Criminalità organizzata, ecco lo scenario drammatico del Lazio

Le ultime notizie di cronaca hanno riacceso i riflettori sul problema della criminalità organizzata nel territorio laziale. Ma è una storia vecchia, che torna alla ribalta quando si vuole spostare l’attenzione su altro. Adesso sembra che tutto provenga dal litorale romano, ma non è del tutto vero. L’Osservatorio Tecnico-Scientifico sulla Sicurezza e la Legalità rileva nel Lazio 92 organizzazioni criminali.

 

Uno scenario a dir poco drammatico

La novità degli ultimi anni è che le mafie tradizionali non si limitano più a investire ingenti risorse attraverso prestanome o teste di ponte, rimanendo a distanza, perché oggi alcune inchieste (soprattutto sul gioco d’azzardo e il narcotraffico) dicono che c’è stato un cambio di scenario. Le strutture criminali si sono trasferite a Roma e gestiscono le attività in modo diretto e capillare sullo stesso territorio. Sono bande nate nel cuore delle nostre città e dei nostri quartieri, per lo più grandi famiglie che non si fanno la guerra, perché le mafie sono interessate agli introiti economici e vogliono una sorta di pax tra i vari criminali.

 

Sulla capitale e sul tutto il territorio regionale ormai è presente di tutto

Dalla camorra, passando per le famiglie legate alla ‘ndragheta per finire con la mafia siciliana. La scelta delle cosche di investire a Roma e nel Lazio viene privilegiata innanzitutto per la facilità di mimetizzazione degli investimenti, in un territorio particolarmente vasto e caratterizzato dalla presenza di numerosissimi esercizi commerciali nonché di attività imprenditoriali, società finanziarie e di intermediazione, immobili di pregio. Sulla Capitale e nel territorio della provincia di Roma, incidono circa 76 clan, 23 invece sono le organizzazioni dedite al narcotraffico, nei diversi quartieri che compongono il territorio capitolino. Come già ampiamente illustrato, a Roma sono significativamente presenti e con un ampio potenziale criminale, le mafie cosiddette “tradizionali” (‘ndrangheta, camorra e Cosa nostra). Sul territorio non opera soltanto la criminalità di casa, nel corso degli ultimissimi anni si sono fatte strada organizzazioni criminali di matrice straniera in particolare di etnia nigeriana, albanese, cinese e georgiana. Le organizzazioni mafiose nigeriane hanno da decenni una dimensione transnazionale pur mantenendo i centri di comando in Nigeria, nella Capitale e nelle province di Roma e Viterbo.

 

Lo scorso anno, secondo i dati della Regione Lazio, nel territorio delle cinque province sono stati confiscati alle mafie 1270 beni immobili

Dopo Sicilia, Campania, Calabria, Puglia e Lombardia, il Lazio è la sesta regione in Italia per numero di beni confiscati. Di questi il 65,7% è sotto la gestione dell’Agenzia nazionale dei Beni sequestrati e confiscati (Anbsc), mentre la parte restante è già stata destinata prevalentemente ai comuni. Sono 86 i comuni del Lazio interessati dalla confisca di almeno un immobile, ossia il 28% dei comuni laziali che, per il 90%, si trovano nelle province di Roma, Frosinone e Latina. Infine, un capitolo a parte è dedicato alla situazione della criminalità nelle proprietà immobiliari delle Aziende territoriali per l’edilizia residenziale (Ater) che appaiono in balia di alcune consorterie criminali nella gestione degli immobili, occupati abusivamente, o per la vendita di sostanze stupefacenti.

 

L’Ater di Roma gestisce 48.000 alloggi, con un numero di inquilini pari a 148.000 abitanti

La struttura regionale ha trasmesso dal primo settembre 2015 all’8 febbraio 2016, 72 notizie di reato all’autorità giudiziaria, tutte inerenti il reato di occupazione abusiva di edifici. Nel complesso residenziale Ater di Frosinone denominato il Casermone sono state effettuate due significative operazioni antidroga che hanno colpito due agguerrite associazioni criminali, operative 24 ore su 24 con sentinelle e addetti alla vendita di stupefacenti. Una delle strutture criminali guadagnava giornalmente cifre oscillanti dai 10.000 ai 40.000 euro, con una “clientela” proveniente da tutta la provincia (gli inquirenti registravano accessi giornalieri anche di 500 persone). Il Lazio si presenta come la regione che ha maggiori criticità in relazione alla diffusione delle droghe, con oltre 4.000 soggetti coinvolti, seguita da Lombardia e Campania. Dalla relazione emerge che le province di Viterbo e Rieti sembrano essere quelle meno interessate dal fenomeno della criminalità organizzata, anche se la relazione pone una particolare attenzione ai pericoli delle consorterie criminali nei lavori per la ricostruzione in seguito al terremoto.

Marco Staffiero




Rapporto del Censis: Italia invecchiata e ferita

Il 51° Rapporto del Censis presentato oggi sulla situazione sociale del Paese/2017 non è dei migliori. Del resto, oltre ai continui proclami pubblicitari, l’indagine del Censis presenta la triste realtà. “La società appare sconnessa, disintermediata, a scarsa capacità di interazione, a granuli via via più fini” scrivono gli analisti del Censis. “La ripresa registrata in questi ultimi mesi sembra indicare, più che l’avvio di un nuovo ciclo di sviluppo, il completamento del precedente” indicano ancora.

“Nella ripresa – si legge – persistono trascinamenti inerziali da maneggiare con cura. Non si è distribuito il dividendo sociale della ripresa economica e il blocco della mobilità sociale crea rancore. L’87,3% degli italiani appartenenti al ceto popolare pensa che sia difficile salire nella scala sociale, come l’83,5% del ceto medio e anche il 71,4% del ceto benestante. Pensano che al contrario sia facile scivolare in basso nella scala sociale il 71,5% del ceto popolare, il 65,4% del ceto medio, il 62,1% dei più abbienti”.

