Microsoft presenta Surface Hub 2S

Microsoft ha annunciato il nuovo Surface Hub 2S, il dispositivo all-in-one pensato per la collaborazione, che riunisce il meglio delle soluzioni Microsoft per la produttività, come Windows 10, Microsoft Teams, Office 365, Microsoft Whiteboard e la potenza dell’Intelligent Cloud. Il nuovo membro della famiglia Surface racchiude performance migliorate in un design ancora più sottile, leggero e versatile.

Con un peso inferiore del 40% rispetto alla versione precedente e un display più sottile del 60%, Surface Hub 2S è perfetto per ogni ambiente, dalle sale riunioni tradizionali alle compatte Huddle Room.

Il vivido schermo multi-touch 4K+ da 50’’ offre un’ampia tela per la collaborazione e la migliore esperienza touch ad alta risoluzione della categoria. In risposta alle esigenze di team sempre più estesi, globali e mobili, Surface Hub 2S intende offrire la flessibilità necessaria per riunirsi ovunque ci si trovi, collaborare e realizzare il proprio potenziale.

Il suo design compatto e la cornice più sottile della categoria, insieme alla videocamera 4K, all’eccellente qualità sonora e alla tecnologia far-field del microfono, garantiscono un’esperienza di collaborazione fluida e offrono ai partecipanti l’impressione di trovarsi nella stessa stanza.

In combinazione con il Roam Mobile Stand ideato dal partner Steelcase e grazie alla APC Charge Mobile Battery, Surface Hub 2S può essere comodamente spostato da una stanza all’altra, permettendo di proseguire la propria attività in mobilità senza soluzione di continuità. Con l’obiettivo di rispondere a ogni esigenza di collaborazione, Microsoft ha inoltre annunciato lo sviluppo di due nuovi dispositivi della linea Surface Hub. Nel corso dell’anno, l’azienda introdurrà, infatti, Surface Hub 2 Display, dedicato agli spazi che hanno bisogno di schermi che garantiscano un’eccellente interazione touch e via penna, senza necessità di capacità computazionali.

Inoltre, sarà offerta una nuova possibilità di configurazione che permette ai clienti Surface Hub 2S di avere Windows 10 Desktop sui dispositivi, modalità particolarmente adatta per scenari Win 32 specifici. Microsoft ha infine annunciato di essere al lavoro su una nuova versione di Surface Hub 2S con schermo da 85’’, la cui fase ti test partirà con una selezione di clienti all’inizio del 2020.

“Il mondo del business, sempre più interessato negli ultimi anni da processi di digital transformation che ne rivoluzionano gli assetti, ha bisogno di spazi e soluzioni innovativi per consentire ai team di collaborare e dare il meglio di sé nella progettazione di idee vincenti.

Come dimostrato da una ricerca di Steelcase, l’80% dei dipendenti considera il lavoro di squadra essenziale per svolgere al meglio le proprie attività. Tuttavia, con la diffusione dello smart working e la proliferazione di team globali, è sempre più difficile trovarsi fisicamente nella stessa stanza. Basti pensare che il 70% dei professionisti ha dichiarato di lavorare da remoto almeno una volta alla settimana e il 53% lo fa almeno metà dei giorni della settimana.Con Surface Hub 2S, intendiamo offrire alle aziende uno strumento tecnologico all’avanguardia, in grado di ottimizzare il lavoro di squadra, in qualunque contesto, sia fisico sia virtuale”, ha commentato Elvira Carzaniga, Business Group Lead Surface di Microsoft Italia.

Surface Hub 2S sarà inizialmente in vendita negli Stati Uniti a partire da giugno 2019. Il suo arrivo in Italia è previsto sempre nell’estate 2019 e dal 1° maggio sarà già possibile prenotare i dispositivi. Per maggiori informazioni è possibile contattare i rivenditori autorizzati Ayno e Insight.

F.P.L.




Tutti avvocati con Phoenix Wright Ace Attorney Trilogy

Phoenix Wright Ace Attorney Trilogy è pronto a diventare in maniera definitiva una serie multipiattaforma.

La collection incentrata sulle gesta dell’ormai noto avvocato di casa Capcom ha infatti già visto la luce diversi anni orsono, in due momenti separati: nel 2014 sui due modelli di Nintendo 3DS e nel 2012 su dispositivi mobile, in una smagliante forma in HD.

Oggi, invece, la raccolta fa capolino tra i titoli presenti nei principali store digitali per mettere tre grandi classici dell’adventure investigativo (Phoenix Wright: Ace Attorney, Justice for All e Trials and Tribulations) anche a disposizione di chi, utente PC o Xbox One, Ps4 o Switch, ne sia rimasto finora a totale digiuno. Ma cos’è Phoenix Wright? Che tipo di videogame è?

Ve lo spieghiamo noi: la saga si costituisce di un gameplay semplice ma dannatamente efficace, un incrocio assolutamente perfetto tra una visual-novel, genere tipicamente giapponese che non sempre prevede un’interazione decisa da parte del giocatore, e un’avventura grafica con un originale approccio a puzzle ed enigmi.

Nei panni dell’avvocato difensore Phoenix Wright, il giocatore deve dapprima raccogliere le prove necessarie parlando con persone ed esaminando gli scenari messi a disposizione da ogni caso, per poi utilizzarle contro l’accusa per smontarne le tesi.

Solitamente, ogni caso viene suddiviso in tre lunghi giorni in cui la parte investigativa si alternerà a quella in tribunale. Naturalmente non si tratta di un simulatore, e la legge viene qui applicata con delle regole semplificate rispetto a quelle reali, ma l’effetto finale è in ogni caso veramente sorprendente.

Le parti investigative permettono di muoversi liberamente tra gli scenari che a volte riveleranno ulteriori particolari se visitati in momenti diversi; qui il gioco è una vera e propria avventura grafica con un cursore usato per cercare dettagli e indizi e personaggi con cui dialogare e interagire anche in base agli elementi che saranno disponibili nell’inventario delle prove. La parte in tribunale invece è quasi tutta giocata sulle parole, ed entra nel vivo una volta che saliranno alla sbarra i diversi testimoni. Ognuno di questi racconta la sua versione senza fermarsi, una volta finito il giocatore può utilizzare ogni frase detta nella dichiarazione per fare ulteriori domande o mostrare le prove che contraddicono quanto detto dall’interrogato dinanzi al giudice.

I diversi casi, circa cinque per ognuno dei tre episodi inclusi in questa edizione, prevedono però tantissime varianti e altrettanti colpi di scena che rendono ogni deposizione una continua sorpresa, nonché una battaglia psicologica che nei ritmi, nelle musiche e negli effetti grafici sono incredibilmente emozionanti. Phoenix Wright è una serie molto amata, che viene riproposta ciclicamente e stavolta è il turno delle attuali console e del Pc. È un caposaldo del genere investigativo, grazie alla sua scrittura accesa, capace di alternare momenti comici a momenti di grande tragedia e umanità. I misteri presentati non hanno nulla da invidiare ai delitti visti nei romanzi di Agata Christie o Conan Doyle. Ogni caso è infatti un giallo classico, deduttivo, che chiede d’essere risolto per mostrare il suo finale: un romanzo attivo, e a momenti persino impegnativo. Spesso, pur conoscendo già l’identità dell’assassino, la sorpresa sta nelle modalità dell’esecuzione in quanto riuscire a sbrogliare la matassa ri rileverà essere un compito spesso molto arduo. Chi cerca questo genere di intrigo, in un contesto non troppo realistico, è di fronte a un grande esempio di scrittura tanto logica quanto sopra le righe, una combinazione che funziona sorprendentemente bene. Chi fosse dunque incuriosito dal gioco in sé, e non dai cambiamenti relativi al porting, sappia già che vale l’acquisto. Lo scheletro del gioco non è stato toccato per niente, e se la resa grafica è meno affascinante di quella vista nei titoli originali, il comparto sonoro è migliore che in passato.

Ovviamente, è proprio il caso di dire, qualche obiezione da fare sul titolo c’è. A partire dalla totale assenza di novità sostanziali, infatti, un extra di qualsiasi tipo, anche una semplice raccolta di artwork, avrebbe fatto apparire questa trilogia più appetibile per chi ha già giocato ai titoli. Al momento infatti Phoenix Wright Ace Attorney Trilogy è una riproposizione di quanto già visto su iOS/3DS, senza alcuna differenza sostanziale. Inoltre un altro neo di questa produzione è la scarsa localizzazione, infatti al momento, le lingue a disposizione sono soltanto inglese e giapponese. Ufficialmente sono in arrivo francese e tedesco, oltre a coreano e cinese. Ma in ogni caso, se non si mastica bene una di queste lingue, giocare e cercare di finire un caso è assolutamente impossibile, quindi prima di procedere all’acquisto è bene avere ben chiaro quest’aspetto. Tirando le somme, Phoenix Wright Ace Attorney Trilogy è una raccolta che rende giustizia alle prime imprese dell’avvocato di casa Capcom e a tutta la sua “strampalata” compagnia, con situazioni comiche e altre tragiche che sicuramente sono fatte per restare nel cuore come poche altre. A patto di conoscere l’inglese, il gioco farà passare diverse ore di grande divertimento e di emozioni, proprio per questo, a nostro avviso, chi non ha mai giocato a questa fantastica saga, adesso potrà scoprirla nel migliore dei modi. Un gioco diverso, unico nel suo genere, non adatto a tutti, ma la trilogia di Phoenix Wright è un titolo assolutamente da non lasciarsi sfuggire, in fondo, ricordiamo, stiamo parlando di un grande classico.

