Adolescenti, la crisi e la crescita

L’adolescenza è un periodo di grandi difficoltà poiché rappresenta un passaggio fisico e psicologico che fa sentire i ragazzi delle specie di “ibridi” tra l’essere ancora fanciullo e l’inizio dell’età adulta. Essere adolescenti è quel periodo della vita nel quale il giovane è molto vulnerabile. Tuttavia, l’essere adolescente comporta sia momenti di crisi che di crescita.

Al contrario di quanto si possa credere l’adolescenza è una fase della vita molto delicata: le modifiche corporee, sessuali e organizzative derivanti dalla pubertà, portano i ragazzi a dover riorganizzare la propria personalità e di conseguenza ritrovare nuovi equilibri in rapporto al proprio sé, all’ambiente che lo circonda (familiare, sociale e gruppi di riferimento) e in relazione alle trasformazioni corporee e cognitive.

Questa fase della vita è vissuta dai ragazzi come una sorta di “catastrofe” poiché i vari mutamenti a livello corporeo e mentale, portano l’adolescente ad allontanarsi dall’ambiente familiare e ad avvinarsi maggiormente al gruppo dei pari.

L’adolescente si ritrova a dover rielaborare una sorta di “lutto” conseguente la perdita del corpo infantile, da qui il ragazzo comincia a prendere il controllo del proprio essere allontanandosi dalla supervisione dei genitori. Di concerto, l’adolescente vuole e pretende di vivere mediante le sue capacità e le sue energie senza che nessuno (es. genitori, adulti) le diano dei consigli.

Diciamo che l’adolescente si definisce come una sorta di eroe. Questa frenesia adolescenziale deve essere rielaborata anche dalle figure genitoriali, in particolar modo dalla madre, per la perdita del prestigio dei valori materni e dell’esclusiva sul controllo del figlio avuto fino adesso.

L’ingresso dei figli nell’adolescenza segna l’inizio di un distacco dalla figura materna. Il giovane comincia a svincolarsi da questo dominio, prendendo le distanze dalla madre. Questo processo è chiamato di separazione, e non concerne il lato relazionale, bensì una questione di autonomia e indipendenza.

Il parere dello psichiatra

A tale proposito, lo psichiatra Daniel Siegel afferma che l’adolescenza è una fase della vita che va valorizzata il più possibile e supportata dagli adulti; a volte però le resistenze all’adolescenza ricadono fortemente sul ragazzo tanto da voler rifiutare qualsiasi tipo di aiuto. Nel suo processo di crescita l’adolescente comincia a vedere l’adulto non più come “mito”, ma come una persona normale con propri limiti e difetti. Questa nuova visione dell’adulto ne favorirà l’allontanamento e l’autonomia personale; allontanamento che risulterà indispensabile per fare nuove esperienze di vita.

I ragazzi entrano a far parte di un gruppo di coetanei con il quale poter affrontare le difficoltà di questa particolare fase; è dall’appartenenza a un gruppo che scaturisce un senso di sicurezza.

Il genitore troverà in questo distacco un elemento quasi di minaccia, farà qualsiasi cosa per riportare il ragazzo indietro, fino al momento in cui secondo il proprio parere non
sarà pronto per affrontare il mondo, dall’altra parte l’adolescente cercherà in tutti i modi di liberarsi da questa stretta adottando varie tecniche e mezzi di difesa.

Si crea una conflittualità tra adulto e adolescente che comunque è sinonimo di “maturazione” e che porterà il ragazzo al raggiungimento dell’indipendenza desiderata e alla formazione del sé. I genitori spesso si sentono in difficoltà, mentre gli adolescenti sono alla costante ricerca di novità, di coinvolgimento sociale, di maggiore intensità delle emozioni e di un’esplorazione creativa.

Per instaurare un buon rapporto tra adolescente e adulto è necessario che il genitore sia presente e che rispetti il proprio essere. Essere presenti vuol dire entrare in empatia con ciò che accade nella mente dell’adolescente e capire le sue emozioni senza giudicarle.
Presenza e sintonizzazione creano fiducia nel ragazzo, consentendogli di vivere il più serenamente possibile la sua adolescenza.




Famiglie allargate si o no?

Le ricerche sociologiche, oggi, vedono un forte cambiamento nell’assetto familiare. Tale condizione ha origine sia da un mutamento nel concetto di genitorialità che nel ruolo della famiglia all’interno della società: cambiano le persone, si modificano le strutture familiari, mutano le coppie, si spostano gli interessi di ogni singolo individuo, passando dalla condivisione all’individualizzazione.

Molti aspetti legati alla natura psicologica del singolo soggetto subiscono un cambio repentino: si pensa più a sé stessi che agli altri. In questo scenario, siamo di fronte a molte trasformazioni che vanno ad incidere, inevitabilmente, sulla composizione della famiglia stessa.

Quello che cambia oggi rispetto a circa 50 anni fa è legato alle cause della nascita delle nuove famiglie “allargate”, “ricomposte” o “ricostituite. Mentre un tempo le famiglie ricostituite si formavano dopo la morte di un coniuge, dagli anni ‘70, invece, con la possibilità anche in Italia di ricorrere a separazione e divorzio, si sono verificati cambiamenti sociali e culturali che hanno portato ad una nuova struttura di queste famiglie.

Le famiglie “allargate”, ovvero le famiglie composte da due partners che hanno vissuto l’esperienza della fine di un precedente matrimonio, da cui almeno uno ha avuto figli che attualmente vivono con loro, hanno la caratteristica di avere confini più labili e incerti rispetto alla famiglia “tradizionale”, sia in termini biologici che legali. I processi relazionali sono sicuramente più complessi, sia nella comprensione che nella gestione, sono flessibili e hanno un inizio e un’evoluzione molto rapida.

Le famiglie ricostituite sono state definite “cespugli genealogici”, per la loro ampia estensione orizzontale anziché verticale. Mentre alcuni studiosi non appoggiano totalmente questi cambiamenti, altri fanno fronte alle nuove forme familiari che non possono essere ignorate, ma devono essere comprese e sostenute.

Le famiglie ricostituite vivono la crisi di chi, con storie diverse e diversi modi di affrontare i problemi, deve trovare dei compromessi per affrontare insieme nuove situazioni.
Gli studi affermano che i precedenti rapporti coniugali e la loro chiusura siano stati rielaborati, con una buona definizione delle attuali relazioni e con confini chiari, in modo che i partner possano iniziare un nuovo rapporto senza rancori passati. È importante che i figli non abbiano un atteggiamento oppositivo verso il nuovo partner, sperando in una riappacificazione tra i suoi genitori. Questo sarà direttamente proporzionale ai livelli di chiarezza e definizione raggiunti.