 

Il Censis segnala che gli ultimi anni, segnati da livelli di crescita misurata in pochi o nessun punto decimale del Pil, hanno cambiato il Paese. In risposta alla recessione, la società italiana si è mossa quasi esclusivamente lungo linee meridiane, attraverso processi a bassa interferenza reciproca, con l’effetto di disarticolare le giunture che uniscono le varie componenti sociali. E le riforme dell’apparato istituzionale per la scuola, il fisco, la sanità, la difesa interna e internazionale, le politiche attive per il lavoro, gli incentivi alle imprese, il rammendo delle grandi periferie urbane, fino alle riforme di livello costituzionale, sono rimaste prigioniere nel confronto di breve termine, insomma all’Italia manca la capacità di guardare oltre, di guardare avanti.

 

Gli analisti del Censis avvertono che “siamo un Paese invecchiato che fatica ad affacciarsi sullo stesso mare di un continente di giovani; impotente di fronte a cambiamenti climatici e a eventi catastrofici che chiedono grandi risorse e grande impegno collettivo; ferito dai crolli di scuole, ponti, abitazioni a causa di una scarsa cultura della manutenzione; incerto sulla concreta possibilità di offrire pari opportunità al lavoro e all’imprenditoria femminile, immigrata, nelle aree a minore sviluppo; ambiguo nel dilagare di nuove tecnologie che spazzano via lavoro e redditi; incapace di vedere nel Mezzogiorno una riserva di ricchezza preziosa per tutti”. “Il futuro si è incollato al presente. Ma proprio lo spazio che separa il presente dal futuro è il luogo della crescita” avverte ancora il Censis che rileva una politica che “invece ha mostrato il fiato corto” e di “decisori pubblici rimasti intrappolati nel brevissimo periodo”. “Se chi ha responsabilità di governo e di rappresentanza si limita a un gioco mediatico a bassa intensità di futuro, resteremo nella trappola del procedere a tentoni, senza metodo e obiettivi, senza ascoltare e prevedere il lento, silenzioso, progredire del corpo sociale”.

Marco Staffiero




Allarme Caritas: giovani più poveri dei genitori

Mancano poche settimane alla fine dell’anno e la tanto decantata ripresa non ha caratterizzato nemmeno il 2017. Ancora slogan pubblicitari per recuperare un voto per qualche possibile elezione all’orizzonte. Niente di più, ed intanto il nostro paese continua a precipitare. Dai salotti degli economisti illustri si decanta un paradossale aumento del Pil dello 0,000001 %. Buono per far addormentare ancora di più un paese che piange per l’eliminazione della nazionale dai mondiali o si prepara con tutta euforia alla prossima partita di calcio.

 

La situazione reale è un’altra: i giovani sono sempre più a rischio esclusione sociale. E’ la fotografia poco rassicurante del rapporto Caritas 2017 sulla povertà giovanile presentato oggi a Roma da mons. Nunzio Galantino, segretario generale della Cei e da don Francesco Soddu, direttore di Caritas Italiana.

 

“Il futuro di molti giovani in Italia non è serenamente proiettato verso l’avvenire”, sottolinea il rapporto dal titolo significativo ‘Futuro anteriore’. Nel dettaglio, nella fascia di età 18-34 anni è povero 1 su 10 e il rischio povertà ed esclusione sociale tocca il 37% dei giovani italiani. Complessivamente, in dieci anni la situazione è andata peggiorando visto che il numero complessivo di poveri è aumentato del 165,2% in un decennio: nel 2016 le persone in grave povertà sono risultate 4 milioni e 742mila. “I dati parlano chiaro – ha osservato il segretario generale della Cei, mons. Nunzio Galantino – . Nel nostro Paese, i figli stanno peggio dei genitori, i nipoti stanno peggio dei nonni. Che fare allora come credenti? Sentiamoci ingaggiati in nome del Vangelo. I professionisti dell’indignazione non mi convincono perchè è uno sport molto vicino a quello dello scaricabarile. La povertà non ha colore, da chiunque viene sperimentata fa male e basta.

 

Stop alle strumentalizzazioni”. Nel dettaglio, spiega il rapporto Caritas che oggi “un giovane italiano su dieci vive in uno stato di povertà assoluta. Nell’ultimo decennio l’incidenza della povertà tra i giovani (18-34 anni) è passata dall’1,9% al 10,4%”. A diminuire è la percentuale tra gli over 65, passata dal 4,8% del 2007 al 3,9%. “Rispetto al passato, ad essere maggiormente penalizzati dalla povertà economica e dall’esclusione sociale non sono più gli anziani o i pensionati, ma i giovani – registra il rapporto -. Se negli anni antecedenti la crisi economica la categoria più svantaggiata era quella degli anziani, da circa un lustro sono invece i giovani e giovanissimi (under 34) a vivere la situazione più critica, decisamente più allarmante di quella vissuta un decennio fa dagli ultra-sessantacinquenni”. Preoccupa la situazione dei minori: in Italia, 1 milione 292mila sono nella povertà assoluta (il 12,5% del totale). Particolarmente drammatica la condizione delle famiglie dove sono presenti tre o più figli minori per le quali l’incidenza della povertà sale al 26,8%, coinvolgendo quasi 138mila famiglie e oltre 814mila individui. Risulta ampio il divario relativo all’incidenza della povertà tra i nuclei di soli stranieri (25,7%) e misti (27,4%) rispetto a quella di soli italiani (4,4%).