GIUDIZIO GLOBALE:

Grafica: 7

Sonoro: 9

Gameplay: 8

Longevità: 8

VOTO FINALE: 8

Francesco Pellegrino Lise




Sekiro: Shadows Die Twice, un’impresa titanica

Sekiro: Shadows Die Twice, l’ultimo videogame sviluppato da From Software per Pc, Xbox One e PS4, non delude le aspettative e si presenta come un titolo estremamente difficile, fatto per chi ha pazienza e soprattutto voglia di imparare dai propri errori. In un mix esplosivo fra dinamiche simili alla saga di Dark Souls insieme a componenti presenti nel primo originale Tenchu per Psx (sviluppato anche da From Software nel 1998). In questa nuova avventura la software house in partnership con Activision abbandona il mondo medioevale/fantasy dei Souls per abbracciare il Giappone feudale. Il titolo infatti è ambientato nel periodo Sengoku, un’epoca di crisi e molteplici conflitti interni che caratterizzarono il paese del Sol Levante tra la metà del XV secolo e l’inizio del XVII secolo. In Sekiro: Shadows die Twice il giocatore impersona il Lupo, uno shinobi dotato di straordinarie capacità al quale è stato affidato l’onere, e l’onore, di proteggere l’Erede Divino, un giovane dal retaggio nobile nel cui sangue scorre un potere immenso capace, almeno così si dice, di sconfiggere addirittura la morte. Quando i comandanti del clan Ashina, una delle famiglie più influenti del periodo, iniziano a intravedere la possibilità che il loro dominio, ottenuto pochi anni prima attraverso un sanguinoso conflitto, venga messo in discussione dall’autorità del governo centrale, decidono di rapire l’Erede Divino per tentare di sfruttare il suo potere a loro vantaggio. Il protagonista, nel prologo-tutorial del gioco, tenta invano di salvarlo, finendo per perdere il proprio braccio sinistro. In suo soccorso arriva però un misterioso scultore, il quale non solo gli salva la vita, ma installa una protesi meccanica al posto dell’arto mozzato consentendo al Lupo, anche conosciuto come Sekiro, di tornare a combattere e di rimettersi sulle tracce del suo giovane Signore. Da questi eventi ha inizio l’avventura del Lupo, un’avventura difficile, che richiederà impegno e pazienza, che farà perdere le staffe per via della sua accentuata difficoltà, ma che sa anche regalare grandissime emozioni quando si riesce a superare un boss che sembrava impossibile da battere. La formula utilizzata da Sekiro è crudele ma in realtà non è nulla di nuovo. Il titolo di From Software e Activision infatti rispolvera la formula con cui, nei lontani anni 80 e 90 si giocava ai videogame, ossia: muori e riprova finché non ci riesci. Non ci sono scorciatoie o trucchetti che tengano, se si vuole arrivare alla fine del gioco servirà infatti pazienza, sangue freddo, nervi d’acciaio e soprattutto una grande, anzi grandissima dose di buona volontà. Insomma, in Sekiro chi si ferma è perduto. La produzione, visto l’altissimo livello di sfida e soprattutto visto il tipo di gioco, non è un titolo adatto a tutti, è molto probabile infatti che i casual gamer si arrendano quasi subito. Questo videogame, invece, è una vera e propria sfida per giocatori “duri”, per chi si vuole mettere in gioco e soprattutto per chi vuole riscoprire la bellezza di giocare in single player per portare a compimento un’impresa titanica, ma assolutamente non impossibile. La nostra esperienza con Sekiro, per ottenere il finale migliore ci ha tenuto impegnati per una sessantina di ore, ma se si vuole scoprire ognuno dei 4 epiloghi, ogni volta che si porterà a termine il gioco verrà proposta un’avventura nuovo +, dove potenziamenti e bonus ottenuti rimarranno attivi, ma i nemici saranno molto più forti e in alcuni casi introdurranno delle novità. Insomma, se si vuole completare Sekiro al cento per cento sono necessarie (per un giocatore medio) una gran dose di pazienza e moltissime ore di gioco.

Il nuovo gioiello di From Software è un titolo action in
terza persona, e come tale lascia dietro di sé praticamente tutta la componente
ruolistica che caratterizzava i vari Dark Souls e Bloodborne, prima su tutte
quella riguardante la creazione e lo sviluppo del personaggio tramite numerose
caratteristiche. In Sekiro: Shadows die Twice il giocatore controlla un
protagonista ben definito, dotato di una propria personalità e di due sole
caratteristiche base, ovvero Vitalità e Forza d’Attacco. Dalla prima dipendono
la salute del protagonista e la postura, ovvero la capacità di mantenere
l’equilibrio nonostante i colpi avversari, mentre la seconda ha, come
facilmente intuibile, un impatto sulla quantità di danni inferta dal
protagonista con la sua katana, unica arma principale presente nel gioco. A
questa si affiancano poi gli “Strumenti Prostetici”, ossia alcuni speciali
gadget che possono essere installati dallo scultore nel braccio meccanico del
protagonista dopo essere stati raccolti nel mondo gioco, e che gli conferiscono
la capacità di usare un rampino, di lanciare shuriken, di colpire i nemici con
una potente ascia a molla, di sfruttare una lancia per trafiggere i nemici o
per eliminare le armature più rudimentali, di lanciare getti infuocati e molto
altro ancora. In totale nel gioco sono presenti 10 strumenti prostetici
differenti, alternabili liberamente e che possono essere potenziati consumando
risorse e Sen, la valuta presente nel gioco. Andando avanti nella storia il
giocatore ha poi la possibilità di utilizzare svariate abilità, utili sia in
fase difensiva che in fase offensiva, il cui sviluppo e utilizzo è in questo
caso leggermente più articolato. Nel gioco esistono diversi tipi di arti di
combattimento, di arti marziali shinobi, di abilità latenti e di tecniche
Ninjustu, che si differenziano tra loro per modalità di utilizzo e metodo di
apprendimento. In generale tutte le capacità possono essere sbloccate in due
modi: o superando punti specifici della trama o consumando i punti abilità
accumulati raccogliendo esperienza fino a quel momento, a patto di aver già
raccolto il tomo relativo alla quella specifica tipologia di arte. Le abilità
latenti e le arti marziali shinobi, una volta apprese, entrano subito a far
parte del ventaglio di capacità in possesso del protagonista, offrendogli dei
vantaggi passivi o la possibilità di eseguire mosse in specifiche situazioni.
Le arti di combattimento e le tecniche Ninjutsu, che permettono al giocatore di
eseguire attacchi speciali o di perfezionare le sue doti stealth, invece devono
essere inserite nello slot dedicato presente nel menù ed è possibile tenerne
attiva solo una per volta. Insomma, come gli appassionati dei Souls avranno
notato, il tipo di gioco è leggermente diverso da quanto visto negli altri
titoli di From Software. Strumenti e abilità rivestono un ruolo fondamentale
all’interno di quelli che sono, di fatto, i veri tratti distintivi di Sekiro:
Shadows die Twice, ovvero il sistema di movimento e il combattimento. Il
protagonista infatti è dotato di capacità atletiche particolari che gli
permettono di saltare, di scivolare, di appendersi alle sporgenze e di
raggiungere punti apparentemente fuori dalla sua portata sfruttando il rampino
installato nella sua protesi shinobi. Lupo però essendo un ninja ha la capacità
di nascondere la sua presenza agli avversari muovendosi in posizione
accucciata, usando ripari, camminando sotto il pavimento delle tipiche case
giapponesi o scomparendo nell’erba alta e nell’acqua. Sfruttando tutte queste
tecniche il protagonista può facilmente evitare gli scontri, ridurre le
distanze che lo separano dai suoi obiettivi o coglierli di sorpresa con un
colpo mortale. Il lupo può sfruttare le sue abilità anche per tendere
imboscate, attirare i nemici in determinate zone e colpirli dove non desta sospetto,
e proprio in questo (assieme alla pioggia di sangue in stile Tenchu quando si
elimina un nemico) sta la genialità del titolo. In ogni caso, è bene
sottolineare che finire il gioco senza dover combattere è impossibile, in
Sekiro: Shadows die Twice si deve ricorrere alla katana tanto, sia contro i nemici
semplici che pattugliano le aree di gioco, sia contro nemici speciali e boss. A
caratterizzare le diverse tipologie di avversari, oltre al livello di
difficoltà degli scontri, spicca la gestione delle caratteristiche principali
degli stessi, che ricalcano quelle del protagonista. Ogni personaggio è infatti
dotato di una certa quantità di salute e di postura. La prima può essere
danneggiata portando a segno i colpi mentre la seconda diminuisce ogni volta
che il personaggio para, vede un suo attacco che viene deviato o subisce una
contromossa. Quando la postura, la cui velocità di recupero dipende anche dalla
salute e dalla capacità del giocatore di rimanere in guardia, arriva a zero, il
personaggio può essere sbilanciato, esponendosi ad un colpo mortale capace di
causare la morte istantanea dello stesso, almeno quando si tratta di nemici
base. Generali, boss intermedi e boss principali invece dispongono di più barre
della vitalità, il che richiede al giocatore di mettere al tappeto più volte
questi specifici avversari, i quali però spesso lo ricompensano con oggetti
fondamentali per proseguire, come nuove tecniche o con “Grani di Rosario” utili
per aumentare la vitalità e “Ricordi” che fanno crescere la forza di attacco
del Lupo. In Sekiro: Shadows Die Twice viene inserita la meccanica del Colpo
Mortale (presente anch’essa in Tenchu) per eliminare gli avversari in un colpo
solo. C’è la possibilità di sorprendere i nemici alle spalle o da dietro ed
eliminarli facilmente, ma per quanto riguarda gli avversari più forti e nei combattimenti
sarà possibile sferrare un colpo mortale a patto di rompere la postura del
nemico. Questo comporta non dare tregua al nemico, poiché l’indicatore si
svuota a velocità variabile a seconda di chi si ha di fronte, e al tempo stesso
giocare d’astuzia perché la postura è strettamente legata alla salute: meno se
ne ha, più lento sarà il suo ripristino. Ecco quindi che torna quel concetto di
pazienza e dedizione alla base non solo del gioco ma dell’intera filosofia su
cui è costruito. Il problema è che la ferocia con cui sono stati programmati
questi boss secondari li rende a volte al pari dei boss primari e soprattutto
una prova alla quale non ci si sente mai pronti, persino quando si pensa di
essere progrediti a sufficienza.