L’età dei figli è importante: i bambini in età prescolare potrebbero manifestare regressioni, nascondendo il desiderio di farsi accudire. Per i ragazzi la necessità di conferme da parte del genitore biologico potrebbe invece lasciare il posto alla rabbia verso il genitore acquisito, soprattutto nella fase adolescenziale, all’interno della quale avviene il processo di costruzione della loro identità e questo totale mutamento potrebbe essere percepito come un ostacolo.
In questa fase, per i figli, il formarsi di una famiglia allargata, sancisce definitivamente la fine della relazione tra i genitori biologici, e spesso questo può portare alla paura inconscia che affezionandosi al genitore acquisito, in qualche modo si “tradisca” quello biologico. La causa che ne consegue è che ciò potrebbe portare i figli ad allearsi con quest’ultimo e sviluppare un senso di protezione morboso.

In ogni caso la genitorialità è ancora più difficile poiché i genitori dovranno imparare a gestire eventuali conflitti e gelosie tra i fratelli acquisiti. Nelle famiglie allargate è opportuno costruire nuove identità familiari, nuove stabilità ed equilibri.
A tale proposito, non si può dare una risposta definitiva alla domanda “Le famiglie allargate sì o no?”, poiché essendo in continua espansione necessitano di sostegno e di supporto. Sicuramente nelle famiglie ricostituite possono innescarsi situazioni particolari, ma dare una “valutazione” negativa o positiva non è certo il modo migliore per andare verso un processo di accettazione.

Di concerto, le famiglie ricostituite possono racchiudere al loro interno grandi risorse ed elementi di ricchezza per tutti i componenti, i quali si troveranno a contatto con abitudini, tradizioni, modelli e storie diverse dalle proprie.

Tutto questo, se integrato con nuovi “ingredienti” e abitudini comuni diviene un elemento fondamentale per la crescita e il benessere di tutti, portando alla costruzione di nuovi equilibri.




Essere genitori ieri e oggi: cosa è cambiato nel rapporto con i figli?

Come è cambiato negli ultimi anni il rapporto tra genitori e figli? Questa domanda oramai è divenuta oggetto di studio di molti esperti. Non solo sono stati scritti numerosi libri in merito, ma anche molte trasmissioni televisive dedicano a questa tematica molti spazi di discussione, invitando in studio esperti dell’infanzia, psicologi, psicoterapeuti, neuropsichiatri etc …

Come dimostrano molti studi, quello che oggi è cambiato non è solo la relazione tra genitori e figli, ma il concetto stesso di “essere genitori” ed “essere figli”.

Oggi ci troviamo di fronte ad un’involuzione della genitorialità, condizionata anche dalle modifiche repentine della società. Rispetto a ieri, dove la frenesia della quotidianità era meno preponderante, oggi i genitori sono molto presi dal loro lavoro e vivono il presente in modo “tempestoso”. Tale atteggiamento crea una sorta di “vuoto” incolmabile sia nel bambino che nell’adulto, poiché la scarsa qualità della genitorialità interrompe anche i processi di crescita del ragazzo/a. Molti bambini oggi si ritrovano a guardare la televisione o il cellulare per ore intere, poiché il genitore non ha tempo di sedersi vicino ai propri figli per ascoltarli.

Fin dalla nascita il piccolo d’uomo necessita di attenzioni e di risposte ai suoi bisogni per poter creare in lui la sensazione di fiducia nel mondo che lo circonda. Questo processo iniziale costituirà il fondamento dell’identità futura di quel bambino/a.

Di concerto, le grandi sollecitazioni che gli adulti ricevono dalla società, in continua trasformazione, non consentono loro di sviluppare dei rapporti sani con i propri figli, tutto ciò va a discapito di una genitorialità costante e ben “costruita”. La frenesia del tempo va a scontrarsi anche con la crescita del bambino che spesso si ritrova da solo a dover gestire le proprie emozioni.

Pertanto, saper “educare” i propri figli, nonché fornire loro dei “contenitori” attraverso cui leggere la realtà circostante, rappresenta un requisito genitoriale inevitabile.
Ciò che è cambiato nella famiglia di oggi, rispetto a quella di ieri, è l’assetto nonché l’organizzazione stessa della famiglia e dei suoi ritmi. I genitori spesso fuori casa e questo li costringe a delegare ad altri la gestione dei figli.

Tuttavia, il bambino/a si ritrova ad avere a che fare con i nonni, le baby sitter e quindi con un mondo diverso dal suo contesto familiare dove è nato, cresciuto e sviluppato. Tale contrapposizione mette in crisi il concetto di essere genitore, nascono mille paure, ansie e tensioni che inevitabilmente hanno una ricaduta negativa sulla coppia e sul bambino/a.
Sarebbe opportuno che il genitore si fermasse un attimo per rivisitare il suo ruolo in vista di un’infanzia che cresce e che non può metabolizzare aspetti nocivi nella sua crescita psico-fisica. La mancanza “mentale” di un genitore può provocare danni irreparabili nello sviluppo del bambino. Quest’ultimo potrebbe trovarsi in un circolo vizioso dal quale non riesce ad uscirne.

Tuttavia, per contrariare tali aspetti negativi, bisognerebbe che il genitore si ritagliasse spazi di qualità per giocare, parlare, ascoltare e anche osservare i suoi figli. In questo senso, la genitorialità acquisirebbe maggiore qualità.

L’importanza del sentirsi e dell’essere genitori sta nel mettere da parte la propria vita quotidianità, anche quel poco che basta, per creare empatia con i propri figli.
L’uso del tempo condizionale sta ad indicare non tanto un consiglio quanto una pratica educativa che deve essere ripresa il più presto possibile se si vuole assistere ad una crescita del bambino che dia frutti positivi alla sua vita presente e futura.

L’impegno della genitorialità deve essere costante, autorevole, non variabile e autoritaria. Per contro il genitore non deve essere permissivo, ma semplicemente deve creare un giusto equilibrio tra l’autorevolezza e il permissivismo.
Queste componenti, seppur basilari, servono a cambiare la rotta dell’educazione, dell’essere genitori e dell’essere figli.

La pedagogia, la mediazione in questo senso possono dare una mano ai genitori di oggi e del futuro a modificare la loro vita per dare più spazio alla loro genitorialità.
Una genitorialità di qualità e di stima nei confronti di una società che tenta, in sordina, di modificare i ruoli dell’essere genitore.




