forma. Il che riguarda non la bontà della persona ma la sua capacità di elaborare informazioni ad un livello più evoluto.
Il che a sua volta determina il grado di limitazione entro il quale la persona si auto condannerà a vivere, o meno.

 

I dati

Dai dati è emerso anche come le persone con capacità cognitive meno sviluppate tendano ad avere meno contatti con le persone di altre razze e come i soggetti meno capaci di ragionamento astratto tendano a coltivare posizioni maggiormente omofobe.
Si può quindi affermare che gli atteggiamenti discriminatori siano sintomo di una deficienza, in buona sostanza.
Parafrasando qualcuno si potrebbe oggi dire “io ho un sogno: vivere in un mondo nel quale il QI delle persone sia abbastanza elevato da non arenarsi più su questioni – come il pregiudizio e la paura del diverso – che non riguardano a questo punto più la sfera morale ma l’auspicabile
maggiore sviluppo cognitivo dei futuri abitanti del nostro pianeta.

Valeria De Luca




Nervoso, depressione, litigate, aggressioni: ecco perché succede ad agosto

Ad agosto Il caldo impazza. E le persone anche. È ormai assodato che durante il picco estivo aumentino gli episodi depressivi, le litigate tra coniugi, le separazioni, fino ai casi più gravi di suicidi e aggressioni.

Perché accade questo?

Ci sono varie risposte possibili, tra le quali una particolarmente interessante. Il mese di agosto è per antonomasia il mese delle vacanze: le città si svuotano, le attività si chiudono, i negozi si dimezzano.

In poche parole: gli equilibri si rompono

È ampiamente dimostrato che esista una correlazione tra la percezione di benessere e alcuni
parametri che il cervello riconosce come “abituali”.
È il motivo per il quale i cambiamenti, di qualsiasi genere, vengono riconosciuti come fonte di stress. Il nostro cervello riconosce le variazioni come “pericolose”.

In prima istanza perché per gestire una variazione ha bisogno di impiegare più risorse, più energie, più lavoro; in secondo luogo perché il senso di sicurezza si costruisce – a livello neurale – su una base di ripetitività.

Più siamo abituati a vedere qualcosa in un dato modo – positivo o negativo che sia – più tendiamo
a conservarla in quel modo.

Questo funzionamento “a risparmio energetico” delle risorse cerebrali ha degli evidenti vantaggi, perché ci permette di non dover reimparare ogni giorno ciò che abbiamo già appreso, ma comporta degli svantaggi e dei rischi purtroppo non altrettanto chiari e ancora decisamente
sottovalutati: è lo stesso meccanismo per il quale, normalmente, gli individui che vivono in condizioni degradate o sotto il proprio livello di potenziale tendono ad abituarsi a quella condizione e a non percepire realmente le altre possibilità: per il cervello ha più forza ciò a cui è
più abituato, non ciò che ha una maggiore evidenza.

Così accade che chi non è stato compreso e potenziato da bambino tende a non riconoscere le proprie capacità, chi è stato abusato tende a
continuare a farsi abusare, chi è stato maltrattato tende a farsi maltrattare per tutta la vita.

Cosa potrebbe modificare questo meccanismo?

La risposta – come spesso accade – è nell’educazione.
Come sarebbe il cervello delle prossime generazioni se anziché educarle a cercare il posto fisso, la donna o l’uomo della vita, anziché insegnare loro come costruire una vita “sicura” e come “sistemarsi” iniziassimo ad educarli a potenziare le proprie risorse, saper surfare sull’onda dei cambiamenti e accogliere con entusiasmo le novità sviluppando il potenziale inespresso che offrono?

Non può in questi casi non tornare alla mente la lezione degli antichi maestri, che forse ne sapevano ben più di noi che amiamo fare i tuttologhi quando insegnavano che “panta rei”, tutto scorre, e che è un’illusione frustrante e irreale cercare di controllare il flusso della vita quando si può invece imparare a gestire il flusso dei pensieri, delle emozioni, per far sì che il nostro cervello ritorni ad essere quel portentoso strumento di evoluzione che veramente è, anziché essere costretto a mantenersi al minimo del funzionamento come la cultura moderna ci sta insegnando a fare con le emoticon, gli influencer e le assicurazioni sulla vita.

Mi piacerebbe sbirciare nei ferragosti dell’umanità per poter osservare dove, esattamente, abbiamo iniziato a creare i ritmi alienati della routine e abbiamo associato la loro rottura a qualcosa che produce malessere anziché vivere la nostra vita, come davvero si potrebbe,
nell’entusiasmante processo dionisiaco della creazione.