Per quanto riguarda il sistema di controllo base nel corso
dei combattimenti prevede l’utilizzo del tasto dorsale destro per sferrare gli
attacchi, di quello sinistro per parare o deflettere con il giusto tempismo i
fendenti dei nemici e l’utilizzo simultaneo dei due tasti per attivare l’arte
di combattimento equipaggiata. A questo vanno aggiunte poi la possibilità di
effettuare schivate e saltare sfruttando i tasti frontali, due mosse
indispensabili per evitare le 3 tipologie di colpi speciali in possesso dei
nemici che vengono preannunciate a schermo dalla comparsa di specifici kanji
(ideogrammi giapponesi), la capacità di utilizzare gli strumenti prostetici
equipaggiati o il rampino, delegati ai due grilletti posteriori, e la
possibilità di combinare insieme tutti questi effetti. L’utilizzo di questi
strumenti, rampino a parte, non è però illimitato e prevede il consumo di “Emblemi
Spiritici”, che possono essere raccolti esplorando, uccidendo nemici o possono
essere acquistati pregando presso gli idoli dello scultore, ossia l’equivalente
dei falò visti in Dark Souls. Per chi non lo sapesse quando ci si ferma a
pregare (a riposare nella saga di Dark Souls) sarà possibile recuperare
vitalità, recuperare oggetti curativi e potenziare il personaggio. Inoltre gli
idoli fungono da checkpoint e consentono al giocatore di viaggiare da un’area
all’altra di quelle scoperte nel mondo di gioco. In Sekiro: Shadows die Twice,
come è abitudine nei titoli targati From Software, viene permesso giocatore di
utilizzare una vasta gamma di oggetti, equipaggiabili in uno specifico menù
rapido che può essere passato in rassegna in qualunque momento tramite la croce
direzionale. Tra questi, oltre ai classici consumabili curativi o che
incrementano specifiche caratteristiche, sono presenti una borraccia, che nel
titolo prende il posto della famosa fiaschetta Estus, che consente al giocatore
di recuperare un po’ di salute. Una volta terminati gli usi, come già detto, il
giocatore non può fare altro che recarsi presso uno degli idoli dello scultore e
ricaricarne il potere, consentendo però ai nemici eliminati nelle varie zone di
tornare in vita, proprio come accadeva nei precedenti titoli di From Software. Quando
diciamo che Sekiro è un titolo difficile, punitivo e a volte tremendamente
irritante, lo diciamo con cognizione di causa. Durante l’avventura, infatti,
dopo esser morti non esiste la possibilità di tornare a raccogliere i propri
resti in caso di sconfitta. Quando muore, il giocatore perde irrimediabilmente
metà dei punti esperienza accumulati fino a quel momento, che però si azzerano
ogni volta che si sblocca un punto abilità, e metà dei Sen raccolti. Una
punizione severa, ma che si accompagna ad una caratteristica inedita. Come
conseguenza dei suoi servigi all’Erede Divino, Lupo ha ottenuto la capacità di
risorgere dalla morte, il che significa che non sempre cadere in battaglia
equivale al dover ripartire dall’ultimo checkpoint visitato. Sekiro ha infatti
la possibilità di sfruttare il potere del Drago che risiede nel suo sangue per
rinascere e continuare a combattere, seppur con delle precise limitazioni.
Innanzitutto non può risorgere a suo piacimento, ma solo una volta, almeno
nelle fasi iniziali. Dopo aver esaurito questo “bonus” la morte è definitiva e
si riparte dall’ultimo checkpoint, con tutto ciò che ne consegue. Per
ripristinare il potere dopo l’utilizzo è ovviamente sufficiente riposare presso
uno degli idoli, ma questa non è l’unica via. Abbattendo nemici e mandando a
segno colpi mortali, il protagonista può infatti ripristinare il potere del suo
sangue senza dover riposare. Il “rovescio della medaglia” è però rappresentato
dal Mal del Drago, un morbo che si diffonde nel mondo di gioco quando il sangue
del protagonista entra in “stagnazione” in seguito alle troppe morti
consecutive ed egli inizia ad attingere a quello dei vari personaggi o vendor
per tornare in vita. Un evento fortunatamente reversibile, ma che ha effetti
tangibili sullo sviluppo del gioco, primo su tutti la possibilità di ottenere
il cosiddetto “Aiuto Divino”. Il protagonista in caso di morte può infatti
ricevere una sorta di “grazia”, che gli consente di rinascere senza alcuna
penalità. La possibilità di ottenere questo favore parte da un limite massimo
del 30% e diminuisce gradualmente al diffondersi del Mal del Drago, esponendo
il giocatore a conseguenze più durature per ogni sconfitta subita. Ovviamente,
essendo un titolo single player, differentemente da Dark Souls, il giocatore
non potrà ricevere nessuna mano da un amico facendolo entrare nella propria
partita. Qui si combatte da soli, si muore da soli e si vince da soli. Inoltre,
tale regola è a nostro avviso assolutamente coerente in quanto se si fosse in
due contro un boss, danneggiare vita e postura sarebbe un gioco da ragazzi in
quanto un giocatore si limiterebbe ad attirare il nemico mentre l’altro lo
colpirebbe ripetutamente alle spalle. In Sekiro si è volutamente soli, ma ciò è
un bene in quanto da ogni sconfitta si impara qualcosa e a ogni vittoria ci si
sente estremamente emozionati e orgogliosi di se stessi.

Come ogni produzione From Software che si rispetti, anche in
questo caso il level design è un aspetto che è stato curato parecchio. In
Sekiro ci sono paesaggi mozzafiato, mappe stupende, visivamente evocative
grazie al loro fascino orientale espresso nel miglior modo possibile. Grazie
alla mobilità del protagonista, data dall’utilissimo rampino, le aree di gioco
acquistano un’ulteriore dimensione, quella verticale, aspetto che le rende
ancora più complesse che in passato. Le classiche scorciatoie che collegano le
diverse mappe sono sempre presenti, anche se meno d’impatto rispetto ai Dark
Souls. Ciò che invece non cambia è la bellezza delle fasi d’esplorazione,
durante le quali si apre la caccia dei segreti di ogni mappa: oggetti e altri
misteri nascosti in angoli impensabili. Parte del background narrativo è poi tutto
da scovare osservando le ambientazioni, che offrono scorci evocativi e pregni
del fascino nipponico che qui si unisce al gusto della corruzione palpabile
tipica delle produzioni From. Tecnicamente parlando Sekiro si presenta con
un’ottima qualità grafica, che però non fa gridare al miracolo se paragonata ad
altri titoli recenti. D’altronde il dettaglio grafico non è mai stato il punto
di forza della software house e lo si vede in modelli poligonali mai troppo
particolareggiati e in alcuni difetti ricorrenti come la telecamera a volte
problematica nelle fasi più concitate della battaglia, compenetrazioni
poligonali con cui è possibile colpire o essere colpiti attraverso i muri e
texture non di altissima qualità. Questi difetti sono comunque sopperiti
dall’elevata qualità artistica delle ambientazioni, di cui vi abbiamo appena parlato,
e dalle animazioni rese in maniera perfetta. Aspetto, quest’ultimo,
fondamentale in un titolo in cui il combattimento è basato principalmente sulla
lettura delle mosse del nemico. Ultimo ma non per questo meno importante
elemento è il comparto audio. Sekiro riesce a stupire anche per quanto riguarda
questo aspetto, infatti, le musiche sono evocative e sempre coerenti con ciò
che succede sullo schermo, gli effetti sonoro sono altrettanto incredibili e
sentire il clangore delle spade che si colpiscono l’un l’altra durante un
duello o il vento che soffia tra gli alberi è davvero da brivido. Il titolo
poi, differentemente da quanto visto nelle vecchie produzioni di From Software,
è doppiato interamente in un ottimo italiano. Grazie a questa importantissima
aggiunta sarà possibile per tutti capire meglio la trama e avere un quadro
globale ancora più preciso. Ovviamente il titolo può essere giocato in molte
altre lingue come l’inglese e anche in giapponese. Tirando le somme, Activision
e From Software con Sekiro: Shadows Die Twice hanno aggiunto alla bellezza di
un gameplay e un combat system del tutto rinnovato, la durezza e la difficoltà che
hanno da sempre caratterizzato la serie Souls. Lo ripetiamo ancora una volta,
questa produzione non è assolutamente adatta a qualsiasi tipo di giocatore in
quanto richiede impegno, pazienza, costanza e nervi saldi. Morire, morie e
ancora morire non piace a nessuno, proprio per questo motivo è facile scoraggiarsi
presto. Se invece si è alla ricerca di una sfida straordinaria, di un titolo
appagante, di un videogame che mette alla prova le proprie capacità, Sekiro
rappresenta tutto ciò di cui avete bisogno. A nostro avviso un titolo del
genere non può mancare in casa di ogni buon giocatore, ma se avete la
possibilità di poterlo provare perché siete indecisi sul doverlo acquistare o
meno, fatelo, in quanto portare a termine l’avventura del Lupo è una vera e
propria impresa.

GIUDIZIO GLOBALE:

Grafica: 9

Sonoro: 9,5

Gameplay: 9,5

Longevità: 9,5

VOTO FINALE: 9,5

Francesco Pellegrino Lise




Dal videogioco alla realtà, milionario organizza vera Battle Royale: in palio 100mila sterline per chi vince

Milionario cerca 100 persone per una Battle Royale dal vivo. In palio 100mila sterline per chi vince. Nelle ultime ore il web sta letteralmente impazzendo per questa notizia. Ma cos’è una Battle Royale? Questo fenomeno nasce da un libro di Koshun Takami che ha spopolato in Giappone.

In pratica un certo numero di persone su di un’isola devono uccidersi a vicenda e resistere il più possibile

Chi sopravvive al massacro vince. A quest’idea si sono ispirate diverse pellicole cinematografiche, e sono stati sviluppati diversi videogames sia per console che per smartphone, i cui più famosi sono Pubg e Fortnite. Ovviamente quest’ultima forma di media ha fatto si che il fenomeno si espandesse a macchia d’olio e diventasse uno dei generi più apprezzati e giocati dagli appassionati di gaming. Evidentemente influenzato da questa passione, il milionario anonimo ha pubblicato un annuncio sul sito di e-commerce di lusso HushHush, per trovare chi è interessato ad andare sulla sua isola privata e giocare dal vivo alla Battle Royale, che in genere è online.

Ovviamente non ci saranno armi vere, ma armamenti e protezioni da softair, però il risultato potrebbe essere un vero e proprio successo nel campo dei giochi di ruolo dal vivo.

Nello specifico, l’uomo sta cercando un Game Maker in grado di un’arena adatta a 100 persone. È disposto a pagarlo 45.000 sterline per sei settimane di lavoro, ovvero una cifra che si aggira intorno alle 1.500 sterline al giorno. Che tradotto in euro fa più di 1.700. Questa persona deve essere in grado di creare grandi eventi e campi da gioco.

L’obiettivo è rendere questa Battle Royale la più realistica possibile

La competizione durerà 3 giorni, per 12 ore al giorno, e i partecipanti avranno in dotazione tutto il necessario per divertirsi. Il primo classificato si aggiudicherà un premio di 100.000 sterline. Se l’esperimento dovesse andare a buon fine il milionario è intenzionato anche a ripeterlo. Laddove ci fossero interessati, online è possibile trovare il link per iscriversi alla competizione.