Gesualdo, la “Città del Principe dei Musici”: ecco il segreto della perla irpina

Gesualdo, paesino situato nella verde Irpinia, in provincia di Avellino, di appena 3500 abitanti, è stato per anni e lo è tutt’ora l’attrazione di molti visitatori; i dati comprendono sia i gesualdini emigrati che, nelle festività (Natale, Pasqua), non mancano a ritornare nel loro paese d’origine che dai turisti provenienti da regioni più o meno vicine (es. Romani, Napoletani, Calabresi e anche Siciliani).

Questa verde “perla” irpina vede il suo splendore in molti aspetti legati sia alla sua storia che alla sua cultura.

Gesualdo è chiamato la “Città del Principe dei Musici” e conserva una storia e una tradizione di grande spessore di cui gli abitanti ne vanno molto orgogliosi. La “Città del Principe dei Musici” è così denominata in onore di Carlo Gesualdo, l’ultimo importante esponente della polifonia rinascimentale.

Il paese e le campagne limitrofe ruotano intorno ad un fulcro portante: il leggendario “Castello di Gesualdo”, ritenuto il perno che domina il paese dall’alto e offre una visuale emozionante. Attorno al 1550, fu proprio da questa altura stupefacente che il poeta Torquato Tasso dedicò alcuni versi al paese.

Il Castello di Gesualdo risale all’Alto Medioevo: alcune fonti dichiarano che il castello è dell’epoca longobarda, costruito su incarico di Romualdo, duca di Benevento nel VII secolo, mentre altri affermano che il castello venne costruito su ordine di Radelchi, Principe di Benevento, durante il IX secolo.

Il Primo signore ad abitare la fortezza fu Guglielmo d’Altavilla e poi, nella seconda metà del ‘500, divenne la dimora del Principe Carlo Gesualdo che qui si rifugiò da Napoli, dopo aver ucciso la moglie Maria d’Avalos e il suo amante, per sfuggire alla vendetta delle due potenti famiglie. La leggenda narra che il Principe visse presso il castello nel senso di colpa per l’atto compiuto e che il fantasma di Maria d’Avalos si aggiri ancora oggi tra le stanze durante le notti di luna piena. Successivamente, per volere di Carlo Gesualdo, il castello si trasformò da fortezza militare in una splendida dimora signorile in stile rinascimentale.

Dopo secoli di abbandono, nel 1855 il Castello di Gesualdo divenne proprietà della famiglia Caccese che lo riportò a vita nuova. Tuttavia, a seguito del “famoso” sisma dell’1980, fu dichiarato inagibile fino a quando, nei primi anni del XXI secolo, venne acquisito dal Comune e dalla provincia di Avellino, per restaurarlo.

Oggi si presenta in tutta la sua bellezza, con la facciata che richiama l’architettura ottocentesca e gli interni, dagli ampi soffitti a volta, in stile rinascimentale con elementi gotici. Al piano terra si possono visitare le cucine e le stanze della servitù, mentre al primo piano è esposta la mostra di “Carlo Gesualdo da Venosa: gli strumenti musicali” con fedeli riproduzioni degli strumenti musicali appartenuti al Principe, partiture a stampa o manoscritte e riproduzioni degli abiti utilizzati nelle corti nobiliari napoletane del ‘500.
Dopo il restauro del Castello, terminato nel 2015, il paese ha riacquistato vigore e soprattutto ha registrato un notevole incremento turistico.

Gesualdo è un’attrazione ricca di monumenti storici tra cui, le piccole case costruite secondo i canoni dell’architettura feudale, con pochi vani e tetti spioventi, gli eleganti palazzi signorili del XVII secolo e l’autentico stile barocco delle fontane, dei grandiosi portali, delle piazze e delle ampie scalinate che accompagnano il visitatore in scorci affascinanti. Altri monumenti attraenti sono i Palazzi Pisapia e Mattioli, la Fontana dei Putti, Piazza Umberto I e Piazza Neviera.

Il paese è anche ricco di edifici religiosi tra i quali spiccano la Chiesa di San Nicola e la Chiesa di Santa Maria delle Grazie. La prima risale al XII secolo, sorge nei pressi delle mura del castello e all’interno si possono ammirare la tela raffigurante la Madonna della Neve, commissionata nel XVI secolo dal Principe Carlo Gesualdo all’artista napoletano Taurella, le statue in legno e le numerose reliquie che ne fanno meta di pellegrinaggio. La seconda chiesa, invece, venne edificata nel 1592 insieme al Convento dei Cappuccini. Quest’ultima presenta un’unica grande navata con altari rivestiti in marmo policromo ed è considerata una delle chiese più frequentate e amate.

Gesualdo è un paese affascinante anche per i suoi eventi culturali e per le sue tradizioni culinarie.

Gli eventi storici più importanti sono:

Il Volo dell’Angelo – Manifestazione religiosa molto partecipata che si tiene ogni anno, in occasione dell’ultima domenica di agosto. L’evento mette a confronto il bene (rappresentato da un bambino-angelo) e dal male (raffigurato da un uomo/donna travestito/a da diavolo). I due personaggi sono persone in carne ed ossa scelte, durante l’anno solare, tra gli abitanti del paese; le due personalità interpretano il confronto tra Dio e il Diavolo. La rappresentazione dura all’incirca 30 minuti con la conquista del bene sul male;

Il Presepe Vivente – Affascinante rappresentazione di religiosità, tradizione e storia che prosegue dal 1991;

La Passione e la Morte di Cristo – Percorso teatrale che, dal Cappellone, sede del Pretorio di Pilato, risale verso il Golgota, rappresentato dall’imponente castello longobardo

L’evento estivo Saperi & Sapori – Kermesse di arte, musica, mostre, convegni, enogastronomia e laboratori, finalizzata alla valorizzazione del bellissimo centro storico di Gesualdo;

Il Gesualdo Folk Event – Rassegna di musica popolare del Centro-Sud Italia. La protagonista in assoluto è la musica con ospiti ricercati, artisti locali e internazionali, il tutto è accompagnato da una piacevole degustazione di birra e prodotti gastronomici della tradizione irpina.

