Le “BUONE PRASSI” per la gestione di chi è bullo e di chi è vittima

Oggi il bullismo e il cyberbullismo sono due fenomeni piuttosto frequenti nelle comunità educative, poiché è proprio all’interno delle istituzioni scolastiche che, solitamente, nascono le amicizie di gruppo.

Le ultime ricerche mostrano che è proprio il gruppo di amici il “luogo” dove possono instaurarsi sia relazioni benevole che devianti.

Come affermato nell’articolo precedente, i bulli/cyberbulli sono spesso degli adolescenti, momento di vita in cui i ragazzi/e possono ritrovarsi a dover superare vissuti poco armoniosi, derivanti dall’indole caratteriale (es. sensazioni di depressione, attacchi di panico etc …) oppure dai trascorsi familiari (es. separazioni o divorzi genitoriali, lutti, incomprensioni etc …).

È così che per riscattarsi, questi giovani tendono, in gruppo o da soli, ad innescare atteggiamenti di “cattivo gusto” verso vittime innocenti.
Il mondo della scuola come quello della famiglia si sentono assorbiti da queste vicissitudini per cui è opportuno definire alcune buone pratiche, sia per prevenire, sia per gestire che per contrastare tali fenomeni.

In “veste” di pedagogista porrei in evidenza alcune “Buone Prassi”, sia generiche che specifiche per fornire sostegno ai soggetti coinvolti.

In termini generici sarebbe utile:

  • attivare punti di ascolto gratuiti costituiti da professionisti del settore (es.
    psicologi, pedagogisti, mediatori familiari etc …);
  • attivare indirizzi e-mail e siti web per ricevere informazioni o fare segnalazioni
    all’interno dei punti di ascolto;
  • gli adulti devono monitorare costantemente, sia a casa che a scuola, i
    comportamenti dei loro figli/alunni, con particolare riguardo alle relazioni con il
    web e con l’uso dei dispositivi tecnologici (es. il pc, il telefono cellulare etc …);
  • occorre avere uno sguardo a 360° per “captare” il bullo/i e la vittima/e;
  • è necessario organizzare eventi pubblici (es. seminari, dibattiti etc …) per dare
    informazioni ai cittadini su questi argomenti;
  • è appropriato predisporre lezioni alternative dove si parla di bullismo e
    cyberbullismo con i ragazzi/e, instaurando un dialogo privo di giudizio;
  • è importante incoraggiare i ragazzi/e a parlare con un adulto (insegnante,
    professionista, genitore etc …) nel caso avvertissero malessere, paura,
    ingiustizia, negatività etc …
    In qualità di professionista, sarebbe opportuno stilare delle “Buone Prassi” anche
    per contrastare il bullismo e il cyberbullismo e per sostenere le vittime.
    Le “Buone Prassi” da seguire per ostacolare il bullo o il gruppo di bulli, a scuola
    e/o a casa potrebbe essere il seguente:
  • se l’episodio accade a scuola il docente deve avvisare immediatamente il
    Dirigente Scolastico (o chi per lui) che a sua volta informerà il Presidente del
    Comitato Genitori sugli avvenimenti accaduti;
  • se la vicenda avviene tra le mura domestiche il genitore può rivolgersi presso lo
    sportello d’ascolto del suo distretto e segnalare eventuali atteggiamenti sospetti
    o certi di bullismo e/o cyberbullismo, osservati nel proprio figlio/a o nel gruppo
    di amici che frequenta;
  • a scuola, prima di parlare di sospensione del ragazzo/a, è utile indire un Consiglio
    di Classe immediato;
  • la scuola deve convocare i genitori dei figli designati come “carnefici” per
    sostenerli a trovare delle soluzioni;
  • gli insegnanti, all’unanimità con i professionisti, potrebbero suggerire ai genitori
    incontri per studiare insieme strategie che frenino tali atteggiamenti;
  • a casa i genitori possono chiamare i professionisti del consultorio per organizzare
    degli incontri (se fosse possibile in presenza anche con il ragazzo/a);
  • dare al ragazzo/a la possibilità di esprimersi, favorendo la sua versione dei fatti;
  • non creare discussioni e fraintendimenti;
  • i professionisti potrebbero decidere di attivare colloqui individuali con il bullo
    oppure con il gruppo di bulli;
  • si devono applicare misure correttive e rieducative mediante progettazioni;
  • si deve informare il bullo/i della gravità della situazione e delle possibili sanzioni;
    Per quanto riguarda le vittime dei bulli/cyberbulli si possono proporre le seguenti
    “Buone Prassi”:
  • sostenere empaticamente, con l’intervento dei professionisti, le vittime;
  • ove è necessario attivare dei percorsi psicologici o di consulenza;
  • approfondire con la vittima quello che è avvenuto durante gli episodi subiti;
  • far parlare la vittima/e senza giudicarla;
  • monitorare la vittima/e congiuntamente al suo stato di salute psico-fisico.
    Un’ottima pratica, se entrambi sono d’accordo, è che bullo e vittima si incontrino
    per consentire al bullo di esprimere un suo possibile pentimento e alla vittima di farsi
    ascoltare. In ogni caso, sarebbe consigliato sostenere sia le vittime che il “carnefice”,
    coinvolgere le famiglie per instaurare dialoghi e alleanze costruttive.
    Tuttavia, è rilevante non giudicare, contrastando la volontà d’ espressione.
    Sostenere, dialogare, ascoltare, aiutare, progettare, ripristinare e rieducare
    potrebbero essere gli “ingredienti” idonei per dire “STOP” ad atti di bullismo e di
    cyberbullismo.