F. P. L.




The Division 2, la rinascita parte da Washington D.C.

A distanza di tre
anni dall’uscita di The Division, Ubisoft e Massive Entertainment hanno
lanciato di recente sul mercato The Division 2, sequel del titolo originale per
Pc, Xbox One e PS4.  L’avventura,
ambientata sempre nel presente alternativo ideato da Tom Clancy, lascia le
strade infette e innevate di New York per una versione primaverile e
apparentemente meno “contagiosa” della capitale Washington D.C. A livello di
trama il titolo possiede una solida base su cui poggiare e si sviluppa in
maniera interessante. Sono passati 7 mesi da quando il “Veleno Verde”, così
viene chiamato il virus creato dal Dr. Gordon Amherest, è stato diffuso
approfittando dell’euforia del Black Friday per causare un’epidemia capace di
mettere rapidamente in ginocchio non solo la città di New York, vero e proprio
focolaio della malattia, ma gli Usa nella loro interezza.

Dopo essersi
prodigata per aiutare la JFT nelle operazioni di soccorso, aver contrastato la
dilagante ondata di criminalità che ha inevitabilmente invaso le strade
innevate di New York e aver scoperto i motivi che hanno spinto il Dr. Amherest
a diffondere l’agente patogeno, La Divisione, il reparto speciale composto da
agenti dormienti della Strategic Homeland Security “risvegliati” dal Presidente
attraverso la Direttiva 51, riceve una richiesta di aiuto proveniente da
Washington D.C. In The Division 2 la capitale degli Stati Uniti, identificata
da tutti come uno dei punti fermi della rinascita del Paese, è infatti tenuta
in scacco da bande criminali più o meno organizzate che, analogamente a quanto
accaduto a New York, stanno approfittando della situazione disperata per
tentare di prendere il controllo della città. In questo scenario entra in gioco
il protagonista del titolo. Quali agenti della Divisione si viene infatti
inviati a Washington D.C. dopo una breve sequenza iniziale, che funge da
tutorial di base e che fa da transizione tra le due ambientazioni. Una volta
arrivati nella capitale statunitense, il giocatore viene immediatamente
coinvolto nelle operazioni di difesa e ri-conquista gestite dalla Divisione,
che nel corso delle oltre 30 ore necessarie per completare la trama lo vedranno
impegnato a liberare i vari quartieri della città e a riattivare
progressivamente la rete di comunicazione SHADE in un classico mix di missioni
principali e secondarie che vengono rivelate passo dopo passo al giocatore
dalla base operativa, allestita per l’occasione all’interno della Casa Bianca.
The Division 2, come già largamente preannunciato da Ubisoft stessa, non
rappresenta una rivoluzione, ma una versione più matura e rifinita del sistema
di gioco originale, titolo capace comunque di raccogliere consensi nonostante
alcuni inevitabili difetti che hanno causato il disappunto dei giocatori. Con
questa nuova produzione la software house francese conserva lo stesso sistema
del predecessore, con la sostanziale differenza però che promette un
grandissimo numero di contenuti in più. Fortunatamente sembra che la lezione
del titolo originale sia stata recepita dagli sviluppatori, infatti,
raggiungendo il level cap a 30 e proseguendo ben oltre al semplice debellare la
minaccia e rimettere il Presidente al posto che gli compete le cose da fare
sono veramente molte. Ma andiamo con ordine. Parlando di gameplay, The Division
2 ha inizio con un editor del personaggio. A questo punto dopo un brevissimo
prologo si viene catapultati nella dura realtà di Washington D.C. I primi passi
nella capitale statunitense fanno capire subito che si ha a che fare con una
location ben differente dalla New York gelata dall’inverno e dalla desolazione,
depredata del suo splendore dalle gang criminali e distrutta dal virus che l’ha
messa in ginocchio. I paesaggi assolati, più vivi e meno claustrofobici, però
sono solo l’anticamera di un’altra città in rovina sulle cui strade si combatte
ancora la battaglia tra la vita e la morte. I sopravvissuti stanno tentando di
instaurare un nuovo ordine ma le gang sono ancora un ostacolo. In questo
scenario gli agenti della Divisione avranno ancora una volta il compito di
combattere i nemici della pace per ribaltare la situazione e cercare di creare
un nuovo mondo. Insomma, in The Division 2 cambia il periodo, il clima, gli
equilibri, eppure gli elementi che hanno contraddistinto e posto le basi per il
gameplay del gioco originale sono tutti lì, immediatamente riconoscibili. In
questo sequel la Casa Bianca funge da quartier generale delle operazioni della
divisione, ed è quindi un luogo dove tornare a raccogliere i frutti degli
sforzi in missione, acquisendo nuove abilità e potenziando il proprio arsenale.
Inoltre, da qui si diramano tutte le altre operazioni per la riconquista della
capitale.

Come nel suo
predecessore, anche in The Division 2 l’esplorazione è sempre libera e lascia
la scelta di decidere se perderci tra le strade alla ricerca di risorse utili,
o farsi guidare dal navigatore verso la prossima destinazione. Ingaggiare il
nemico sottraendogli man mano terreno prezioso e roccaforti, sarà invece utile
per far avanzare gli alleati e sfruttare il territorio per mutarlo in un
checkpoint prezioso da cui ripartire grazie allo spostamento rapido. Tali
avamposti ora si sommano ai rifugi, ricordando da vicino quelli presenti nella
serie di Far Cry. Sempre parlando di assonanze con il passato, anche in questo
nuovo capitolo della saga torna anche l’interfaccia che simula la realtà
aumentata a disposizione degli Agenti. Tramite effetti minimali e ben definiti,
questa funzione segnala tutti i dettagli di cui è necessario essere a
conoscenza: dagli spostamenti possibili grazie alla copertura in movimento,
fino agli indicatori di energia e ricarica nostra e dei nemici, passando per
tutta una serie di minuzie utili a immedesimarsi in un soldato dalle capacità
tecnologiche avanzate. Per chi ha già giocato al titolo originale, affrontare
The Division 2 avrà un sapore molto familiare. A livello grafico lo SnowDrop
Engine fa un lavoro squisito: Washington D.C. non genererà lo stesso incanto di
una New York in balia delle tempeste di neve nel periodo natalizio, ma la mole
di detriti dispersa per le strade unita a scenari urbani devastati, risulta
inquietantemente credibile, da lasciare ancora una volta a bocca aperta.
Sicuramente Ubisoft da questo punto di vista merita un grande plauso:
nonostante i capolavori usciti in questi tre anni nel panorama videoludico,
quello di The Division è uno dei setting più curati nella storia dei
videogiochi se comparati alla vastità della mappa. La cura maniacale per il
dettaglio, la ricerca della perfezione in ogni strada, palazzo o sotterraneo
raggiunge il suo apice nelle missioni principali, quando ci si trova a dover
esplorare edifici complessi nell’architettura, che raccontano tramite una
quantità spropositata di oggetti i loro scopi passati. La sensazione di
desolazione e smarrimento che si prova in questa versione di Washington D.C. è
veramente stupefacente e anche solo passeggiare nelle strade della capitale
americana provoca un brivido lungo la schiena. La città però non è solo quello
che si vede passeggiando fra i palazzi, infatti le strade celano anche
laboratori sotterranei, uffici governativi, locali commerciali e tanto altro.
Il nostro consiglio? Usare meno possibile il viaggio rapido e godersi le
bellezze offerte da The Division 2. L’esplorazione libera poi, oltre che essere
un ottimo metodo per trovare risorse e far esperienza, è anche un’ottima
tattica per poter scoprire segreti e trovare collezionabili che approfondiscono
la fase più critica dell’epidemia. Ovviamente il gioco non è perfetto, infatti
è presente qualche sporadica sbavatura come qualche glitch o alcune texture che
si caricano in ritardo, ma difronte alla maestosità dell’ambiente queste
piccolezze sono nulla. Il difetto peggiore dell’ultima produzione Ubisoft però
è la poca caratterizzazione dei personaggi i quali non riescono a raccontare
con efficacia tutto ciò che hanno passato nei mesi dell’epidemia. Anche il
protagonista soffre di questo difetto e purtroppo risulta essere un semplice
spettatore muto degli eventi che coinvolgono i sopravvissuti alla piaga. Mai
una parola, mai un’emozione, mai una reazione. Il proprio alter ego virtuale è
freddo, impassibile e insensibile. Quest’aspetto purtroppo, a nostro avviso, è
il difetto peggiore per un titolo del genere. Parlando di altro, come già visto
a New York, ogni tanto è possibile trovare in giro i così detti dispositivi
ECHO che, tramite la realtà aumentata, ricostruiscono scene chiave avvenute nel
passato, aiutando chi gioca a capire cosa ha portato al collasso la città.
Purtroppo questi espedienti non riescono a generare il climax necessario a
emozionare chi sta con il pad in mano e il doppiaggio in Italiano, seppur completo,
risulta alle volte in un’interpretazione priva di mordente. Insomma, dinanzi a
una catastrofe di questo genere come minimo ci si aspetta un pathos maggiore.