La tradizione culinaria prevede alcuni piatti e prodotti tipici tra cui:

Il Pomodorino seccagno di Gesualdo PAT – Di forma tonda squadrata e di un colore rosso intenso;

Il Sedano di Gesualdo PAT – Sedano di colore verde intenso, per l’esposizione delle piante alla luce solare nelle fasi di sviluppo, e dalle particolari proprietà organolettiche e nutrizionali;

L’Irpinia Colline dell’Ufita DOP – Olio extravergine di oliva derivante in gran parte dalla varietà Ravece, caratterizzato da un piacevole gusto amaro e piccante;

L’Aglio dell’Ufita PAT – Prodotto dal sapore aromatico e caratterizzato da un’alta quantità di oli essenziali e principi attivi.

Queste particolarità hanno fatto si che, negli anni scorsi, Gesualdo diventasse uno fra i cinque comuni irpini che fanno parte della collana “Borghi più Belli d’Italia”.

La peculiarità di mantenere vive le tradizioni, fanno di Gesualdo un paese autentico e vero. L’impegno costante della Proloco di Gesualdo (associazione di volontariato del paese) in collaborazione con i cittadini si occupa di mantenere vive le tradizioni storiche, culturali e culinarie.

Per tali motivi, l’orgoglio dei paesani è quello di sapere che anche solo per un giorno un turista che, per esempio passa in quelle zone, si fermi a Gesualdo per una visita e un pranzo/cena da raccontare e da ricordare.




Mezzogiorno, lo sviluppo economico nella rivoluzione digitale

Il 19 Ottobre 2023, FONDITALIA in collaborazione con l’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea, ha svolto un seminario dal titolo “Innovazione, formazione e sviluppo
economico.

Il Mezzogiorno di fronte alla rivoluzione digitale”. Già dal titolo si può dedurre la vastità dell’argomento nonché una tematica che tocca da vicino questioni molto attuali.
Tra i relatori del seminario il Professore Marco Zaganella (Università degli studi
dell’Aquila, CNR-ISEM) che ha sviscerato un argomento davvero interessante e degno di essere citato in una testata giornalistica.
“L’obiettivo del mio intervento è quello di analizzare come il Mezzogiorno si rapporti
con gli attuali processi di modernizzazione, – ha detto Zaganella – tenendo conto delle trasformazioni che il lavoro sta registrando dall’avvio della rivoluzione digitale a partire dagli anni ’70 e ’80 del XX secolo”.

Come si può dedurre dai giornali e dalla politica, il XX secolo è stato definito come il
secolo della terza e della quarta rivoluzione industriale. Le informazioni che riceviamo,
dai media e dagli economisti, non fanno altro che ricalcare come le trasformazioni
economiche del nostro Paese stanno accelerando a fronte di un altrettanto potente
sviluppo dei processi tecnologici e di innovazione.

Il professore Zaganella a sostegno di ciò ha dichiarato che, “il mio è un intervento che trae spunto da un’indagine condotta nell’ambito dell’Osservatorio, con il supporto dei TCR di Fonditalia, finalizzata ad analizzare il rapporto esistente, all’interno delle imprese aderenti al Fondo, tra innovazione, formazione e sviluppo economico.”

Dalla documentazione dell’indagine emerge come molte imprese, soprattutto del
Mezzogiorno, faticano a comprendere i cambiamenti del mondo del lavoro a seguito
della rivoluzione digitale. In effetti, il Sud Italia registra un’economia aziendale ad alta
intensità di lavoro, ma una bassa produzione e uno scarso approccio all’innovazione.
La situazione economica del Mezzogiorno risale alle prime aziende dell’800, dove gli
aspetti peculiari erano: le materie prime e l’uso di infrastrutture legate al territorio. In
quel periodo lo sviluppo del Sud Italia non era negativo, ma con la crisi (es. motivi
politici, economici, istituzionali e internazionali) degli anni ’70 dello scorso secolo le
imprese meridionali si sono disinteressate al concetto di modernità economica.

Si sono registrati, ha detto il professore Zaganella, una serie di situazioni sfavorevoli
allo sviluppo economico del Mezzogiorno, tra cui:

  • uno scarso interesse del capitale culturale;
  • la rottura tra disponibilità di materie prime e industrializzazione;
  • la nascita di un’economia della conoscenza (l’uso della digitalizzazione);
  • l’aumento della concorrenza e la rivoluzione informatica.

Di fronte a questi elementi, il Mezzogiorno non ha saputo reagire alle nuove sfide
economiche e digitali, rilevando incapacità di organizzazione imprenditoriale (es.
mancato investimento nella formazione dei dipendenti).
Tali aspetti hanno evidenziato una forte spaccatura tra Nord e Sud Italia; mentre nelle
regioni settentrionali (es. Vento, Emilia-Romagna, Marche e Toscana) lo sviluppo della
piccola-media impresa ha rilevato notevoli risultati, nelle regioni meridionali le
aziende hanno registrato gravi difficoltà.
Tra le problematiche del Mezzogiorno si annoverano:

  • il collegamento ad una civiltà agraria;
  • sviluppi economici disgregati;
  • il peso del latifondo come sistema economico statico e per nulla innovativo.

Questi aspetti hanno messo in crisi anche la formazione imprenditoriale e la nascita di
una cultura che si muove verso l’innovazione e l’informatizzazione. Perciò, il Mezzogiorno necessita di una “restaurazione imprenditoriale” sia a livello economico che produttivo. Il Sud deve ricorrere a nuovi stimoli e a nuove prospettive per volgere il proprio sguardo verso un futuro economico più innovativo. Sarebbe opportuno investire sull’aumento del capitale umano e culturale e, inoltre, riparare le basi economiche per arrivare a vertici aziendali più competitivi sia sul piano industriale-imprenditoriale che internazionale.




Bologna, la Torre Garisenda… “La salveremo” dicono gli esperti

La Torre Garisenda e la Torre degli Asinelli hanno da sempre rappresentato la città di Bologna. Le due torri sono dense di storia, tradizione e cultura e costituiscono il punto di attrazione di molti turisti.

La Torre degli Asinelli venne edificata dalla famiglia Asinelli nell’ XI secolo e portata all’altezza di ben 97 metri. La Garisenda invece venne costruita dalla famiglia Garisendi tra la fine dell’ XI secolo e l’inizio del XII secolo. In origine era alta circa 60 metri, ma per il rischio di crollo venne abbassata a 48 metri nella seconda metà del XIV secolo. La Garisenda è definita anche la “Torre Pendente” a causa di un cedimento del terreno avvenuto durante la sua costruzione.

Le due torri rappresentano anche un’importante “spartiacque” tra le due strade principali di Bologna: Strada Maggiore e via San Vitale.

La Garisenda, inoltre, venne anche citata da Dante, per ben due volte, nella Divina Commedia, per cui detiene uno sfondo letterario di notevole rilevanza.