Bullismo e cyberbullismo, fenomeni in forte espansione soprattutto nei contesti scolastici

Come possiamo interrompere la “moda” di essere bulli? Oggi le immagini o i video che i mass-media ci mostrano mettono in luce sempre più episodi di cronaca nera riferiti a vicende di bullismo e di cyberbullismo, compiute per lo più da ragazzi adolescenti.

Entrambi i fenomeni sono risultati in forte espansione soprattutto nei contesti scolastici,
ma anche nei luoghi di ritrovo delle nuove generazioni. Ad esempio, pensiamo ai tanti episodi di ragazzi che bullizzano l’insegnante e/o i loro pari, creando situazioni di vero disagio e sconforto emotivo.

Spesso, si sente dire: il ragazzo x ha lanciato una sedia all’insegnante e, nel frattempo, un altro suo alleato bullo ha ripreso la scena con il cellulare con lo scopo di pubblicarla sui social oppure la ragazza x è stata presa in giro dai suoi amici perché è troppo grassa.

La cronaca ci rivela che i bulli compiono dei veri e propri atti di violenza, sia fisica che psicologica. L’adolescenza, essendo una fase di crescita molto vulnerabile (es. cambiamenti fisici-psicologici, preoccupazioni, sensi di apatia, indecisioni etc …) è risultata la fascia d’età più colpita da tali fenomeni.

Se “ieri” erano soprattutto i maschi a mettere in pratica questi atti di violenza, ad oggi i dati riportano che anche le ragazze mirano alla pratica del bullismo. Le ricerche condotte negli anni hanno mostrano come questi fenomeni si concentrano particolarmente nell’ambito scolastico.

Un dato rilevante è che la “figura” del bullo agisce in gruppo e tende a preferire vittime dello stesso sesso. Nel caso del cyberbullismo, invece, si ha a che fare con bulli del web, nonché con coloro che bullizzano altri ragazzi/e mediante frasi minacciose e di cattivo gusto sui social.

L’aspetto preoccupante è che le vittime di violenza fisica o psicologica devono rispettare le regole dei bulli, ad esempio: non si parla con nessuno di quello che è successo e tutti devono tacere. Chi subisce e chi vede non deve professar parola, anzi deve sottostare alle leggi del “branco”.

Soggiacere ai principi del bullismo “annienta” l’altro soggetto in termini fisici, relazionali e piscologici. Tuttavia, le vittime di bullismo prima o poi potranno cadere in un senso si vuoto e di disperazione che li porteranno a confidarsi con qualcuno.

I tanti episodi di bullismo sono spesso collegati all’insorgere di sentimenti negativi come: l’invidia, la gelosia, l’aggressività e il desiderio di respingere l’altro denigrandolo e riducendolo in “polvere”.

Il bullo fisico e social ha lo scopo si ferire la persona che decide di “colpire”, la vuole
portare all’esasperazione e “gode” nell’osservare che soffre o che mostra atteggiamenti
di impotenza.

I bulli si sentono dei leader, ma in realtà sono molto fragili. Tali soggetti hanno spesso
dei vissuti molto duri nella loro infanzia e adolescenza, e attuare atteggiamenti non corretti gli consente di avere una rivincita.

Dinanzi a ciò il ruolo educativo è quello di accogliere e di ascoltare questi adolescenti.
È solo attraverso l’ascolto, l’appoggio, l’aiuto e la progettazione educativa che sia i “carnefici” che le “vittime” possono essere aiutati.