Durante il
peregrinare del protagonista si verrà spesso a contatto con informazioni su
personaggi e retroscena che arrivano a coinvolgere il governo americano, il
presidente e il suo personale, ma, come già evidenziato, l’assenza di una
caratterizzazione precisa e profonda dei personaggi in questione si dimostra un
neo non di poco conto. Fortunatamente la musica cambia nelle sessioni di gioco
dove bisogna combattere, infatti, nonostante il game loop è uguale a quello
visto in passato: si dal rifugio che si preferisce, si affronta la missione
fino a raggiungere il nemico più corazzato, si aumenta il livello, si
acquisisce nuovo equipaggiamento e si va vanti così, il combat system è davvero
ben fatto. Le missioni sono lunghe e impegnative, con l’IA che seppur
prevedibile in molti casi, mette a dura prova il giocatore cercando di
aggirarlo e circondarlo il più possibile, facendo uso anche di tecnologia
avanzata e dell’ambiente circostante. La strategia in battaglia, con le
maggiori variabili introdotte da nuovi strumenti e tipologie di nemici,
acquista un minimo di profondità in più, che finalmente varia l’azione per non
renderla troppo ripetitiva ed estenuante. In The Division 2 il senso di
progressione è dato dal ritrovamento e dal crafting dell’arsenale più potente,
al pari del primo capitolo, riducendo il comparto narrativo a mera preparazione
a quello che bisognerà affrontare una volta raggiunto il level cap. Ossia il
coop online e quindi la Dark Zone, che comporterà a sua volta l’inevitabile
grinding alla ricerca dell’equipaggiamento più raro e potente. L’introduzione
dei Clan, le marche degli equipaggiamenti e la personalizzazione dei i droni,
contribuiscono ad aggiungere qualche novità in più. Nonostante questo, però, è
la struttura generale a non subire cambiamenti di sorta fino al raggiungimento
del level cap e dell’end-game. La mancanza di innovazione nella formula
generale fa storcere il naso, ma sarebbe etichettare The Division 2 come una
sorta di espansione sarebbe un errore. A livello di personalizzazione e
crescita del personaggio, man mano che sale di livello il proprio alter-ego
ottiene dei punti abilità, che possono essere spesi per sbloccare uno degli 8
strumenti tecnologici sviluppati per incrementare le capacità difensive degli
Agenti. Il catalogo delle dotazioni utilizzabili sul campo di battaglia dopo
averle assegnate a uno dei due tasti dorsali, che include torrette difensive,
scudi, droni, lanciatori chimici e altri simpatici accessori, non solo è molto
vario ma può anche essere personalizzato in modo puntuale dal giocatore
attraverso numerose varianti, offensive o difensive, che possono essere
sbloccate utilizzando le componenti di tecnologia SHADE ottenute come
ricompense per le missioni completate o raccolte durante l’esplorazione.
Salendo di livello il giocatore può inoltre equipaggiare armi e dotazioni più
performanti. The Division 2 include, proprio come il suo predecessore, 7
categorie di armi differenti e un nutrito elenco di accessori come fondine,
corazze, guanti e simili, ognuna delle quali è dotata di caratteristiche uniche
che dipendono non solo dal livello, ma anche dal grado di rarità delle stesse,
che viene identificato anche in questa occasione dal colore e che corrisponde
ad un numero crescente di bonus e malus passivi o attivabili, come nel caso
delle armi, solo completando specifiche sfide o soddisfacendo requisiti
precisi. Alcuni oggetti inoltre faranno parte dello stesso “brand”, il che
permette di sbloccare vantaggi aggiuntivi quando si indossano 2 o più elementi
della stessa famiglia. Alcune parti dell’equipaggiamento, così come gli
strumenti sbloccabili consumando punti Abilità, possiedono inoltre uno o più
slot dedicati ad accessori e mod tramite i quali si può cambiarne sia l’aspetto
estetico che le caratteristiche base. Le modifiche estetiche, così come i capi
di abbigliamento con i quali personalizzare l’aspetto del personaggio, possono
essere recuperate sul campo di battaglia o acquistate nello store dedicato
presente all’interno del gioco spendendo crediti Premium, ottenibili tramite
classiche microtransazioni, mentre gli accessori relativi all’equipaggiamento
non solo possono essere raccolti, ma possono anche essere craftati, così come
tutto il resto, consumando le risorse raccolte esplorando o smantellando gli
oggetti dei quali sentiamo di non avere più bisogno. Per farlo è però
necessario possedere o sbloccare il relativo progetto, il che permette di
parlare anche di un altro aspetto legato alla progressione all’interno di The
Division 2. Nel nuovo titolo di Massive Entertainment infatti non bisogna solo
far crescere il proprio personaggio, ma anche la base operativa e gli
insediamenti presenti in città ottenendo in cambio, in aggiunta ai classici
punti esperienza e alle ricompense pecuniarie, anche la fedeltà di alcuni NPC,
i quali torneranno alla Casa Bianca per occuparsi di specifiche attività come
il poligono di tiro, l’area fai da te o l’intelligence, e tanti utili progetti.
Per ottenere tutto ciò non basta però completare le numerose missioni
secondarie proposte nei rispettivi insediamenti, ma è necessario contribuire al
benessere e allo sviluppo degli stessi donando materiali ed equipaggiamenti o
completando particolari attività per le strade delle città. Parlando della progressione
è poi impossibile non spendere due parole sul sistema di gestione delle
sessioni cooperative, capace di ridurre il divario tra Agenti di livelli
diversi grazie ad un sistema di adattamento dinamico della difficoltà
affiancato da un sistema di “boost” che innalza il livello dei giocatori più
deboli per rendere più equilibrata l’intera esperienza. Il sistema permette
inoltre di scambiarsi le armi raccolte mentre si gioca in gruppo, così da
favorire una gestione meno limitata dal loot. Insomma, The Division 2 è un
gioco a cui bisognerà dedicare moltissimo tempo.

Per quanto riguarda
la componente multigiocatore che ha caratterizzato il titolo, anche in The
Division 2 fa ritorno la zona nera. Per chi non avesse giocato al primo, è bene
sottolineare che esse sono delle aree della mappa ancora contaminate dal Veleno
Verde nelle quali squadre di giocatori umani possono decidere di cooperare o di
darsi battaglia mentre tentano di sopravvivere ai nemici controllati dalla I.A.
e di recuperare equipaggiamenti speciali, che prima di poter essere utilizzati
devono però essere decontaminati. Per farlo è necessario raggiungere delle
specifiche aree della Zona Nera e richiedere l’intervento di un elicottero,
cercando nel frattempo di non farsi sottrarre il prezioso bottino da altri
giocatori. Uccidere gli altri agenti e rubare non sono però azioni da compiere
troppo alla leggera. I giocatori che decidono di “macchiarsi” di questi crimini
diventano infatti dei “traditori”, esponendosi così al rischio di affrontare
scontri in PvP, che a differenza di quanto accadeva in passato rimangono
disattivati fino a quando il giocatore non viene etichettato come tale. Lo
status di traditore si articola su tre livelli crescenti, ai quali
corrispondono ricompense e “via di uscita differenti”. Chi si dedica solo al
furto diventa un traditore “semplice”, il che non comporta altre conseguenze se
non quella di poter essere attaccati. Nel momento in cui si uccide un altro
agente si diventa però dei Rinnegati, con conseguente comparsa di una taglia
sulla propria testa, la cui entità e durata variano in modo proporzionale alle
azioni commesse. Per uscire da questo status, e ottenere le ricompense, bisogna
resistere fino a quando la taglia non scade, altrimenti sarà il nostro killer a
riscuoterle. Coloro che uccidono un discreto numero di Agenti diventano poi i
bersagli di vere e proprie “Cacce all’Uomo”, dalle quali è possibile uscire
solo raggiungendo uno dei terminali SHADE presenti nella zona, attraverso cui è
possibile ripulire la propria fedina o, perché no, incrementare ulteriormente la
propria reputazione per ottenere ancora più ricompense. Queste però non sono le
uniche differenze presenti col passato. Infatti in The Division 2 le zone nere
sono ben 3, ognuna delle quali propone ai giocatori un teatro di battaglia
differente presentato attraverso una missione specifica. Per evitare il
ripetersi delle situazioni poco gradevoli viste nel primo capitolo, gli
sviluppatori hanno inoltre deciso di normalizzare le statistiche legate agli
equipaggiamenti di chi si avventura nelle Zone Nere, così da porre l’accento
sulle capacità dei giocatori piuttosto che sulle loro dotazioni. Le Zone Nere
inoltre non rappresentano però l’unica componente PvP presente in The Division
2. Per venire incontro alle richieste della community, il nuovo capitolo
include anche una modalità di scontro tra giocatori più convenzionale
accessibile in qualunque momento dopo aver completato il prologo iniziale,
chiamata Conflitto. Qui al momento trovano spazio due tipologie di sfide
classiche, ovvero Schermaglia e Dominio. Anche in questo caso le statistiche
delle dotazioni vengono normalizzate prima di ogni incontro ed è presente una
progressione separata rispetto a quella del titolo principale, così come accade
nelle Zone Nere. Tirando le somme, con The Division 2 Ubisoft e Massive
Entertainment hanno fatto tesoro degli errori passati e dei feedback ricevuti
dai giocatori, creando un titolo che lascia davvero poco spazio alle critiche.
La quantità di contenuti, un end-game ricco di attività e un sistema di progressione
ben strutturato ed appagante rendono il secondo capitolo del franchise un
“must have” per tutti gli appassionati del genere. Uniche
controindicazioni? Lasciar perdere se si ha poco tempo ed evitare di giocare in
solitaria in quanto l’esperienza di gioco è ancora più appassionante se giocata
con altri 3 amici.

GIUDIZIO GLOBALE:

Grafica: 9,5

Sonoro: 8,5

Gameplay: 9

Longevità: 9

VOTO FINALE: 9

Francesco Pellegrino Lise




Galaxy A70, Samsung scommette sulla fascia media

Con il Galaxy A70 Samsung potenzia la scuderia dei suoi
smartphone di fascia media con un nuovo modello. L’azienda coreana ha infatti
svelato sul suo sito questo nuovo device che verrà lanciato sul mercato a
breve. Il dispositivo ha la peculiarità di possedere alcune caratteristiche
premium che faranno sicuramente gola ai più giovani e a chi non vuole spendere
una fortuna per un telefonino. La più evidente fra tutte è di sicuro lo schermo
molto ampio, un Infinity-U Amoled da 6,7 pollici senza cornici e con piccolo
notch a goccia. Di buon livello anche tutto l’hardware dedicato al comparto
fotografico. Nella parte posteriore si trova un sensore principale da ben 32
megapixel coadiuvato da un grandangolo da 8 megapixel e un sensore di
profondità (Tof) da 5 megapixel. Anche la fotocamera per i selfie è da 32
megapixel. Altra caratteristica che rende il dispositivo uno smartphone davvero
appetibile è la grande batteria, da 4.500 mAh, a ricarica veloce, per
“condividere, giocare e trasmettere tutto il giorno”, spiega
l’azienda. Il nuovo smartphone di casa Samsung può fare affidamento sul sistema
operativo Android 9, Ram da 6-8 GB e memoria interna da 128 GB espandibile.
Integra inoltre un lettore di impronte digitali nello schermo per
l’autenticazione, che avviene anche tramite riconoscimento facciale. I colori
disponibili al lancio sono quattro: nero, blu, bianco e corallo. Insomma, con
questo Galaxy A70 Samsung propone un device al passo con i tempi e con diverse
caratteristiche interessanti. I dettagli sul processore dello smartphone non
sono ancora noti, così come il prezzo e la data di uscita. Nuove informazioni
sono attese il 10 aprile, giorno in cui a Milano, Bangkok e San Paolo si terrà il
Galaxy Event 2019. Se siete interessati al Galaxy A70 e volete saperne di più
non vi resta altro che attendere ancora una manciata di giorni.