 

Giovani penalizzati rispetto ai coetanei europei. La povertà giovanile coinvolge nel vecchio continente più di 15 milioni di ragazzi tra i 16 e i 24 anni (il 27,3% del totale). In questo contesto si registra in Italia un forte aumento della povertà giovanile: i ragazzi a rischio di povertà ed esclusione sociale in Italia sono passati da 1 milione e 732mila del 2010 a 1 milione e 995mila del 2015 (223mila giovani poveri in più, pari ad un incremento del 12,9%). Secondo il Rapporto, il rischio di povertà ed esclusione sociale riguarda il 33,7% dei giovani italiani (il 6,4% in più rispetto a quanto accade nel resto d’Europa). L’Italia, dunque, è il terzo Paese dell’Unione ad aver incrementato il numero dei giovani in difficoltà. E se la Spagna, con un aumento di oltre 300mila unità in soli 5 anni, fa segnare il record negativo, ci sono Paesi che sono riusciti a ridurre il fenomeno della povertà giovanile, come nel caso di Polonia (328mila poveri in meno), Francia (-321mila) e Germania (-236mila). Nei centri di ascolto oltre il 40% di nuovi utenti. Chiedono viveri, vestiario, accesso alla mensa, servizi di igiene personale, poi sussidi economici per il pagamento di bollette/tasse, canoni di affitto o spese sanitarie. Questa è la realtà di oggi!

Marco Staffiero




Italia, emergenza bambini che vivono in povertà assoluta: Save the Children lancia l’allarme

Il tempo passa e quotidianemente ci viene ricordato, attraverso ricerche in che situazione sta sprofondando il nostro Paese. Questa volta a lanciare l’allarme è Save the Children, attraverso l’Atlante dell’infanzia a rischio “Lettera alla scuola”, presentato oggi a Roma e pubblicato da Treccani.

 

L’indagine punta l’attenzione verso l’aumento di bambini che vivono in povertà assoluta. E non sempre la scuola riesce a colmare il gap socio-economico che c’è tra loro e chi è più fortunato. Nel 2016, ricorda Save the Children, un bambino su otto vive in condizioni di povertà assoluta, il 14% in più rispetto all’anno precedente. E le diseguaglianze sociali “continuano a riflettersi sul rendimento degli alunni”. Il tasso di ripetenze è 6 volte maggiore nelle scuole che presentano un indice socio-economico e culturale più basso: più di un quindicenne su 4 (27,4%) contro una quota di quasi uno su 23 (4,4%) negli istituti con indice alto. Una differenza di 23 punti percentuali, contro una media Ocse del 14,3%. Inoltre, tra chi proviene da un contesto svantaggiato, quasi uno su due (47%) non raggiunge il livello minimo di competenza in lettura, otto volte tanto rispetto a un coetaneo cresciuto in una famiglia agiata (6%).

 

La provenienza incide anche sulla dispersione scolastica: il rischio, sottolinea Save the Children, è “elevato” tra i bambini e i ragazzi che vivono in condizioni di disagio. In generale, l’abbandono è un problema che ogni anno può riguardare “oltre 130 mila ragazzi” e “continua a essere tra le sfide maggiori per la scuola italiana”.  Save Children, 6 su 10 fuori da attività culturali – Attività culturali e ricreative irraggiungibili per 6 bambini su 10. In Italia il 59,9% dei ragazzi tra i 6 e 17 anni non riesce a svolgere in un anno quattro attività culturali tra accesso a internet, lettura, sport, visite a siti archeologici e musei, partecipazione a spettacoli teatrali e concerti. La povertà culturale si accentua tra i bambini con risorse economiche scarse o insufficienti rispetto a quelli che vivono in famiglie con risorse ottime o adeguate. L’accesso a internet almeno una volta nel corso dell’anno non è stato possibile per un ragazzo con risorse limitate su tre (34,8%), contro il 25% tra chi è più agiato. Il 58,1% non ha letto neanche un libro (contro il 48,9%), il 53,5% non ha fatto sport in modo continuativo (34,6%), il 77,9% non ha visitato monumenti e siti archeologici (63,6%), l’82,3% non ha assistito a concerti (73,3%), il 64,6% non ha visitato mostre o mostre (48,1%), il 75,6% non è mai andato a teatro (64,1%). Rispetto alla media nazionale del 59,9%, a livello regionale, è il Trentino – Alto Adige a raggiungere il risultato migliore, con valori tra il 41,8 e 42,8%.

 

Fanalino di coda invece Campania, Calabria e Sicilia, con valori tra 75,5 e 78,2%. Altri dati (Caritas) per confermare la situazione di enorme disagio. La povertà in Italia è da sette anni in aumento esponenziale: si è passati da 1,8 milioni di persone povere nel 2007, il 3,1% del totale, a 4,6 milioni del 2015, il 7,6%.La persistente crisi del lavoro ha infatti penalizzato e sta ancora penalizzando soprattutto i giovani e giovanissimi in cerca di occupazione e gli adulti rimasti senza impiego. La povertà assoluta riguarda soprattutto il sud-Italia, le famiglie con anziani, i nuclei con almeno 3 figli minori e quelli senza componenti occupati. Ma è anche notevolmente cresciuta in altri, prima ritenuti meno vulnerabili: il centro- nord, le famiglie giovani, i nuclei con 1 o 2 figli minori e quelli con componenti occupati.

Marco Staffiero




Rieti, imprese: forte ottimismo sul futuro nonostante i segnali negativi

RIETI – In qualche modo il quadro economico della provincia di Rieti non si distacca dalla situazione regionale e tantomeno da quella nazionale. Oltre i soliti proclami e promesse da continua campagna elettorale, la situazione economica in tutta la provincia non è delle migliori. Ciò che da speranza è l’ottimismo nelle singole imprese. A disegnare un quadro complesso è stata la Federlazio Rieti con la consueta Indagine Congiunturale sullo stato di salute delle Pmi della provincia.

 

L’Indagine, svolta su un campione rappresentativo di imprese associate, è stata presentata nel corso di una conferenza stampa dal presidente della Federlazio di Rieti, Riccardo Bianchi, e dal Direttore Davide Bianchino. Il quadro che emerge dalla rilevazione sulle Pmi reatine del I semestre 2017 è abbastanza instabile e bisognoso di approfondimento. Se da una parte i segnali generali registrati appaio sostanzialmente negativi soprattutto per il mercato estero, quello interno non ci segnala sostanziali elementi di emergenza. Dove, però gli indicatori di performance aziendale presi in esame nella nostra indagine ci mostrano che le imprese di Rieti si stanno avviando sulla strada di una ripresa, seppur ancora lenta, è nelle previsioni sul prossimo futuro.