Ciò che desta preoccupazione negli ultimi mesi è la sorte della Torre Garisenda, motivo per cui, molti si chiedono:

“La Torre Garisenda sta cedendo?” oppure “Bisogna salvare la Torre Pendente!”.

Queste affermazioni fanno emergere, nei cittadini bolognesi, sia preoccupazione che timore per la tradizione storico-culturale di Bologna:

Riportiamo di seguito gli interventi del Sindaco Matteo Lepore e di alcuni esperti (architetti, ingegneri etc …) per capire come poter intervenire tempestivamente e tranquillizzare i cittadini.

Il Resto del Carlino dello scorso 23 ottobre riportava le seguenti affermazioni del Sindaco di Bologna Matteo Lepore: “Ho sollecitato il Comitato Scientifico affinché invii una relazione definitiva così si potrà fare un intervento ad hoc per il restauro.” E ancora “… non ci sono rischi di incolumità. Non siamo in questa fase, si attendono i dati finali”

L’ingegnera Raffaella Bruni, del comitato per il restauro, sul Corriere di Bologna dello scorso 1 novembre dichiarava: “Sarà un comitato snello con specialisti nazionali. Un anello di container cinturerà l’area, poi un “girello” ingloberà la torre. Vorremmo evitare di smontarla o mozzarla.”

Sul quotidiano La Repubblica Bologna dello scorso 6 novembre l’architetto Jacopo Gresleri dichiarava: “Bologna è una città medievale costruita per cavalli, ma noi continuiamo ad usarla come una città moderna. Ora serve un progetto, non delle boutade da bar. Quindi, a cosa siamo disposti a rinunciare per salvare le Due Torri?”

La Torre Garisenda deve essere riassettata per evitare cedimenti importanti. L’ambiente attorno è cambiato: ci sono vibrazioni legate al traffico. E anche la composizione dell’aria può portare ad alterazioni chimiche. La Garisenda, essendo nata storta, è sempre stata sotto osservazione. Ora l’intervento interessa tutta l’Italia, non solo i bolognesi, e finirà nei manuali di ingegneria. La popolazione è in allarme e teme per la “sua” torre simbolo di orgoglio cittadino”. Parole queste ultime rilasciate dal Centro di Ricerca Edilizia e Costruzioni dell’Università Alma Mater al giornale la Repubblica lo scorso 14 novembre 2023. E sempre su Repubblica Bologna dello scorso 22 novembre l’architetto Pietro Maria Alemagna ha affermato: “Bisogna riuscire a fare di questo evento straordinario un momento di partecipazione collettiva. Per sentirci partecipi di questo salvataggio. La Garisenda come un’astronave: scateniamo tutti la fantasia”.

Da cittadina bolognese sono preoccupata del destino della torre Garisenda, ma allo stesso tempo invito tutti i cittadini e la nazione intera a riflettere sulle parole dei nostri esperti. Loro rappresentano il sapere scientifico di una città che deve essere custodita nella sua unicità. Tuttavia, per preservare la storicità medievale del capoluogo emiliano dobbiamo “curarlo e coccolarlo”. Ciò che contribuisce alla straordinarietà di Bologna sono le sue origini medievali che vanno conservate e tutelate. Pertanto tutti insieme, esperti e non, dobbiamo credere e non sperare nel verbo “salveremo” la Torre Garisenda.




Il futuro dei social e le relazioni pericolose: come “socializzare” con prudenza

L’avvento dei social ha inevitabilmente modificato le relazioni sociali sia in termini positivi che negativi. Le nuove modalità di interazione sociale hanno diffuso la percezione di una realtà più condivisa mediante le nuove possibilità e modalità di scambio comunicativo e socio-relazionale.

Le nuove tecnologie di interazione (es. smartphone, pc, tablet etc …), infatti, hanno prodotto notevoli mutamenti sul nostro essere sociali e relazionali.

In simultaneità sia gli strumenti digitali che i social non solo hanno diffuso un senso di vicinanza, ma anche di distanza.

Analizziamo il perché:

  • da un lato i social network (es. facebook, instagram, whatsapp etc …) hanno consentito ad una pseudo vicinanza con chi si trova altrove;
  • dall’altro i social hanno determinato una distanza psicologica e socio-relazionale profonda.

Ciascuno di noi, spesso e volentieri, utilizza i social per contattare un amico/a o un parente lontano, ma, nella maggioranza dei casi, tendiamo ad isolarci per chattare, telefonare etc … In tal caso è doveroso ricorrere ad un vero paradosso, cioè: avviciniamo chi è lontano e allontaniamo chi è vicino.
Tuttavia, i social, da un lato hanno migliorato le comunicazioni, ma dall’altro hanno peggiorato le relazioni e le comunicazioni “face to face”. Si è verificata una sorta di frammentazione comunicativa e socio-relazionale.
Nelle situazioni in cui le persone si isolano per chattare e/o per parlare non solo si allontanano dagli altri, ma possono inciampare in circostanze pericolose o particolari, ad esempio:

  • instaurare contatti virtuali con soggetti conosciuti tramite chat (o altro) e successivamente decidere di incontrarsi dal vivo può destare sia curiosità che pericolo;
  • ritrovarsi nella situazione in cui un haker potrebbe aver “rubato” il nostro profilo e quindi utilizzare la nostra identità e i nostri dati sensibili (nome, cognome, professione, città natale etc …) può scatenare ansia e paura;
  • incontrare virtualmente individui può farci incappare sia in una circostanza piacevole che deludente;

Tuttavia, quando girovaghiamo nel mondo virtuale possiamo trovarci dinanzi a situazioni di diversa natura. Non si deve mai essere troppo convinti di ciò che è scritto e/o fotografato sui social.

Come dice un noto proverbio, “la cosiddetta pulce nell’orecchio” dobbiamo sempre averla, poiché internet è un mondo vulnerabile.

Oggi per la maggior parte delle persone ed in particolare per le fasce di popolazione più giovane, il web è una realtà che si affianca e convive con quella tradizionalmente intesa.
In una realtà virtuale le persone si ritrovano a vivere esistenze parallele che si intersecano con la vita quotidiana e, mediante processi di reciproco influenzamento, conducono a nuove forme di organizzazione sociale.

Come dichiara Boccia, nel 2012, gli individui oggi si ritrovano a vivere contemporaneamente su due livelli, quello on line e quello off line. Quindi, rispetto al passato, i social, entrano nella nostra rete relazionale e la cambiano in modo drastico; muta la forma espressiva della comunicazione e la spontaneità della relazione.