F. P. L.




Dead or Alive 6, si torna finalmente sul ring

Dopo 7 anni d’attesa
Dead or Alive, il picchiaduro famoso per le lottatrici dalle forme generose,
torna sulla scena con un sesto capitolo denso di scontri e con tanti personaggi
tutti da giocare su Pc, Xbox One e Ps4. Con Dead or Alive 6 Tecmo Koei e il Team
Ninja hanno deciso di rimettere il gameplay al centro di tutto anche alla luce
del fatto che il genere ha assunto una nuova dignità con l’avvento degli
eSports. Questo è il motivo per il quale, pur non volendo accantonare la
sensualità delle lottatrici, i programmatori hanno cercato di andare incontro
per quanto possibile alle esigenze dei giocatori più raffinati con una
giocabilità più profonda. Ma andiamo a esaminare il titolo più da vicino. Una
volta lanciato il gioco, il menù di Dead or Alive 6 propone di scegliere tra
Story Mode, Combattimento rapido (con le relative modalità Scontro, Arcade.
Sfida a tempo e Sopravvivenza), Missione DOA, Tutorial e Multiplayer. Il fulcro
e cuore del gioco in single player risiede nella modalità Storia che, comunque,
si caratterizza per i tratti folli e divertenti. Questa modalità si
caratterizza, inoltre, per l’elevato grado di personalizzazione dei lottatori,
riuscendo a superare notevolmente quanto di buono era stato fatto fino a DOA 5.
Oltre alla modalità Storia sono presenti le sfide che rappresentano in realtà
il tutorial di gioco. Queste ultime sono suddivise in 104 scenari differenti
che però hanno il grosso difetto di essere troppo semplici ma hanno il pregio
di fare apprezzare quasi tutto l’insieme dei vestiti collezionabili presenti in
game. La storia di Dead or Alive 6 segue una struttura ramificata un po’
confusionaria ma in grado di occupare i giocatori per un tempo che rientra
nella media dei picchiaduro. Insomma, La “campagna” si articola in un puzzle i
cui pezzi vanno a sbloccarsi progressivamente su una griglia in cui le varie
missioni sono separate in verticale per ordine cronologico e in orizzontale in
base ai personaggi coinvolti.

La trama presente in
questo nuovo capitolo del nuovo titolo targato Tecmo Koei riprende il discorso
da dove si era interrotto nel precedente capitolo. Ancora una volta la trama
vede contrapporsi la DOATEC “rinnovata” sotto la guida di Helena e la malvagia
organizzazione M.I.S.T. con, ovviamente, il torneo Dead or Alive a fare da
sfondo alle vicende. Sia dal modo in cui è strutturata la story-mode che dalla
presenza di parti del suddetto mosaico proposte esclusivamente in forma di
sequenze CGI, si evince la voglia dei ragazzi di Team Ninja di dare una
maggiore importanza alla componente narrativa. Il tutto riesce effettivamente
ad intrattenere con piacere ma non c’è da aspettarsi grande profondità in una
sceneggiatura che, nel complesso, si manifesta attraverso brevi e simpatici
sketch d’introduzione al combattimento. Per quanto riguarda le “Missioni DOA”.
Si tratta di una lista di 96 missioni in ognuna delle quali è richiesto al
giocatore di completare tre determinati obbiettivi rappresentati ciascuno da
una stella. In sostanza, potrà essere richiesto di realizzare una particolare
combo, infliggere un determinato danno, terminare l’incontro entro un tempo
limite e così via. Il premio per il completamento delle quest è una quota
variabile di Valuta In-Game, Parti dei Costumi e Titoli. A dir la verità, però,
la vera ricompensa risiede nel miglioramento dell’abilità del giocatore: anche
in questo caso, infatti, è proposto, di volta in volta, il tutorial specifico
per la realizzazione delle mosse richieste. Inoltre, in questa modalità l’IA
nemica è gestita in modo tale da incentivare l’utilizzo delle skill adatte alla
sfida. Le atre modalità di gioco presenti in Dead or Alive 6 sono quelle
presenti generalmente in tutti i picchiaduro, quindi: combattimento a scontro
singolo contro l’IA, allenamento e battaglie online. Oltre a quanto detto, va
sottolineate la presenza della, DOA CENTRAL, dove è possibile sbloccare
ulteriori costumi per i lottatori, consultare i collezionabili ottenuti,
riosservare i propri match (quelli salvati) o far da semplice spettatore a
nuovi incontri, con tanto di modalità fotografica. Detto ciò ci teniamo a
sottolineare che per quanto riguarda i combattimenti online, il net-code sembra
non soffrire di particolari problemi: nei match non si riscontrano fenomeni di
lag e quindi la fluidità in game è garantita. Per quanto riguarda la rosa dei
lottatori, in Dead or Alive 6 ne sono presenti 26 in tutto, con alcune new
entry degne di nota. Primo fra tutti c’è Diego, di origine nordamericana, che
fa della forza fisica il suo cavallo di battaglia poi c’è NiCO, una scienziata
che possiede una grande dimestichezza con la tecnologia e, soprattutto,
possiede un set di mosse davvero sensazionale. Questi due personaggi si
distaccano un po’ dal classico roster di DOA ma, alla fin fine, dimostrano di
avere un loro perché, soprattutto alla luce di stili di combattimento
estremamente peculiari e decisamente più moderni.

Per quanto riguarda
il combat system di questo Dead or Alive 6, possiamo dire che i controlli sono
semplicemente fantastici. I comandi tradizionali del gioco sono tornati in
azione, accompagnati da alcune nuove funzionalità per mantenere il giocatore
sempre coinvolto e attento a quel che succede sullo schermo. Prima di tutto, va
detto che le contromosse sono fluide come sempre, pur non essendo del tutto
fuori controllo come nei titoli precedenti della serie. Di per sé è un’ottima
cosa, che lascia margine per pianificare una strategia che ribalti una combo a
proprio favore. Inoltre, le prese sono ancora molto efficaci, poiché ci si può
affidare anche a quelle molto semplici per togliere un po’ di energia
all’avversario. Le combo sono poi ovviamente il piatto forte di tutto il
sistema di combattimento, grazie alla loro versatilità e unicità a seconda del
personaggio scelto, implacabili ma al tempo stesso controproducenti se non si
punta sulla loro varietà. Dead or Alive 6 propone tuttavia una nuova meccanica
che rende il gioco accessibile ai meno esperti e che, per i più irriducibili,
potrebbe diventare un vero stimolo per giocare di più. Si tratta di mosse
devastanti, legate all’indicatore di devastazione posto subito sotto la barra
della vita e attivabili tramite la pressione di un singolo tasto, il dorsale
destro per la precisione. Il bello però risiede nel fatto che se ne possono
concatenare ben 4 di queste mosse, a patto di essere abbastanza veloci,
attivando il così detto assalto fatale. Una volta che la combo è in atto,
difficilmente potrà essere contrastata: nel momento in cui, poi, si scatena il
cosiddetto Colpo Devastante non c’è escamotage che tenga. Si tratta di un
grosso vantaggio in partita, capace di ribaltarne le sorti, ma anche di un’arma
a doppio taglio se utilizzata nel momento meno opportuno. Parlando del lato
estetico, come nelle precedenti edizioni, anche in Dead or Alive 6 è possibile
gestire manualmente la telecamera e le battaglie scorrono via con pochi
fronzoli ma con animazioni dei lottatori ben fatte. Per quanto riguarda
l’aspetto puramente tecnico in relazione a quello grafico, il titolo non fa
gridare al miracolo per quanto riguarda i lottatori, ma risulta comunque
all’altezza della concorrenza. Rispetto al passato, poi, sono presenti alcune
migliorie grafiche di secondo piano come ad esempio: danni ai vestiti, rottura
di occhiali o dei lacci per i capelli, che rendono l’esperienza di gioco molto
gradevole. Il design dei personaggi non è invece stato modificato più di tanto
e i costumi succinti delle lottatrici rimangono un must con oltre 60 tipologie
di modelli diversi. Fortunatamente tutti i personaggi vantano una buona
espressività individuale che li rende unici nel panorama di Dead or Alive 6. A
quanto detto fino a ora vanno aggiunte alcune chicche grafiche come la presenza
del sudore sulla pelle, la polvere che si alza in alcuni stage di gioco, il
fuoco che divampa in altri e, soprattutto, i repentini ed azzeccati cambi di
inquadratura quando, ad esempio, un lottatore viene gettato da una roccia verso
un dirupo e afferrato da qualche creatura. In merito al sonoro, i brani della
soundtrack sono piuttosto vari e sostanzialmente funzionali all’azione di
gioco. Presenti i sottotitoli in italiano, mentre per il parlato è preferibile
utilizzare la lingua giapponese al posto di quella inglese, troppo prolissa e
piuttosto buffa da sentire. Tirando le somme, questo Dead or Alive 6 è
l’ennesima conferma di quanto il gameplay di questa serie riesca a essere
incredibilmente divertente e appagante nonostante la spietata concorrenza dei
titoli di questo genere. Quando si entra nel loop delle partite classificate
online, o quando si gioca in locale è davvero difficile staccarsi dal gioco.
Tuttavia, le novità aggiunte a quest’episodio non sono particolarmente
sconvolgenti e non riescono ad alzare l’asticella rispetto al già ottimo Dead
or Alive 5. Dopo tutti questi anni di attesa i fan della saga si aspettavano
sicuramente qualcosina in più. Anche dal punto di vista grafico il salto
rispetto al passato non è così sconvolgente. Per chi gioca per la prima volta a
un titolo della serie, per quanto riguarda l’aspetto estetico, non ci sarà
nulla da ridire, ma per i veterani della saga sicuramente, almeno da principio,
ci sarà un piccolo senso di delusione. In ogni caso, il gioco di Tecmo Koei è
un degno esponente del genere e riuscirà a tenere incollati gli appassionati
per molte e molte ore. Se si è fan dei picchiaduro Dead or Alive 6 non deve
sfuggirvi.