Valeria De Luca




I nuovi mostri: ecco il fitness della generazione 2.0

Sono i campioni indiscussi del pendant, nei loro completi fluo abbinati alle borse fluo.
Camminano veloce, verificando il meteo del pomeriggio sullo smartphone.
Hanno il contapassi al braccio, per essere sicuri di fare abbastanza attività fisica e vivere in modo salutare.
Fanno la dieta delle intolleranze, quelle del gruppo sanguigno, quella vegana e quella dissociata. Seguono percorsi spirtuali pret a porter e poi si iscrivono in palestra.
Ma oggi la palestra non è più una palestra: è un gigante antropofago che inghiotte tutti, scheda tutti, calcola la massa grassa, la massa magra, il peso forma e il percorso di fitness più adeguato a ogni esigenza.
Il paradiso del disturbo dismorfofobico, dove per ogni parte del corpo che non sia assolutamente perfetta c’è un training adeguato che attraverso sforzo, ottimismo e dedizione porterà sicuramente i risultati sperati.

Ma chi sono i nuovi mostri?

Gente normale. Con vite normali. Famiglie normali.
Prenotano le lezioni online, almeno tre giorni prima altrimenti finiscono i posti; i più scaltri lo fanno alla mezzanotte del primo giorno utile, per bruciare la concorrenza. Escono dall’ufficio e corrono subito lì, “alla Palestra”, perché essere fitness è molto meglio che avere degli amici, delle passioni, dei momenti di ozio.
Fanno hydrobyke, anti gravity pilates, Spirit Ride, functional Boxing Punch. Anche due, tre, quattro volte a settimana. E lo fanno con musica da discoteca e l’insegnante che scandisce il ritmo: “alza, avanti, avanti, di lato, più forte!”
Lo fanno dopo una giornata di lavoro, affollandosi tutti negli stessi orari. Per smaltire lo stress c’è lo Yoga, Calm e Strenght, e la Spa con idromassaggio, doccia emozionale, bagno turco, bagno mediterraneo e sauna.
L’illusione del benessere.
La banalità del male, diceva qualcuno. Dove a poco a poco ci si abitua a qualsiasi aberrazione.
Perché diventa “normale”, perché “tutti lo fanno”.

Come ci siamo ridotti così?

Mi vengono in mente le Accademie dell’antica Grecia, dove i maestri insegnavano ai giovani allievi l’arte di educare il corpo e lo spirito; dove il culto del corpo era un rituale dionisiaco che conviveva in armonia con l’apollinea dedizione allo studio; dove la Dea aveva larghi fianchi e seni scoperti senza malizia.
Lasciando perdere l’antica Grecia mi vengono in mente gli appuntamenti in piazza, acchiapparella, ruba bandiera e mi viene da chiedermi: quando, esattamente, abbiamo smesso di giocare per diventare dei pump practitioners senza un filo di grasso addominale ma preda di una imperterrita atrofia cerebrale?

Valeria De Luca




Che cos’è il cambiamento? La spiegazione è nella fisica quantistica

Quando siamo bloccati in qualcosa che non cambia spesso pensiamo “non c’è via d’uscita”, “sarà sempre così”. È vero?

Dal punto di vista della fisica quantistica la “mancanza di possibilità” semplicemente non esiste.

Secondo le nuove scienze infatti, siamo parte di un vasto campo elettromagnetico di informazioni che contiene e riflette tutte le nostre realtà, pensieri ed emozioni.

La nostra mente influenza in maniera determinante la realtà circostante: potremmo anzi dire che concorra a crearla.

Andiamo con ordine: Albert Einstein, con la sua famosa equazione E=mc2, sostanzialmente dimostrò una cosa: materia ed energia sono interscambiabili, sono un’unica cosa. Questo mise in crisi l’intera visione del mondo di tipo dualistico Newtoniano/Cartesiano e aprì la porta a tutte le nuove – e straordinarie – teorie scientifiche.

Lo studio dello sbalorditivo comportamento della luce, che ha la caratteristica di comportarsi a volte come onda e a volte come particella, di fatto diede luogo alla nascita della moderna fisica quantistica.

Tutto ciò che fino a quel momento era stato determinabile, calcolabile, definibile, da quel momento in poi poteva essere guardato soltanto in termini di potenzialità, probabilità e indeterminazione.

Cosa c’entra questo con il nostro cervello e con il cambiamento?

Una delle scoperte più interessanti di questi studi fu quella di rilevare come le particelle modificassero il loro comportamento in presenza o meno di un osservatore: se l’occhio del ricercatore si “aspettava” di misurare un comportamento come onda, la particella si comportava come un’onda, se si aspettava di misurare dati relativi a una materia, si comportava come materia.