 

Tutti i dati inerenti le previsioni per il secondo semestre 2017 sono positivi e in crescita rispetto al passato. Questo anche per quanto riguarda il mercato estero, sia dai Paesi UE che quelli Extra UE, attualmente dove sembrerebbe ci siano le maggiori difficoltà nel reatino. Alcuni dati esemplificativi: il saldo di opinioni sull’andamento degli ordinativi ricevuti dal mercato nazionale aumenta leggermente rispetto al semestre precedente, passando da -8 a -6,2. Tende a salire la previsione per la seconda metà dell’anno in corso (saldo uguale a zero). Andamento in calo, invece, lo si riscontra sia per quanto riguarda gli ordinativi dal mercato europeo che dai mercati extra UE con il saldo di opinioni che, in entrambe i casi, è di segno negativo. Il saldo di opinioni per il mercato UE passa da +4 a -2,6 per tornare in crescita nelle previsioni dei prossimi 6 mesi (+11).

 

Sul mercato Extra UE questa tendenza è ancora più evidente: da 18,5 a -9,5. Anche in questo caso però le previsioni per il futuro sono positive (saldo +10,3). Per quanto riguarda il fatturato, in Italia registriamo un calo del saldo di opinione che passa da -6,7 a -10,3, ma anche qui le previsioni delle imprese sono buone per il futuro (saldo uguale a zero). Diminuisce anche il mercato estero: il saldo UE passa da 7,3 a -4, mentre quello Extra UE da 10,1 a -5. Anche in questo caso le previsioni per il prossimo semestre sono più rosee: 12,9 mercato UE, 13,8 per quello Extra UE. Diminuisce ancora il saldo della produzione (da -4,2 a -7,7). Un’inversione di tendenza è però prevista anche in questo caso per le proiezioni sul prossimo semestre, con il saldo di opinioni che dovrebbe tornare di segno positivo (+2,1).

 

Segnali finalmente molto positivi sul fronte investimenti: il 41,7% delle imprese intervistate ha dichiarato di averne effettuati nel primo semestre 2017, percentuale in aumento rispetto al semestre precedente (19,4%). Anche le prospettive future sembrano far trasparire una certa fiducia, con una previsione ancora migliore per il prossimo semestre (53,1%). Nel primo semestre 2017, il 14,8% delle imprese del campione reatino ha dichiarato di aver sostenuto spese per attività di Ricerca e Sviluppo. Il dato aumenta ancora nelle previsioni sul prossimo semestre, raggiungendo il 22,7%. Il 3,5% lo ha fatto per rapporti con Start up innovative. Il dato sale al 20,8% nelle previsioni sul prossimo semestre. Il rapporto tra imprese esistenti e gli innovatori è fondamentale per ridare forza all’economia del territorio e il dato rilevato ci dimostra che c’è ancora molto da lavorare in questo senso. I dati sull’occupazione registrano un calo: il saldo di opinioni fa un balzo da zero a -6,3.

 

Traspare però ancora un forte ottimismo sul futuro: per il prossimo semestre il saldo sull’occupazione previsto è di +23,1. Ma si tratta di una previsione. “I dati della nostra indagine Congiunturale rispecchiano in pieno il sentimento di instabilità che aleggia tra i nostri imprenditori. C’è però da aggiungere che l’attività di investimento da parte delle imprese risulta in aumento. Sia nei valori attuali, sia nelle previsioni sul prossimo futuro. La qual cosa è tutt’altro che secondaria, perché sono essenzialmente gli investimenti a dare gambe ad una possibile prospettiva di crescita, proprio perché impattano direttamente sul potenziale produttivo del sistema economico.

 

In conclusione, ci troviamo di fronte ad una situazione generale oggettivamente poco felice sul fronte dei numeri ma che potrebbe ribaltarsi completamente nei prossimi mesi, come dimostrano le previsioni ottimistiche degli imprenditori. Per ottenere ciò, però, è necessario che tutti i protagonisti del mondo economico e politico facciano la propria parte”. Questa la dichiarazione del Direttore di Federlazio Rieti, Davide Bianchino. “In questa delicata fase, in cui riscontriamo un rallentamento della produzione dovuta anche agli effetti diretti ed indiretti del post terremoto, è necessaria una iniezione di fiducia da trasmettere alle imprese. Bandi regionali per il sostegno delle imprese nell’area del cratere, Zona Franca Urbana con relativi sgravi contributivi e fiscali, vanno sicuramente nella giusta direzione. Le aziende di Rieti hanno però bisogno di qualcosa in più, in quanto scontano una situazione economica tutt’altro che felice presente già prima degli eventi sismici. L’auspicio è quindi che l’attenzione sul nostro territorio non venga distolta dopo che i riflettori sul terremoto saranno definitivamente spenti. A questo proposito, ci auguriamo anche che i recenti annunci del Ministro Delrio sui progetti di potenziamento della Salaria e sulla realizzazione della ferrovia diretta Rieti-Roma non rimangano tali, come purtroppo accaduto in passato, ma si trasformino finalmente in una concreta ed utile realtà per questo territorio”. Questa la dichiarazione del Presidente di Federlazio Rieti, Riccardo Bianchi.