Da una mia ricerca sperimentale condotta nel 2021 si sono rilevati dati “allarmanti” per cui, la maggior parte dei fruitori dei social hanno un’età compresa tra i 13 e i 16 anni, il mondo femminile è quello più accanito nell’uso dei media e la maggior parte dei genitori si sente in colpa per aver diffuso quest’educazione digitale.

Sovente, attraverso i focus group, molti genitori hanno dichiarato di essere stati troppo permissivi con i propri figli sull’uso dei dispositivi tecnologici nonché dei social.
In un secondo focus group altri genitori hanno asserito di non aver dato troppo peso a certe situazioni, ma che si sarebbero impegnati ad “osservare” di più gli atteggiamenti dei propri figli.

Di fronte a tali risultati, gli adulti devono dare il buon esempio e soprattutto è fondamentale far capire ai ragazzi/e gli aspetti buoni e nocivi che possono trapelare dall’uso dei social e dei media digitali. Bisogna essere adulti aperti e comprensivi per evitare che i giovani si perdano in un mondo così variegato.

Gli adulti e i giovani che fanno uso dei social devono adottare misure di sicurezza e di controllo affinché tutti possano come dice il titolo, “socializzare on line o off line con prudenza”. È importante valutare e comprendere ogni singolo “incontro”, sia virtuale che reale, per proteggere la comunicazione, la relazione e la socialità di ciascuno di noi.




Lettura dai 0 ai 6 anni: benefici e consigli pedagogici

Il Comune di Bologna, nel 1999, ha fatto partire un’importante iniziativa chiamata “Nati per leggere”

La lettura nella fascia d’età 0/6 rappresenta un momento catartico e ricco di emozioni
sia per i bambini che per gli adulti.

La lettura a questa età è un momento di espressione, ma anche di esplorazione.
I bambini nascono con una grande propensione all’ascolto. Già nel grembo materno il
bambino è in grado di riconoscere le voci, soprattutto quella materna e possiede già
una propria sensibilità all’intonazione.

Perciò la lettura ad alta voce ha dei risvolti importanti per lo sviluppo della personalità
dei bambini sia sul piano emotivo, relazionale, cognitivo, linguistico, sociale e
culturale.

Dal punto di vista emotivo la lettura consente al bambino di dare un nome alle emozioni
dei protagonisti e, successivamente, anche alle proprie; da un punto di vista relazionale
consente al bambino di percepire le azioni e le emozioni dei protagonisti, stimolando
l’empatia; da un punto di vista cognitivo la lettura, fin dai primissimi mesi di vita,
sviluppa la creatività, la memoria e la logicità; da un punto di vista linguistico leggere,
in “tenera” età stimola lo sviluppo del linguaggio e del pensiero; dal punto di vista
sociale i bambini che leggono, sia a scuola che a casa, dimostrano di avere un migliore
rendimento scolastico e sono preparati ad inserirsi nel contesto sociale; da un punto di
vista culturale il libro insegna molte cose: il libro è storia, morale e valori che si
tramandano da generazione a generazione.

I bambini devono essere stimolati alla lettura fin dai primi mesi di vita

Si tratta di una lettura condivisa, ovvero quella in cui l’adulto legge ad alta voce;
l’adulto deve dimostrarsi un lettore consapevole poiché solo così si può trasmettere al
bambino, anche di 7 mesi, una valida esperienza di ascolto e di osservazione.
La lettura deve essere proposta in momenti e luoghi adatti (es. costruire un angolo
lettura con materassini morbidi) per favorire non solo l’ascolto, ma anche il
rilassamento.

L’adulto (educatore e/o genitore) deve leggere con espressività e stabilire un contatto
visivo con il bambino o il gruppo di bambini. Leggere ai bambini nei primi anni di vita fa si che il cervello del bambino raggiunga una ricettività agli stimoli esterni che mai più si ripeterà uguale.

Dopo aver sottolineato i principali benefici del leggere ad alta voce e della rilettura,
osserviamo quali sono i consigli pedagogici da un punto di vista dell’offerta educativo formativa:

  • tra i 0 e i 6 mesi sono consigliati i libri tattili poiché, il neonato alla nascita riesce
    a vedere in modo sfocato e solo in bianco e nero; perciò le prime immagini che
    il bambino vede hanno contorni netti, regolari e lineari. In questa fase, è
    importante prediligere libri piccoli in bianco e nero, con forti contrasti cromatici
    e immagini semplici. Questo primo approccio al libro è soprattutto fisico, per
    questo sono preferibili libri da manipolare e stimolare i cinque sensi. In questa
    fascia d’età si possono leggere filastrocche oppure cantare, favorendo nel
    bambino la capacità di ascolto;
  • tra i 6 e i 12 mesi lo sguardo del bambino è più attento, quindi si consigliano
    libri veri e propri con pagine spesse e cartonate, magari ancora di piccolo
    formato per renderli più maneggevoli. I libri di questa fascia d’età possono
    raffigurare animali o soggetti che fanno parte della loro quotidianità. Importanti
    sono anche i primi libri sonori;
  • tra i 12 e i 18 mesi il libro diventa una vera e propria scoperta; in questo caso si
    possono proporre libri con i buchi, con le finestrelle o con delle alette da alzare.
    In questa fase, i bambini sfogliano i libri con un adulto e indicano con il dito le
    figure. Il libro è un oggetto ancora da scoprire e da manipolare. I bambini
    attribuiscono suoni alle cose e danno un nome agli oggetti. Dai 18 mesi si
    propongono storie semplici e brevi caratterizzate da una trama essenziale (inizio,
    svolgimento e fine). È in questa fase che il bambino acquisisce la
    consapevolezza che esiste un prima e un dopo;
  • tra i 18 e i 24 mesi il bambino ripete piccole sequenze di storie e gli piacciono i
    libri che parlano di animali o di azioni legate alla sua quotidianità. È verso i 24
    mesi che il bambino inizia a comporre le sue prime frasi e il libro diventerà
    sempre più un oggetto “suo”;
  • tra i 2 e i 3 anni il bambino possiede un ampio vocabolario e riconosce molte
    immagini e parole. È la fase dell’autonomia e della sperimentazione. In questa
    fase, i libri consigliati sono gli albi illustrati (es. i libri sulle emozioni, sulle
    diversità, sull’autonomia, sull’amicizia etc …);
  • tra i 3 e i 6 anni il bambino è considerato un piccolo lettore, legge insieme ai
    pari, agli insegnanti, ai genitori oppure da solo.
    Dai 4 anni in poi si possono proporre la lettura di fiabe classiche, degli albi
    illustrati e anche dei silent book.