La scuola, la famiglia e le varie associazioni educative devono fungere da “ponte” che rafforza questi ragazzi, affinché abbiano la voglia di esprimersi.

Sovente, è naturale che i bulli così come le vittime vanno sostenuti, poiché entrambe sono figure che necessitano di appoggio e di attenzione.

Sarebbe opportuno “istituire” delle buone prassi che forniscano sia alle famiglie che alla scuola strumenti adeguati all’intervento educativo, un po’ come “giocare d’anticipo” per evitare il peggio.




Bilinguismo e code switching: nuove visioni di pedagogia interculturale

In Italia il cambio di registro linguistico (code switching) è legato al passaggio dall’italiano al dialetto regionale

Il termine bilinguismo potrebbe sembrare una traduzione dall’inglese del concetto di code switching, ma in realtà non lo è. Bilinguismo e code switching sono due nozioni differenti e con caratteristiche proprie.

Il bilinguismo è sostanzialmente la capacità di parlare due lingue, mentre il code switching deriva dall’inglese e significa cambiamento del codice linguistico.

La traduzione linguistica dei due concetti balza ai nostri occhi come termini già sentiti, ma non approfonditi. La ricerca da me condotta nell’anno 2023, mediante questionari, ha fatto emergere come i due termini non siano ben recepiti nel contesto linguistico.

Lo studio, condotto nell’area metropolitana di Bologna, rivela come la maggior parte degli intervistati concepisce così i due termini: alcuni affermano che il bilinguismo è parlare due lingue, mentre altri dichiarano che il code switching significa esprimersi mediante forme dialettali. Tuttavia, le interviste documentano come la popolazione italiana non ha ben chiaro i significati dei due termini.

L’Italia di fatto non è un paese bilingue (tranne il Trentino Alto-Adige e il Friuli Venezia Giulia) per cui i fenomeni linguistici sono spesso congiunti al fenomeno dei flussi migratori.

I migranti infatti portano con sé la loro lingua d’origine, utilizzandola insieme ad una mediocre percentuale della lingua italiana che già conoscono.

Il code switching è visto dagli italiani come una sorta di “alieno” che si è inserito nella linguistica italiana senza avere un’identità ben precisa.

L’Italiano medio rispetto ai cittadini di altri paesi europei e non, dove conoscere un’altra lingua (rispetto la lingua madre) è diventato pressoché obbligatorio, utilizza scarsamente la seconda lingua senonché il dialetto.

I risultati emersi dimostrano che in Italia il cambio di registro linguistico (code switching) è legato al passaggio dall’italiano al dialetto regionale.

Nell’analisi condotta il 70% dei bambini e degli adulti stranieri migrati in Italia si è mostrato contento dell’accoglienza ricevuta e dichiara di sentirsi partecipe dei progetti inclusivi proposti ad esempio, nelle scuole.

Il rimanente 30% ha dichiarato di aver avuto molte difficoltà, soprattutto con la lingua e con l’inserimento nel nuovo contesto di vita.

Dall’altro canto le insegnanti italiane dichiarano che la diffusione di più lingue è positiva, ribadendo che il cervello dei bambini è come una spugna assorbente che sa acquisire in tempi rapidi un’ altra lingua, rispetto all’adulto che mostra più difficoltà.
L’indagine condotta riporta l’interesse italiano di approfondire nuove culture e nuove lingue, così come per gli stranieri.

Il ruolo di noi adulti verso i bambini e i ragazzi è, quindi, favorire l’accoglienza e l’opportunità di costruire la propria quotidianità su nuovi saperi.

L’Italia, nella maggioranza dei casi, è aperta al nuovo e al diverso, in effetti, ultimamente stanno aumentano i corsi di alfabetizzazione per gli adulti stranieri e le opportunità di apprendimento per i bambini-ragazzi sia a scuola che a casa.

L’idea pedagogica è di conoscere il nuovo e il diverso, di estendere nuovi percorsi linguistici per bambini, adulti stranieri e non ed educare a nuove esperienze culturali.

Per i bambini, i ragazzi e gli adulti italiani/stranieri è opportuno diffondere l’immagine dell’ “altro” mediante una lettura positiva priva di preconcetti.

La pedagogia necessità di organizzare dei percorsi inclusivi, trasformare le parole in fatti concreti e consentire, senza obblighi e stereotipizzazioni, la crescita di una popolazione concorde nel diffondere una pedagogia interculturale.