Marco Staffiero




Inquinamento ambientale: Roma in caduta libera verso il fondo della classifica

ROMA – Non arriva niente di buono sul fronte della sostenibilità ambientale, soprattutto per quanto riguarda la Capitale d’Italia. Un tema che dovrebbe essere tra i primi in quanto riguarda la salute dei cittadini. Ma nel palazzo si parla di tutto e di niente ed i problemi invece di essere risolti aumentano e si moltiplicano mese dopo mese. Proprio oggi Legambiente ha presentato a Milano l’edizione 2017 di Ecosistema Urbano, il dossier sulle perfomance ambientali dei capoluoghi di provincia giunto alla XXIV edizione, e realizzato in collaborazione con “Ambiente Italia” e “Il Sole 24 Ore”. Lo studio guarda alle politiche di sostenibilità ambientale messe in campo tramite l’analisi di 16 diversi indicatori che valutano insieme la qualità dell’aria, la salubrità del ciclo delle acque, i risultati che provengono dai modelli di gestione di rifiuti, lo sviluppo di mezzi pubblici, ciclabilità e aree pedonali a discapito del mezzo privato, la diffusione delle rinnovabili. I volontari di Legambiente Lazio hanno presentato i numeri della capitale e delle città capoluogo del Lazio esponendo, con un blitz a pochi metri dal Campidoglio, lo striscione “IN NOME DEL POPOLO INQUINATO”, perchè la Capitale peggiora di anno in anno per quanto riguarda le performance ambientali. Roma scivola impietosamente, verso il fondo nella classifica della sostenibilità ambientale, cadendo ormai al 88° posto (85° nel dossier 2016) e impressionano le ben 33 posizioni perse in 10 anni (Roma 55° nel dossier 2007).

 

Analizzando i vari parametri sono i rifiuti e soprattutto la mobilità sostenibile a causare il crollo: sul fronte dei rifiuti, sale di percentuali irrisorie la differenziata al 43% nel 2016 (41% nel 2015) per la quale la capitale è al 67° posto tra le città e non si riduce la produzione pro-capite ferma a 588 kg a persona ogni anno, erano 594 lo scorso anno e ora Roma 75° per il parametro; il porta a porta è completamente fermo nella diffusione al 32,8% degli abitanti, peggior dato in assoluto tra le prime 4 città italiane (Milano 100%, Napoli 42,8%, Torino 47,3%).

 

Ma è la mobilità “immobile” che manda Roma sempre più in fondo alla graduatoria per performance ambientali, crolla la fiducia e l’uso conseguente dei mezzi pubblici con appena 328 viaggi all’anno per abitante nel 2016 (erano 512 nel 2015 – a Milano sono ben 486 e a Venezia addirittura 664); diminuisce anche l’offerta di trasporto pubblico, cioè i chilometri percorsi annualmente dalle vetture per ogni abitante residente, calando dai 60 dello scorso anno ai 57 Km-vettura/abitante/anno (a Milano sono ben 93); di contro sono più di 61 le auto ogni 100 abitanti.

 

Ferme a appena 0,17 metri quadri per abitante le quantità di isole pedonali, l’equivalente di un quadrato con lato 41 cm a testa, e a 1,27 i metri per abitante di corsie ciclabili. I 16 indicatori di Ecosistema Urbano: Polveri sottili (Pm10); Ozono (O3); Biossido di azoto (NO2); Consumi idrici domestici; Dispersione della rete; Capacità di depurazione; Produzione di rifiuti urbani; Raccolta differenziata; Passeggeri Trasporto Pubblico; Offerta Trasporto pubblico; Tasso motorizzazione; auto; Incidentalità stradale; Piste ciclabili; Isole pedonali; Alberi in area urbana; Energie rinnovabili; Solare fotovoltaico e termico pubblico.

 

Nel resto del Lazio, sempre molto grave la posizione di Frosinone (99°) nel fondo della classifica generale, peggiorano Latina che scende al 89° posto (71° nel dossier 2016) e Rieti 61° (era 54° nel 2016). Viterbo in fondo alla classifica (102°) perché continua a non fornire con completezza i dati.

Nei capoluoghi fuori Roma, i dati sulla gestione dei rifiuti sono molto bassi a Latina che scende addirittura al 30% di RD (era al 32 nel dossier 2016), sale a Viterbo al 49% e sale anche a Rieti al 24%. La percentuale di differenziata è invece ferma ad un irrisorio 18% a Frosinone, dato che ferma in basso nella classifica il capoluogo ciociaro insieme ai pessimi numeri della qualità dell’aria: PM10 in concentrazione media di 35ug/mc, 20 giorni di superamento dei limiti di ozono e 33,5ug/mc di No2 medio nell’aria.

 

Capitolo a parte sul ciclo dell’acqua, dove il gestore del servizio idrico di Roma e Frosinone, non fornisce dati aggiornati per cui si conferma il 44% di dispersione in provincia di Roma e il terribile 75,4% in provincia di Frosinone e consumi di 165 l/ab/anno nella capitale e 175 nel capoluogo ciociaro. A Rieti la dispersione idrica sale al 55% (dal 53,8%) ma si abbassano i consumi a 150 l/ab/anno (da 155). Migliora anche se di poco la situazione a Latina col 65% di dispersione (dal 67%) e  131 l/ab/anno di consumi.

 

“Nessun passo in avanti nella mobilità sostenibile e nella corretta gestione del ciclo dei rifiuti, stanno trascinando Roma nel fondo della classifica per scarse performance ambientali – commenta Roberto Scacchi presidente di Legambiente Lazio – ed è allarmante il calo del numero di cittadini in viaggio sui mezzi pubblici, che racconta da solo quanto “immobile” sia la mobilità pubblica della capitale. È passato un 2016 dove non è accaduto veramente nulla di positivo in tal senso, e nel 2017 non si vede alcuna opera in grado di invertire la tendenza. Non sono di certo sufficienti gli annunci di strane funivie su rotaie, senza peraltro alcun piano di sostenibilità economica, o ciclovie e corsie preferenziali che sono solo strisce in terra calpestate da veicoli privati, mentre le Metro e le ferrovie urbane funzionano sempre meno e non c’è un centimetro di tram o filobus in più, anzi cala il servizio. Intanto non si pedonalizza niente, è ferma a metà la ciclopedonalizzazione di via dei Fori Imperiali e il Colosseo continua ad essere un enorme pregiatissimo spartitraffico recluso dalle auto.