GIUDIZIO GLOBALE:

Grafica 7,5

Sonoro: 8

Gameplay: 8

Longevità: 8,5

VOTO FINALE: 8

Francesco Pellegrino Lise




Trials Rising, enduro, follia e divertimento

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Ubisoft e RedLynx lanciano sul mercato Trials Rising, nuovo capitolo del divertentissimo videogioco che affonda le sue radici nell’ormai lontano 2000, su Pc, Xbox One, Ps4 e Switch. Per chi non lo sapesse, il titolo nasce come un gioco di corse motociclistiche che, nel suo piccolo, ha segnato la nascita di un franchise videoludico forte e apprezzato dai giocatori di tutto il mondo. Pubblicazione dopo pubblicazione, uscita dopo uscita, la serie ha continuato a espandersi fino all’ultimo capitolo, Trials Rising appunto, che rappresenta il culmine di tanti anni di esperienza, di salti, capriole e acrobazie spericolate. Questo nuovo capitolo riesce a unire i generi racing e platform in un mix adrenalinico basato su velocità e abilità. Sia ben chiaro, nonostante la semplicità del gioco, se si vuole diventare degli assi delle gare sarà richiesto al giocatore tanto “allenamento” per imparare a gestire al meglio la fisica delle due ruote, caduta dopo caduta. Insomma, chiunque potrà raggiungere la linea del traguardo, ma soltanto i più tenaci potranno arrivare a fine corsa senza cadere e ottenendo un tempo da record. Pur essendo un gioco in 2.5D in Trial Fusion ci si può muovere solo lungo due direzioni, ma la grafica è comunque tridimensionale. Per quanto riguarda il controllo del mezzo, del peso del pilota e dell’accelerazione attraverso lo stick analogico e dei due tasti dorsali del controller invece, se si vuol gareggiare in modo competitivo, non sono affatto semplici da gestire e prima di padroneggiarli ci vorrà un bel po’ di tempo e tanto, ma tanto impegno. Il comportamento della moto risponde comunque molto bene agli input del giocatore e alla forma del percorso, dando filo da torcere nel riuscire a governare ogni minima variazione dell’assetto. In Trials Rising infatti basta un atterraggio sbagliato, un’impennata esagerata o una frenata troppo brusca per perdere il ritmo o finire a gambe all’aria. Ciò dipende in gran parte dalle sospensioni, che, fra compressioni ed estensioni, si comportano in modo realistico e intuitivo, determinando quanta trazione la ruota posteriore del veicolo riesce a imprimere sul terreno. Spostare nel modo sbagliato il pilota prima di un salto o non allineare bene le ruote quando si tocca terra, porta a rimbalzi e rotazioni orarie o antiorarie quasi impossibili da governare. I movimenti del giocatore devono quindi essere fluidi e adattarsi agli assurdi percorsi ricchi di rampe, ostacoli, scorciatoie, esplosioni, crolli e cambiamenti improvvisi. A livello di gameplay, Trials Rising è senza dubbio un prodotto divertentissimo, capace di sopravvivere senza batter ciglio al trascorrere del tempo: sebbene la formula di base non sia cambiata molto dalla sua prima apparizione ad oggi, il titolo è ancora bello da vedere e spassoso da giocare. A rendere l’esperienza unica e diversa rispetto al passato ci pensano poi valanghe di personalizzazioni, un sistema di aumento del livello con tanto di loot box dove sbloccare personalizzazioni per le moto e per il personaggio, e un comparto multigiocatore ricco e variegato, che non sembra voler lasciare niente al caso. Il vero cuore della proposta ludica targata Ubisoft e Redlynx è rappresentato dalla modalità carriera, adesso ancor più complessa e variegata che mai. Nella prime battute bisognerà lanciarsi a capofitto all’interno di una serie di tracciati da principianti, salvo poi aumentare gradualmente la complessità fino a raggiungere picchi di difficoltà estremi. Il livello di sfida resta lo stesso di sempre, quindi si comincia con tracciati corti e semplici e si finisce con piste assolutamente complesse dove sangue freddo e controllo perfetto sono gli unici alleati per portare a compimento i tracciati. Per i principianti c’è anche una sorta di tutorial, una vera e propria accademia in cui apprendere ogni minimo dettaglio sul mondo di Trials Rising.



Se si è fan della serie e si conoscono già tutte le dinamiche delle due ruote, però, sarà possibile evitare questo percorso introduttivo: l’accademia, infatti, sarà accessibile facilmente dalla mappa di gioco, ma, eccezion fatta per il primo esercizio di presentazione, sarà possibile passare subito alle prove di gara vere e proprie. Una volta affrontate le gare iniziali verrà presentato il primo sponsor, grazie al quale i giocatori si troveranno a competere a fianco di altri piloti in uno stadio approntato per l’occasione. Il funzionamento di tali gare, disponibili soltanto una volta concluse tutte le prove presenti all’interno della regione di riferimento. Le sfide nell’arena prevedono, a differenza delle gare “lisce” diversi gironi di qualificazione da superare prima di arrivare alla finale contro un avversario estremamente ostico da battere. La particolarità di questa tipologia di competizione, riguarda soprattutto la sua modalità di svolgimento: non si scende in pista da soli, ma bisogna affrontare in maniera diretta gli avversari, i quali gareggeranno al fianco di chi sta dinanzi lo schermo su delle piste identiche a quella che si sta per affrontare. Sebbene il funzionamento resta più o meno lo stesso di sempre, in queste circostanze la componente platform, che solitamente domina gli stage, cede leggermente il passo a quella più “competitiva” nel senso tradizionale del termine. Una volta superata la gara finale si potrà avanzare alla regione successiva, dove sfide sempre più complesse metteranno a dura prova le abilità e i nervi dei giocatori. Andando avanti con le competizioni non basterà semplicemente arrivare al termine del tracciato: i contratti con lo sponsor, infatti, richiederanno condizioni particolari per proseguire, come completare il tracciato svolgendo un certo numero di salti mortali, oppure con un numero di errori non superiori a una certa soglia. Al di là della notevole quantità di contenuti, il vero punto di forza di Trials Rising però è rappresentato dalla presenza costante dei “ghost” degli altri giocatori. Un notevole passo avanti rispetto al semplice indicatore presente nei capitoli precedenti, che consente di vedere nel dettaglio cosa si è sbagliato e perché e come i rivali se la sono cavata in una determinata situazione. Come se non bastasse, a invogliare ulteriormente il pilota a rigiocare gli stessi stage più e più volte, ci pensano gli indicatori dei nuovi record: quando qualcuno batte il tempo che si era riusciti a segnare in una pista, il relativo indicatore sulla mappa presenterà una scritta piuttosto evidente e, almeno per i più competitivi, sicuramente troppo invitante per essere ignorata. Procedendo nell’avventura tornano anche le classiche prove abilità, folli e divertenti come sempre che consistono nel raggiungimento di obbiettivi assurdi, come ad esempio il raggiungere una certa distanza rimbalzando su barili esplosivi, o di obbiettivi difficili, come il restare più in piedi possibile lungo un tracciato complicatissimo e pieno di insidie.



In Trials Rising è
anche presente una modalità multigiocatore asincrona. Si può infatti
partecipare a tornei online fino ad otto giocatori, che si danno battaglia in
gare da tre round; la differenza maggiore è data dal fatto che non è possibile
riavviare la partita in ogni momento come invece avviene quando si gareggia da
soli. In ogni caso, più si vince e più in alto si sale di divisione.
All’incirca ogni tre mesi la classifica globale si azzera, però si ottengono
delle ricompense esclusive a seconda del proprio piazzamento. Se invece si
preferisce giocare con i vostri amici in stile scorso millennio, Trials Rising
ha anche la possibilità di giocare in splitscreen che consente fino a quattro
persone di gareggiare sullo stesso percorso e sulla stessa televisione. Tra le
novità maggiori ci sembra doveroso menzionare la modalità Tandem, che, come si
può capire dal nome, mette due piloti alla guida della stessa moto. In tale
tipologia di gioco è esilarante cercare di coordinarsi nel tentativo di
arrivare al traguardo e le situazioni che si verranno a creare saranno
sicuramente oggetto di ore e ore di folli risate. Trials Rising, come dicevamo,
si focalizza anche sulla personalizzazione del proprio pilota virtuale e del
veicolo. Salendo di livello, completando le sfide o spendendo i crediti
ottenuti è possibile ottenere nuovo equipaggiamento. Sono presenti infatti
centinaia di capi di vestiario, pose, emote e pezzi di moto da equipaggiare,
selezionare e montare, a cui poi possono essere applicati svariati adesivi fra
una selezione di circa duemila. Purtroppo sono presenti le microtransazioni,
ma, per fortuna, non sono invadenti e la valuta acquistabile si può anche
ottenere raccogliendo i collezionabili nascosti negli angoli più remoti dei
livelli o vincendo online. A chiudere l’offerta presente in questo nuovo Trials
Rising c’è l’editor dei tracciati. Tale funzione è molto versatile e piena di
elementi da utilizzare nella creazione del proprio livello personale. Gli
oggetti a disposizione provengono anche dai vecchi capitoli della serie, come
Trials Evolution, Trials Fusion e Trials of the Blood Dragon, e possono essere
posizionati liberamente nello scenario fino a creare un percorso che può essere
condiviso con gli altri giocatori. Quindi, divertimento, follia e creatività
sono le caratteristiche che definiscono al meglio questa nuova produzione di
Ubisoft e RedLynx. Dal punto di vista grafico, il 2D e mezzo utilizzato e la
fluidità di gioco rendono l’intera esperienza assolutamente appagante. A questo
poi si affianca un comparto audio fatto di effetti sonori ben realizzati, voci
esilaranti e una colonna sonora assolutamente azzeccata. Quindi sia per l’audio
che per gli effetti visivi il nuovo capitolo della serie è promosso con buoni
voti. Tirando le somme Trials Rising è un titolo che è destinato a un pubblico
che desidera divertirsi, un gioco spensierato che però non rinuncia anche al
lato competitivo, una produzione adatta a tutte le fasce d’età e a qualsiasi
tipo di giocatore. Insomma, un videogame che nonostante non offra chissà quale
enorme innovazione rispetto ai suoi predecessori, è in grado di offrire una
giocabilità pazzesca e un’incredibile dose di adrenalina.