Buone maniere della particella? Piuttosto una rivelazione sconvolgente: l’attenzione focalizzata su qualcosa ha la capacità di modificare la materia e farla manifestare in un modo o in un altro.

Ecco che torniamo al cambiamento: nel campo quantistico esiste una realtà possibile nella quale, se siamo malati, godiamo di ottima salute, una realtà nella quale, se stiamo vivendo un fallimento, abbiamo invece un pieno successo… di fatto esiste una realtà potenziale nella quale è già attualizzato tutto quello che noi desideriamo.

Cosa resta da fare, quindi? Permettere a quella realtà potenziale di “collassare” nella realtà fisica attraverso l’educazione dei nostri pensieri, sentimenti ed emozioni focalizzate.

Esiste un cambiamento che non è attuabile? Tecnicamente no. La sola cosa che può impedirlo è avere dei punti di vista limitanti su qualcosa che non ci permetta di focalizzare la nostra attenzione nella direzione della realizzazione.

Come sarebbe, in questo clima di impotenza e fatalismo generale, riappropriarsi del proprio potere di cambiamento?

Valeria De Luca




Roma, trionfo di colori all’ex Mattatoio: boom del burlesque

ROMA – Per tre giorni è sembrato di essere al carnevale di Rio ma in realtà nella città dell’altra economia a Testaccio –  sede quest’anno anche del Gay Village – è esploso il festival internazionale di burlesque, un divertente spazio all’interno della manifestazione appena conclusa “Caput Mundi Summer Edition”.

È stato un trionfo di colori, musica, bellezze e soprattutto di corpi. Un connubio particolare e affascinante perché c’era di tutto, dai fisici perfetti a quelli meno in forma.

E la carta vincente dell’evento è stata proprio la gioia: quei corpi felici di essere vivi ed esporsi nonostante età e fattezze, ritrovare nel teasing (così si chiamano i movimenti tecnici della seduzione nel burlesque) quel divertimento e quella seduttività giocosa che ha come unico
obiettivo godersi il proprio corpo e farne dono a tutti.

Bellezze in paillettes e abiti circensi di corsa per raggiungere il palco. Tante soubrettes e aspiranti performers sventolavano grandi ventagli di piume colorati ricordando le coreografie del film animato “Fantasia”. Avventori intenti a guardare divertiti questo spettacolo inusuale sorseggiando un aperitivo nei bar all’aperto allestiti per la stagione.

Nei workshop del pomeriggio si danzava guidati da Chris Oh, ballerino dell’etoile e boylesque di fama internazionale, si giocava alla commedia con la meravigliosa Amber Topaz, performer americana, si imparava il fire eating con Genny Mirtillo e le sue torce impregnate di “acqua di fuoco”, si studiavano i propri personaggi attraverso i movimenti degli animali.

Un parterre ricco di tante altre iniziative, spettacoli, esibizioni delle migliori scuole di burlesque italiane, come quella di Albadoro Gala, organizzatrice del festival e Burlesque Mon amour di Honey Madlene.

Obiettivo centrato dunque quello di un festival che ha trasmesso la natura del burlesque, nato come l’arte della burla, dell’inezia, della parodizzazione di qualcosa di drammatico.

Uno spettacolo che nel tempo è stato accomunato anche allo streaptease perché oltre a colorarsi di elementi di varietà, ha mostrato ragazze sempre meno vestite, seppur con alcuni elementi tipici come gli abiti esagerati, il codice del teasing e un’iconografia piuttosto caratteristica.

Oggi il burlesque riemerge con tutta la sua capacità di fascinazione facendo breccia in un epoca dove a tenere banco sono le donne  anoressiche, l’esagerata esibizione dei corpi che rivela una grande distanza da una vera intimità, il sesso fast food e un, diciamolo pure, imbecerimento generale dei costumi. E anche se per alcuni rimane un semplice esibizionismo, molti ne riconoscono la capacità pacificatoria, poetica e fintanto terapeutica di questo mezzo che permette al corpo di tornare in proscenio non come oggetto di giudizio o di utilizzo ma come luogo di scoperta della sensualità, del gioco e dell’arte più antica del mondo: l’erotismo.

Laddove una donna seminuda non fa alcun effetto fa invece colpo, finalmente, rivedere corpi con sguardi vivi, ammiccamenti, il potere che l’eleganza dei piccoli gesti ha e che molto spesso dimentichiamo consumando tutto online delivered.

Evviva il corpo che si riappropria di sé stesso, la danza dei colori, la gioia di buttare via i parametri di bellezza in centimetri e riguadagnare l’intensità della consapevolezza dell’erotismo e del gioco.

Valeria De Luca