Dall’elaborazione del Grab, unica opera finanziata realmente, vengono poi allontanati tutti quelli che lo hanno pensato e progettato gratuitamente per la città, e invece della grande opera di rigenerazione urbana conosciuta e  premiata, rischia di diventare l’ennesima, pericolosa striscia gialla in terra”.

Marco Staffiero




Ddl, attività funerarie: arriva la tassa sui morti

Chi purtroppo, nel corso del tempo ha perso una persona cara, si renderà conto, oltre ovviamente al dolore, di quanto sia difficile morire in questo nostro paese. Si mette in moto una macchina burocratica devastante che dura parecchi mesi, per i più fortunati. Ebbene si, diventa difficile anche morire. L’Italia è il paese più tartassato del mondo e come servizi stiamo invece tra i peggiori. Ma nessuno avrebbe mai pensato alla tassa sul morto. “Se fosse uno scherzo, sarebbe di cattivo gusto. Purtroppo non lo è: alla vigilia del prossimo 2 novembre, giorno in cui si celebrano i defunti, ci troviamo a dover denunciare l’arrivo di una incredibile ‘tassa sui morti'”. Sono le parole del presidente nazionale del Movimento Difesa del Cittadino Francesco Luongo sul disegno di legge Disciplina delle attività funerarie che, proprio in questo giorni, si sta esaminando in Commissione permanente Igiene e Sanità del Senato.

 

“Si tratta di una proposta che vuole riorganizzare il settore dei funerali, riordinare il sistema cimiteriale e combattere l’evasione fiscale, ma che in sostanza introduce nuovi costi per i cittadini per il funerale e la sepoltura dei propri cari – denuncia Luongo -. La nuova ‘tassa’ prevede innanzitutto l’applicazione dell’Iva al 10% sui servizi funerari, fino a oggi esenti dall’imposta e persino il pagamento di una sorta di affitto sulla tomba”, un contributo annuale che dovrebbe essere pari a 30 euro, destinato a finanziare la vigilanza e il controllo da parte delle aziende locali.

 

Il disegno di legge introduce anche l’obbligo per i Comuni di destinare il 20% della TASI incassata ai cimiteri monumentali affinché possano coprire i loro costi”. Un’altra conseguenza del ddl, aggiunge Luongo, sarà “la riduzione delle agenzie funebri presenti sul territorio in quanto si stabilisce che le imprese che organizzano più di 300 funerali l’anno (fino a 1000) dovranno avere almeno 3 mezzi di proprietà, 6 dipendenti assunti a tempo indeterminato e un direttore tecnico, mentre quelle che organizzano più di 1.000 funerali dovranno possedere 4 carri funebri e avere 12 dipendenti”. Le aziende, ipotizza il presidente del Movimento Difesa del Cittadino, che “non si adegueranno alle nuove norme saranno inesorabilmente costrette a chiudere o a essere assorbite da altre imprese più grandi”. “Tutto questo comporterà inevitabilmente un aumento dei costi dei funerali e del mantenimento dei loculi e cappelle in cui sono sepolti i nostri cari estinti – calcola l’associazione -. Se un funerale tipo, ad esempio, oggi costa in media 2.000 euro, con la nuova norma la spesa aumenterà a 2.200 euro”. C’è un detto popolare, in merito alla perdita di un caro che vola in cielo, che dice: “Triste è per chi resta”.

Marco Staffiero




Asili nido, dossier cittadinanzattiva: diminuisce la domanda ma le liste d’attesa continuano ad aumentare

Il tempo dei diritti negati. Ogni possibilità di un modello di vita equilibrato viene negato in nome della nuova società civile e perfetta. Le difficoltà per un lavoro, la mancanza di accedere ad un mutuo per acquistare una casa, la condanna verso una generazione in difficoltà anche ad avere il primo diritto: quello di diventare genitori. Per arrivare a fine mese diventa una difficile corsa ad ostacoli per le famiglie e da qui nasce l’obbligo di far lavorare 12 ore al giorno la coppia, rendendo impossibile la vita di tutta la famiglia.

 

Chi ha la possibilità può portare i bambini al nido. Ma solo una percentuale limitata. Le domande, complice la piaga della denatalità, sono diminuite: una flessione complessiva del 13,1% nel 70% di 89 capoluoghi di provincia indagati nel 2015. Le liste di attesa, però, sono aumentate: dal 20% del 2013 al 26%. Insieme ai costi, in alcune città addirittura stellari. L’asilo nido resta un sogno, per troppi. Un lusso, un privilegio, ma soprattutto un diritto negato. Quello per le mamme di ricominciare a lavorare, per esempio. Soprattutto al Sud. Nel corso del 2016, su 30mila donne (dati Ispettorato nazionale del Lavoro) che hanno dato le dimissioni dal posto di lavoro, ben una su cinque l’ha fatto per mancato accoglimento dei figli al nido pubblico, quasi una su quattro per incompatibilità fra lavoro e assistenza al bimbo, il 5% per i costi troppo elevati per l’assistenza al neonato.

 

Una fotografia sconfortante scattata, come ogni anno, il dossier di Cittadinanzattiva presentato a Roma. Per non parlare dei costi.Ammonta a 301 euro la tariffa media mensile nel 2017/18 (erano 309 nel 2014/15) per una famiglia tipo (3 persone con un minore al di sotto dei 3 anni e un Isee di 19.900 euro). Con 167 euro il Molise è la regione più economica, il Trentino Alto Adige la più costosa (472 euro). Spicca l’aumento del 10% registrato in Basilicata. Fra i capoluoghi di provincia, Catanzaro e Agrigento le più economiche (100 euro), Lecco la più costosa (515 euro). Gli aumenti più rilevanti negli ultimi tre anni sono stati registrati a Chieti (50,2%), Roma (33,4%), Venezia (24,9%). Nel primato positivo, quanto a costi, delle regioni del sud, va però tenuto conto che solo nel 3% la retta comprende tutto (oltre ai pasti anche pannolini e altre spese), mentre tale percentuale sale al 25% negli asili del centro e al 40% in quelli del nord. E soprattutto, la copertura media della potenziale utenza 0-2 anni è solo del 7,6% al sud, con il limite negativo di Calabria e Molise che coprono rispettivamente fino al 4,1% e al 5%. La copertura arriva invece al 23% al nord e al 26,5% al centro.