Questo excursus ha evidenziato i benefici della lettura fin dai primissimi mesi di vita e
ha suggerito quali tipologie di libri presentare in ogni fascia d’età.

Il Comune di Bologna, nel 1999, ha fatto partire un’importante iniziativa chiamata “Nati per leggere” tutt’ora attiva

È un progetto nazionale nato dall’alleanza tra esperti (pediatri) e bibliotecari per incentivare la lettura ad alta voce ai bambini dall’età prescolare ai 6 anni. Questo progetto sostiene da sempre la crescita e lo sviluppo dei bambini attraverso la lettura ad alta voce e la rilettura.

Il progetto “Nati per Leggere” si è espanso anche a livello nazionale, istituendo anche percorsi formativi per gli adulti (educatori, insegnanti e genitori). Ogni anno viene istituito un seminario o degli incontri a tema dove, gli esperti, parlano per dare nuovi suggerimenti agli adulti che sono a stretto contatto con i bambini. È un progetto che sta avendo molto successo e che incentiva i propri obiettivi anno per anno.




Diversità sessuale: un difficile cammino verso una maggiore consapevolezza

Negli ultimi decenni il tema della diversità sessuale e del transessualismo è stato molto discusso, soprattutto nell’ambito sociale, politico, legislativo e religioso. Sono stati decenni ricchi di controversie sia nell’ambito psicoanalitico che nell’opinione pubblica.

La psicoanalisi ha dovuto affrontare concetti che sono entrati in un processo di frammentazione: la nascita di nuove forme sessuali, variazioni di genere e nuovi assetti
famigliari.

Dopo aver seguito un corso di formazione intitolato “Educare alle diversità sessuali”
mi sono ritrovata, insieme ad altre colleghe, a comprendere maggiormente il complesso
rapporto che esiste tra sesso biologico e identificazione di genere.

Come affermò Bachtin già nel 1963, tali aspetti ci mostrano la necessità di avere un
dialogo aperto, basato sul principio della “comprensione dialogica attiva”, e di pensieri
critici da attivare per evitare qualsiasi pregiudizio.

Un altro aspetto, non indifferente, è che negli ultimi anni è cambiato il modo di pensare
al proprio corpo. Come sostenne Lemma nel 2005, il corpo fa parte di una cultura
tecnologicamente avanzata, di un mondo soggettivo, di un progetto personale, che ha
il diritto ad essere modificato e costruito sulla base di ciò che desideriamo essere.

Oggi giorno urge costruire uno spazio in cui elaborare i cambiamenti del proprio corpo,
con la consapevolezza e il rispetto per il valore altrui. Ciascuna persona dovrebbe
pensare in modo più avanzato all’unità e alla diversità, evitando le rigidità che da
sempre hanno accompagnato questo argomento. Tuttavia, non è richiesta la sola
capacità di inclusione, ma, come dichiara Marion nel 2017, si deve costruire un
pensiero orizzontale e paritetico.

I cambiamenti messi in atto, negli ultimi anni, hanno riguardato la caduta di un pensiero
verticale e gerarchico in cui predominavano il concetto di maschile e femminile come
categorie rigide e contrapposte.

La caduta di questa posizione culturale e sociale ha portato ad una decostruzione dei termini maschio e femmina. Sovente, di fronte ad un’identità di genere satura, direzionale e stabile, né è stata proposta un’altra che rimane aperta, insatura e in divenire. Per i teorici del genere la sfera sociale sostituisce quella biologica e il genere è il risultato di relazioni di potere piuttosto che di differenze sessuali. Quindi, ribaltando le credenze sessuali tradizionali, sono state accettate (in parte si e in parte no) le richieste di cambiamento di genere in nome della libertà di affermazione di sé stessi.

Gli omosessuali hanno da sempre combattuto per ottenere pari diritti e dignità di fronte
agli eterosessuali; le battaglie fatte nei confronti delle politiche, della religione e dell’opinione pubblica sono servite nel corso degli ultimi anni per ottenere alcuni diritti (es. matrimonio tra coppie omossessuali) ed eliminare il più possibile l’omofobia, ma siamo ancora un passo indietro.

In termini psicologici, si è trattato di accettare la distinzione tra la rappresentazione
psichica del corpo e quella del corpo anatomico oggettivo e specializzato.
Sostanzialmente è il nostro modo di intendere il soggetto a mettersi in gioco, tutti noi
dovremo accettare la possibile riformulazione del nostro corpo in termini di movimento
e cambiamento.

Tuttavia, bisognerebbe essere consapevoli che il corpo si trasforma e che può cambiare
genere sessuale; in virtù di ciò non dovremo pensare il corpo come univoco bensì
sarebbe opportuno riconoscere l’esistenza di un’alterità sessuale.

Per acquisire maggior consapevolezza su questi concetti dovremo essere disposti a
pensare che una polarità maschile-femminile non è all’altezza della complessità
sessuale e dei cambiamenti di genere. La sessualità contiene tante sfumature, perciò
ognuno di noi dovrebbe essere maggiormente empatico di fronte alle diversità sessuali,
evitando di creare etichette.

Oggi tante discordie su questo argomento potrebbero essere colmate se comprese, ma
il compito degli specialisti e non sembra essere ancora arduo, poiché l’argomento
appare ancora ostico e denso di incognite.

Ad esempio, il Comune di Bologna, in termini di inclusione e consapevolezza delle
diversità sessuali di genere ha proposto ai cittadini diversi seminari e incontri (non
obbligatori) per sensibilizzare gli individui a questi tipi di argomenti ancora nevralgici.
Inoltre, il Centro di Documentazione del Comune di Bologna, per incentivare la
comprensione delle diversità sessuali ha proposto ai cittadini un opuscolo dal titolo “Le
parole che fanno la differenza”, proprio per dichiarare che il maschile non è universale,
ma è solo un discorso di potere.

Il linguaggio è in grado di descrivere la realtà e di saperla modificare, parole di Mariagrazia Bonzagni (Direttrice Area Programmazione e Statistica presso il Comune d Bologna).
Tutti insieme possiamo fare la differenza se tutti lottiamo per i nostri diritti.




Scuola e disabilità: conoscere per educare all’inclusione

La disabilità si può conoscere solo quando tutti i soggetti che vi “entrano in contatto” (dalla famiglia, agli insegnanti, agli educatori etc …) sappiano trattarla nel rispetto di coloro che appunto “vivono una diversa condizione psico-fisica”.