I ragazzi a scuola e in famiglia: come colmare le distanze

Oggi si parla spesso di intelligenza emotiva, ma poche persone propongono questo tipo di relazione: né a scuola, nel rapporto ragazzi-insegnanti e viceversa, né a casa, nella relazione ragazzi-genitori.

Sovente, gli insegnanti arrivano in classe dando per scontato l’idea di fare una lezione frontale quindi, quando l’attenzione dei ragazzi inizia a calare, è complicato ritornare ad una relazione di ascolto.

La medesima cosa può accadere tra le mura di casa, dove spesso i genitori, impegnati nella loro quotidianità, non riescono ad avviare un dialogo con i propri figli e viceversa.

Instaurare rapporti sani per colmare le distanze emotive-relazionali, sia a scuola che in famiglia, potrebbe essere così proposto:

Insegnante: “Bene ragazzi che ne dite se oggi facciamo una lezione insieme? Un po’
spiegate voi e un po’ io?”

Oppure,

Padre/Madre: “A. vieni qui da papà/mamma che parliamo un po’, dal momento, che
quest’anno ti diplomi. Mi racconti la tua giornata? Mi dici come stai e cosa hai fatto?”

Oppure,

Ragazzo/a: “Prof. oggi facciamo un po’ di conversazione”?
“Papà/Mamma vi posso parlare di un problema sentimentale”?

Tuttavia, dai migliori esperti di psicologia, quali Galimberti, Crepet, Morelli etc … siamo tempestati, soprattutto sui social, di continui interventi sul come educare all’intelligenza emotiva e quindi su come l’insegnante, i genitori e i ragazzi dovrebbero colmare i vuoti emotivi.

Goleman, studioso di gran pregio, anticipò nel 1996 le proprie teorie sull’intelligenza emotiva, scrivendo frasi e libri dedicati proprio a questo argomento.

Oggi, a seguito di questi interventi, mi chiedo: Ma la scuola che ruolo ha? Cosa ci aspettiamo dai docenti, dai genitori e dai ragazzi? Sarà idoneo formare docenti aditi a creare momenti di empatia? Ma l’intelligenza emotiva si insegna, si impara o nessuna delle due?

Personalmente, da pedagogista e docente, non credo che esista un modo per insegnare ad essere emotivi ma sicuramente esistono capacità innate e non, adite a stimolare l’emotività; in alcuni individui, per altro, potrebbe essere necessario incoraggiare la relazione empatica. Ci sarà chi è più propenso a questo “lavoro emotivo” e chi deve “impegnarsi” a “capire come essere emotivi”.

Per colmare questa “non empatia”, sia in famiglia, sia in casa, sia a scuola è utile “ascoltar-ci” e poi “trasmetter-ci gli uni agli altri”.

Sentire noi stessi e gli altri è un compito arduo ma è fondamentale che qualcuno dia inizio a questo “viaggio introspettivo e relazionale”, senza che rimanga una nozione astratta. Perciò la famiglia e la scuola dovrebbero impostare il dialogo, la partecipazione continua, e soprattutto una comunicazione di reciprocità. I bambini molto piccoli, ad esempio, sono i primi a “sentire” le emozioni. Molte volte, bimbi di 3/4 anni, mi hanno rivolto questa domanda: “maestra, come stai? Stai bene o sei triste?”, e qui si coglie la specialità dell’infanzia e di come noi adulti dovremmo imparare da questa fascia d’età.

I bambini piccoli hanno questo dono perché vivono il presente e non, come noi adulti, il passato o il futuro per indagare cosa è stato e cosa sarà senza mai sentir-ci nel qui ed ora.

L’ingenuità dell’essere bambino sta nel percepire il tipo di adulto che si ha di fronte e di fruirne l’emotività che quest’ultimo potrebbe non avere o avere solo in parte.
Il compito delle comunità educative (famiglia e scuola) è di osservare i bambini piccoli, cercando di “imitarli”: un gesto, uno sguardo, un atteggiamento valgono più di mille
parole dette all’interno di corsi di aggiornamento.

L’intelligenza emotiva non si insegna anzi, è spontaneità, è il creare un ambiente armonioso che ci permette di vivere e condividere le nostre emozioni con quelle altrui.

L’infante, crescendo non dovrebbe perdere questo grandissimo dono, perciò noi adulti, sia in casa che a scuola, abbiamo il compito di promuovere la pratica emotiva, diffondendo “perle” di empatia e sensazioni che possono e devono essere condivise.