 

Le mense pulite (se ci sono), ma non sempre sicure. L’indagine ha riguardato 78 scuole di 12 regioni (Valle D’Aosta, Piemonte, Veneto, Emilia Romagna, Lazio, Umbria, Abruzzo, Basilicata, Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna); 627 gli intervistati fra bambini, docenti, genitori e rappresentanti della Commissione mensa. Le mense non brillano in quanto a stato manutentivo e di sicurezza: il 14% presenta distacchi di intonaco e il 6% altri segni di fatiscenza come umidità, infiltrazioni di acqua. Barriere agli ingressi nell’8% delle mense, pavimentazioni irregolari nel 17%, porte con apertura anti panico assenti nel 35%. L’80% dei bambini ritiene che i locali siano abbastanza o molto puliti e luminosi, abbastanza o molto spaziosi (per l’85%) e sicuri (75%). Fra gli aspetti negativi segnalati dai bambini, il 56% ritiene che siano molto rumorosi, il 37% poco accoglienti e il 43% poco allegri. Secondo i piccoli utenti gli arredi lasciano molto a desiderare: il 51% dichiara, infatti, che non siano né adatti né confortevoli. Non passa inosservato il dato che in una scuola su dieci del campione di quest’anno, manchi del tutto il locale mensa e i pasti vengano serviti in corridoi o aule più grandi.

Marco Staffiero




Distribuzione automatica bevande: il caffè in vetta alla classifica italiana

Nel bel Paese cambia anche il modo di prendere il caffè. Tutto frenetico e veloce senza un attimo di pausa consapevole nella nuova società tecnologica. La voglia, il tempo per sedersi ad un bar in compagnia per godersi una tazza di caffè tra quattro chiacchiere e risate, o magari scambiarsi un buongiorno con il barista sembra ormai una storia da anni 70. Non c’è più tempo nemmeno per questo. Del resto nella società delle amicizie virtuali (per esempio Facebook), non c’è spazio per un caffè in compagnia.

 

Se vogliamo un caffè c’è la macchinetta, basta inserire una moneta e lei ti da l’indicazioni per tutto. Per quattro chiacchiere? c’è “l’insostituibile” compagno di sempre… il telefonino o tablet ecc, per controllare nel momento l’ultimo messaggio o l’ultimo “mi piace” su Facebook. In uno studio Confida-Accenture, pubblicato oggi si evidenzia come il caffè è il ‘re’ della macchinetta con 2,7 miliardi di consumazioni nel 2016: l’1,67% in più rispetto al 2015.

 

Con 805.431 macchine installate, l’Italia guida la classifica europea nella distribuzione automatica. Seguono la Francia (590 mila), la Germania (555 mila) e l’Inghilterra (417 mila). Il nostro Paese, non a caso, è il principale produttore europeo di distributori automatici, un segmento del mercato della meccanica italiana esportato in tutta Europa e anche a livello mondiale. Complessivamente il fatturato del vending in Italia nel 2016 è cresciuto del 2,13% sfiorando i 3,5 miliari di euro (3.465.614.675 euro) con quasi 11 miliardi di consumazioni (per l’esattezza 10.797.992.857). I consumi dai distributori automatici sono cresciuti del +0,48% mentre il mercato del cosiddetto ‘porzionato’ (le macchine a capsule e cialde per casa e uffici) è aumentato del 4,3%. Il caffè, quindi, è il prodotto più venduto ai distributori automatici, il 55,5% dei consumi totali in questo canale. Ammontano, invece, a 5,8 miliardi le capsule e cialde vendute nel 2016. Se ne ricava che un italiano su due, oggi, sceglie il caffè ‘self service’.

 

Tra le bevande calde, oltre al caffè, spicca la crescita del ginseng (che cresce del +15,3%). Tra gli snack più diffusi, si rafforza il consumo di quelli a base di cioccolato (+1,47%) e dei biscotti (+5,76%). Ma il balzo in avanti più significativo è quello fatto registrare dalla frutta fresca (+55%) e secca (+50%). La flessione invece nel consumo di bevande fredde (-2,64%) è stata condizionata anche dalla stagionalità decisamente meno calda rispetto a quella del 2015. In questo contesto l’acqua ha contenuto le perdite (-1,23%) rispetto alle altre bevande fredde, specialmente quelle gasate che hanno subito una contrazione del 7,68%.

 

Da notare il trend in controtendenza di nettari e succhi 100% (+4,03%) e degli Energy drink, nicchia di mercato da 1,5 milioni di consumazioni che è aumentata dell’1,20%. Ben il 36% delle consumazioni del vending avvengono all’interno di industrie e grandi aziende. Nel comparto del lavoro privato si concentra il 17% dei consumi, mentre quello commerciale si attesta al 13%. Gli spazi deputati all’istruzione (scuole e università) e alla sanità valgono ciascuno l’11%. Le erogazioni dei distributori collocati nei luoghi pubblici (sale giochi, centri commerciali, biblioteche, associazioni e circoli, oratori…) invece, valgono il 6% dei consumi complessivi. In coda luoghi di svago e di passaggio (aeroporti, stazioni, metropolitane…) con il 3% a testa. La distribuzione automatica, spiega Piero Angelo Lazzari, presidente di Confida, “è un settore economico dinamico ed apprezzato, in particolare in Italia. Il nostro Paese detiene il primato europeo di vending machine installate (oltre 800 mila), che offrono ristoro in uffici, scuole e università, ospedali e luoghi di transito. Dietro a queste macchine c’è una filiera dinamica e socialmente rilevante composta da circa 3.000 imprese di gestione, di cui l’80% sono piccole e medie imprese, che in questi anni hanno fatto molti sforzi per migliorare e ampliare l’offerta alimentare per renderla più vicina ai gusti e alle esigenze nutrizionali dei consumatori”.