Per questo motivo, la gestione della disabilità non può essere delegata ad un unico genitore, insegnante (es. insegnante di sostegno) o tutore.

Tutti i soggetti che “entrano” in contatto con la disabilità devono essere coinvolti nel processo d’ inclusione “facendosi carico” dell’individuo disabile.

È opportuno realizzare una “comunità educante” capace di mettere in atto interventi formativi e soprattutto orientati alla cooperazione e al sostegno.

Nel 2009 sono state varate le “Linee guida per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità” le quali, prevedono la realizzazione di incontri tra docenti e specialisti sia per la disabilità che per altri deficit come ad esempio, i DSA (disturbi sociali dell’apprendimento), i BES (bisogni specifici dell’apprendimento) o gli ADHD (disturbi autistici o derivanti da deficit di attenzione iperattiva).

Le Leggi Nazionali infatti definiscono i traguardi principali del processo formativo per la conoscenza e l’inclusione della disabilità:

  • la comunicazione;
  • l’apprendimento;
  • la relazione;
  • la socializzazione;
  • l’autonomia.

Per conoscere gli aspetti importanti legati alla storia personale dell’individuo disabile,
è opportuno identificare un progetto di intervento individualizzato (es. il PEI, nonché
il piano educativo individualizzato).

Affinché la conoscenza iniziale si concretizzi in progetto occorre che la scuola attui:
un’accoglienza continua fatta di “routine” (es. incontri periodici, attività, proposte etc
…).

Al processo conoscitivo si aggiunge quello di integrazione che coinvolge tutte le sfere
quotidiane del disabile (dalla famiglia alla scuola ai diversi centri educativi che
frequenta).

Entrambi i processi (conoscere e includere) devono tener presente di alcuni aspetti
specifici:

  • la comunicazione tra il disabile e il tutore deve essere svelata gradualmente;
  • non bisogna enfatizzare il deficit;
  • occorre accogliere la personalità e il dinamismo evolutivo del soggetto disabile.

La Costituzione Italiana riconosce ai disabili il diritto all’educazione e all’avviamento
professionale, il riconoscimento dei diritti inviolabili e della pari dignità sociale.
Tuttavia, lo scopo è quello di eliminare ogni ostacolo che possa impedire lo sviluppo
psico-fisico del soggetto disabile.

I mondi che ruotano attorno all’individuo con deficit devono andare nella direzione
dell’inclusività e della costruzione del proprio progetto di vita.
Ciascuna forma di disabilità non può essere sterilizzata e ridotta ai minimi termini.
Perciò affinché ciò non avvenga, la comunità educante (per prima la scuola) deve:
realizzare elevati standard di qualità nell’inclusione, promuovere la relazione con le
famiglie, garantire percorsi formativi specifici per tutti i soggetti coinvolti, rafforzare
le capacità inclusive, studiare metodologie e strumenti idonei, promuovere la ricerca,
sostenere lo sviluppo di una cultura dell’inclusione, favorire l’integrazione tra attività
curricolari ed extra-curricolari e incoraggiare l’interdisciplinarità.

Ribadendo i termini di conoscenza e di inclusione della disabilità è professionale
parlare di questa tematica, organizzando situazioni di sensibilizzazione e di
approfondimento per tutta la cittadinanza e non solo per i soggetti coinvolti.




Un paese con diverse culture: come educare all’inclusione?

I flussi migratori che oggi caratterizzano il nostro paese sono tanti e spesso vengono sottovalutati e addirittura discriminati. La politica italiana, nonché i regolamenti del “nostro” paese sono discordanti nell’attribuire alla migrazione una giusta collocazione sia in termini giuridici che inclusivi. Quindi c’è spesso il rischio di andare verso un’educazione monoculturale che cristallizza e sviluppa degli stereotipi, favorendo l’intolleranza e il rallentamento dello sviluppo di una società più democratica e soprattutto inclusiva.

L’intento pedagogico, in quest’ottica, è di diffondere l’idea di interculturalità e di educazione all’inclusività sia nelle scuole che nelle famiglie. Educare all’interculturalità significa trasferire tutti i codici “diversi”, rispetto alla cultura dominante, con il fine di incentivare la convivenza tra etnie differenti.

Il concetto di educare alla “diversità” sta nel creare contesti di rispetto e di tutela delle diverse identità. La pedagogia interculturale si è sempre espressa sulla necessità di interrogarsi sull’incontro con “l’altro”, sui contenuti che si mettono in gioco, sulle dinamiche che si costruiscono e sulle strategie che possono accompagnare e sostenere i processi di accoglienza e convivenza.

La scuola ha da sempre rappresentato il contesto idoneo per realizzare e ricevere una società multiculturale, gradevole e dinamica. Le istituzioni scolastiche mediante, progetti di inclusione, rappresentano l’ambiente più fertile dove bambini, insegnanti, genitori e adulti possano essere educati all’inclusione dell’ “altro”, nonché alla lotta contro il razzismo e il disprezzo. Gli adulti devono rappresentare l’esempio di tolleranza e inclusione dell’“altro” nei confronti dei bambini. Tuttavia, si riconosce un ruolo basilare all’atteggiamento degli adulti, poiché i bambini imitano chi è più grande di loro.

L’adulto ha quindi una responsabilità molto importante nel mettere in primo piano comportamenti di sostegno nei confronti delle diversità culturali.

È opportuno combattere pregiudizi e stereotipi attraverso percorsi educativi e pedagogici, offrendo momenti di incontro e confronto basati sull’empatia (es. la lettura di un libro, il racconto di una storia, parlare dei propri vissuti etc …). Questi momenti consentono ai bambini e agli adulti di osservare il “diverso” da più punti di vista.

La scuola in effetti ha messo in atto diversi progetti per l’accoglienza di altre culture:

  • preparare un ambiente di accoglienza sia per il bambino che per la famiglia;
  • predisporre un percorso di adattamento e di benessere psico-fisico;
  • sostenere la crescita del bambino;
  • rafforzare ogni giorno il dialogo con la famiglia del bambino, servendosi anche
    di un mediatore linguistico, qualora fosse necessario per la comprensione della
    lingua.

Ogni agenzia educativa (dalla famiglia alla scuola etc … ) deve sviluppare attenzione verso culture differenti, creare dialogo, scambio e comprensione. È importante sostenere la conoscenza dell “altro” in un’ ottica di trasmissione, mettendo in gioco la curiosità. Educare all’inclusività significa evitare le differenze e i confini.