Marco Staffiero




Nuove droghe: 40mila giovani all’anno finiscono al Pronto soccorso

Dati preoccupanti che descrivono la realtà giovanile dei nostri tempi. Non di tutti ovviamente, ma i numeri e i tipi di sostanze parlono da soli. Cocaina, cannabis ‘rafforzata’ e anfetamine, nelle loro ormai infinite varianti: troppo facili da trovare, troppo ‘democratiche’ per il loro basso costo, troppo difficili da identificare per il continuo mutamento delle formule che le compongono. Sono le nuove droghe psicoattive che fanno ‘impazzire’ i ragazzi, complice anche un cattivo uso del web ed una scarsa educazione in famiglia.

 

Tanto che ogni anno sono 40mila gli accessi nei pronti soccorso psichiatrici per i disturbi causati da tali sostanze. Del fenomeno si è parlato al convegno di presentazione della nuova ‘Carta dei Servizi dei pazienti nelle condizioni cliniche di comorbilità tra disturbi mentali e disturbi da uso di sostanze e addiction (doppia diagnosi)”, organizzato da Federsed (Federazione Italiana degli operatori dei Dipartimenti e dei Servizi delle Dipendenze), SIP (Società Italiana di Psichiatria) e SINPIA (Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza).

La psichiatria chiede dunque aiuto e risorse per supportare le sempre maggiori richieste di emergenza nei più giovani, ma non solo, che giungono ai dipartimenti di salute mentale.

 

Uno studio sui clienti di cinque club romani getta benzina sul fuoco: su 273 utenti di età compresa da 18 e 30anni, il 78% riportava pregresso utilizzo delle cosiddette ‘nuove sostanze psicoattive’ (NPS), mentre l’89% riportava utilizzo corrente di cocaina. “La comorbilità fra un disturbo mentale e un disturbo da uso di sostanze usualmente definita come condizione di ‘doppia diagnosi’ – spiega il presidente Sip Bernardo Carpiniello – rappresenta un’evenienza particolarmente frequente”. I numeri, precisa inoltre Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di Neuroscienze al Fatebenefratelli-Sacco di Milano, “dicono che nell’ambito dell’urgenza psichiatrica serve intervenire molto in fretta. I servizi devono essere impostati e coordinati per rispondere alle nuove emergenze e nuovi bisogni”. Le conseguenze di tale comorbilità sono gravi, talora drammatiche. Aggiunge Mencacci: “Peggior decorso e minore risposta ai trattamenti sia del disturbo psichico, sia dell’uso di sostanze, maggiore rischio di suicidio e di comportamenti violenti, incrementato rischio di patologie fisiche, di complicanze legali, e di deriva sociale (disoccupazione, divorzi e separazioni, stigmatizzazione ed emarginazione). Per questo la Società Italiana di Psichiatria, attraverso la sua Sezione Speciale SIP-Dip (Società Italiana di Psichiatria delle Dipendenze) da anni si batte per la sensibilizzazione dell’opinione pubblica e gli enti governativi e regionali su tali problemi, per la formazione degli operatori e la promozione di studi e ricerche, ma soprattutto per un cambiamento profondo dell’organizzazione sanitaria attuale, che affida il settore della cura dei disturbi mentali e dei disturbi da uso di sostanze a servizi separati ed indipendenti, quasi sempre operanti in modo scollegato fra di loro”.

Marco Staffiero




Ospedali, spesa farmaceutica: un ‘buco’ di quasi un miliardo di euro

Oltre al degrado più volte denunciato nelle strutture sanitarie e nei vari ospedali del paese, nulla togliendo ai dipendenti, che costretti a lavorare in condizioni davvero disagiate riescono a salvare migliaia di vite umane, c’è un altro grande problema che circonda il settore. E’ sempre in profondo rosso la spesa per l’acquisto di medicinali da parte delle strutture sanitarie pubbliche. Al netto di quella per vaccini e farmaci a carico del cittadino, nel periodo gennaio-giugno di quest’anno si è attestata a 5.714 milioni di euro (il 10,2% del Fondo sanitario nazionale), con uno scostamento rispetto al tetto del 6,89% pari a ben 966 milioni di euro.

 

Quasi un miliardo di disavanzo, dunque, secondo il monitoraggio dell’Aifa sulla spesa farmaceutica gennaio-giugno 2017. Nessuna regione rispetta il tetto per la spesa ospedaliera. Differente è l’andamento della spesa farmaceutica convenzionata a carico del Ssn che – al netto degli sconti, della compartecipazione dei cittadini (ticket regionali e differenza dal prezzo di riferimento) e del pay-back 1,83% versato alle Regioni dalle aziende farmaceutiche – si è attestata a quota 4.220 milioni di euro. Rispetto all’anno precedente, si registra un aumento di 35 mln (+0,8%), ma diminuiscono i consumi, espressi in numero di ricette (299 milioni), dello 0,5% e l’incidenza del ticket, -1%. In particolare, rispetto al tetto programmato per la farmaceutica convenzionata si registra un avanzo di 44,8 milioni di euro. Infine, la spesa per i farmaci che rientrano nel Fondo per gli innovativi, oncologici e non, pari a 500 mln di euro. Per gli innovativi non anti-cancro sono stati spesi, al netto del pay-back, poco più di 371 milioni: rispetto al Fondo si è sforato per circa 120 mln. Per i medicinali innovativi oncologici la spesa ha superato quota 187 milioni di euro. Rispetto al Fondo restano 62 mln non utilizzati.

Marco Staffiero