GIUDIZIO GLOBALE:

Grafica: 8,5

Sonoro: 8,5

Gameplay: 9

Longevità: 8

VOTO FINALE: 8,5

Francesco Pellegrino Lise




Cyber security, aziende italiane a rischio

La cyber security è un aspetto da non sottovalutare per chi possiede un’impresa, in quanto proteggere i dati della propria attività è di vitale importanza per la sopravvivenza della stessa. Purtroppo i numeri sul territorio del nostro Paese riguardo gli attacchi informatici sono allarmanti, anche se fortunatamente non siamo i primi in classifica. Più della metà delle aziende italiane, il 55% – il 54% quelle europee – ha dichiarato di aver affrontato almeno un attacco informatico negli ultimi 24 mesi e le conseguenti ricadute sulle loro attività. A darne notizia è un’indagine condotta da Kaspersky Lab. Tra gli effetti più comuni di questi attacchi figurano: interruzione dei servizi (31%), problemi con l’integrità dei dati (18%) e perdita dei dati stessi (15%).

Le organizzazioni di Regno Unito e Spagna – sottolinea la ricerca – sono quelle che si trovano a fronteggiare la maggior parte dei rischi: il 64% degli intervistati, infatti, ha dichiarato di aver avuto esperienza di un attacco informatico negli ultimi due anni.

“In Italia – fanno sapere i ricercatori – il dato sulla cyber security è piuttosto alto, pari al 55%, soprattutto se messo a confronto con la situazione riscontrata in altri paesi, come la Germania (49%) o la Romania (37%)”. Pur potendo contare solitamente su budget per l’Information Technology più consistenti rispetto a quanto viene stanziato dalle piccole e medie imprese, le grandi aziende che hanno dovuto affrontare un cyberattacco sono state pari al 64%, contro il 45% delle Piccole e medie imprese. Inoltre, oltre due terzi (72%) delle organizzazioni europee coinvolte nell’indagine di Kaspersky Lab ha dichiarato di essere in grado di scoprire un’eventuale violazione in otto ore o meno; nonostante questo sono ancora tante, il 25%, le aziende che non riescono ad intervenire nelle prime ore dopo un attacco, semplicemente perché non si rendono conto di averlo subito.

In Italia il 78,1% degli intervistati dichiara tempi di risposta sotto le 8 ore, mentre il 21,1% afferma di non riuscire ad essere altrettanto tempestivo. “I risultati dell’indagine confermano una tendenza che sottolineiamo da diverso tempo: gli attaccanti che riescono a penetrare all’interno di un’organizzazione a volte non lasciano alcuna traccia”, ha commentato Morten Lehn, General Manager Italy di Kaspersky Lab. Investire sulle misure di sicurezza è un aspetto da non sottovalutare se si vuole tutelare la propria impresa, anzi è l’unico modo per poter evitare di subire un danno importante.

F.P.L.




Devil May Cry 5, la saga torna agli antichi fasti

Devil May Cry 5 arriva su Pc, Xbox One e Ps4 dopo ben 5 anni di sviluppo e 11 anni dal lancio del quarto capitolo della serie. Guardando un po’ indietro però è bene ricordare che nel 2001 l’esordio del cacciatore di demoni Dante su Ps2 fu un vero e proprio fulmine a ciel sereno che riuscì a conquistare pubblico e critica come pochi altri titoli hanno saputo fare.

Devil May Cry rivoluzionò il modo di concepire i videogiochi action in terza persona creando un filone completamente nuovo, un sottogenere che faceva della spettacolarità il suo punto di forza, basandosi su combo incredibili e personaggi sempre ben al di sopra delle righe.

Il secondo capitolo della serie rappresentò forse il meno riuscito della saga e fu il primo che vide a figura di  Hideaki Itsuno come director, anche se fu coinvolto solo marginalmente a fine produzione.

Il director giapponese fu messo realmente al timone dell’opera concepita dall’inimitabile Hideki Kamiya dal terzo capitolo della serie, titolo che riuscì a riportare la saga nell’Olimpo degli action games. Col quarto capitolo si decise di introdurre un nuovo compagno per Dante, quel Nero che ancora oggi porta con sé numerose domande e che è presente anche nel nuovo Devil May Cry 5. Poi la serie si bloccò, nuovi personaggi conquistarono il pubblico appassionato di questo genere ed il buon Dante andò momentaneamente in pensione. Capcom decise quindi di optare per un reboot della serie con il DmC di Ninja Theory nel tentativo di avvicinarsi maggiormente ai gusti del pubblico occidentale. Scelta decisamente coraggiosa, ma che riuscì nell’intento di creare una nuova visione del Mondo di Devil May Cry contraddistinta da un gameplay sopraffino, ma che non seppe conquistarsi il favore del grande pubblico, più per le scelte di design nella nuova interpretazione stilistica del figlio di Sparda che per le qualità del gioco. Dopo il remake in HD dei capitoli canonici della saga però, ecco tornare il nuovo titolo della serie e noi siamo qui per analizzarlo. Devil May Cry 5 ha un grande merito: fare pulizia di eventuali congetture, teorie e quant’altro ideate dai fan nel corso degli anni, e dare risposta a diversi degli interrogativi posti negli scorsi capitoli. Il tutto sfruttando sia il fan service esagerato, sia mettendo sulla scacchiera ogni singola pedina fondamentale dei quattro episodi precedenti.



Ma veniamo alla trama: la storia di Devil May Cry 5 riprende qualche tempo dopo gli avvenimenti visti nel quarto capitolo partendo proprio dal protagonista, Nero, intento già dal primo minuto in un’intensa battaglia contro il malvagio demone Urizen, un essere muto ed immobile, ma apparentemente impossibile da scalfire. Nero è affiancato come sempre dal protagonista originale della saga, ossia Dante, il figlio di Sparda e miglior cacciatore di demoni, anche lui messo alle strette dal nemico e in evidente difficoltà. Ai due si affianca un terzo misterioso individuo chiamato V, che proseguendo nella storia aiuterà Nero e Dante nella battaglia contro colui che desidera diventare il Re dei demoni. Da qui in avanti la narrazione della storia procede con dei flashback, facendo fare al giocatore dei salti temporali tra passato e presente per scoprire tutti gli eventi che hanno portato alla distruzione della città, palesemente ispirata a Londra, chi sia la causa della perdita del braccio demoniaco di Nero e svelare l’identità di V e la su storia. Per quanto la trama si regga su abbastanza bene e approfondisca adeguatamente la storia dei tre protagonisti, non si può dire lo stesso dei personaggi che affiancano i tre scaccia demoni: Nico, Lady e Trish. Per quanto riguarda Dante, in questo nuovo capitolo della serie si approfondirà ancora più nel dettaglio la dinamica di odio e amore con il fratello gemello Vergil facendo un giro nei ricordi del protagonista e scoprendo anche qualche piccolo dettaglio in più sulla figura dell’adorata madre. Quindi per i fan di vecchia data, seguire le vicende raccontate in Devil May Cry 5 è di fondamentale importanza per comprendere il passato del tenebroso protagonista della serie. L’unico grosso problema narrativo della produzione Capcom risiede nel finale che già da metà campagna si può intuire nonostante ci sia qualche piacevole sorpresa di contorno e qualche piccolo colpo di scena. Detto ciò, per quanto riguarda il gameplay, Devil May Cry 5 mantiene sempre il suo stile originale, offrendo però tre varianti di stile, una per personaggio. Nero è la perfetta via di mezzo tra accessibilità e tecnicismo che soddisferà la sete di action dando comunque un po’ di filo da torcere per raggiungere il ranking massimo. Ci vorrà qualche minuto prima di riuscire a padroneggiare il Devil Breaker (ossia il nuovo braccio robotico del personaggio), che oltre ad acciuffare i nemici lontani può sparare raggi a distanza, perforare o malmenare a dovere i nemici in base al modello indossato, ed alternarlo con le bocche da fuoco e le immancabili armi bianche. Per quanto riguarda V, egli è il personaggio con cui sarà più semplice realizzare combo in quanto nonostante sia sprovvisto di una particolare forza fisica, può contare sul potere di evocazione di alcuni demoni. Le creature in questione sono tre, due di questi tramite la semplice pressione dei tasti di attacco e sono Griffon, una sorta di uccello demoniaco utile per gli attacchi a distanza e Shadow, un enorme felino mutaforma indispensabile per gli attacchi a ravvicinati e a medio raggio. Tramite l’attivazione del Devil Trigger V evocherà Nightmare, un gigantesco demone/golem che infliggerà in totale autonomia potenti attacchi ai nemici. I demoni evocati non potranno però uccidere da soli i nemici, spetterà infatti a V dare il colpo di grazia ad ogni nemico con il suo inseparabile bastone da passeggio. Per quanto riguarda Dante, invece, il personaggio icona del brand possiede uno stile di combattimento molto tecnico, che oltre a concatenare attacchi ravvicinati e a distanza richiederà una buona conoscenza delle combo e degli stili da intervallare. Diciamo questo perché oltre a poter alternare diverse tipologie di armi, usando Dante si dovrà fare attenzione allo stile da utilizzare con ogni nemico. Gli stili sono quattro, alternabili tramite la croce direzionale, ed ognuno ha una peculiarità ed un movimento specifico (delegato al tasto B). Trickster Style è lo stile dedicato alla velocità di movimento e all’evasione delle mosse, Swordmaster come suggerisce il nome trasformerà Dante in uno spadaccino letale. Le ultime due varianti sono Gunslinger, che concentra tutto sulla potenza delle bocche da fuoco ed in fine Royal Guard, utile per non far sopperire il protagonista sotto i colpi nemici, a cui reagirà con un contrattacco immediato premendo B nel momento giusto. L’utilizzo dei tre personaggi è determinato nella maggioranza dei casi dallo svolgimento della trama, e quindi è il gioco stesso a proporre quello da usare in ciascuna missione, ma ci sono anche momenti in cui la scelta è nelle mani di chi gioca. Inoltre è possibile sfruttare il nuovo sistema di gioco cooperativo chiamato Cameo System: se si gioca connessi online, durante alcune missioni si potrà vedere uno degli altri personaggi combattere al proprio fianco controllato da un altro giocatore in tempo reale, oppure tramite il classico ghost. A fine missione si potrà valutare il compagno virtuale e, se valutato come “Stylish”, lui otterrà una gemma dorata come bonus. Questa è certamente un’introduzione marginale ad un gioco che è e resta assolutamente single player, ma è comunque apprezzabile e che consente di ottenere qualche bonus che non fa mai male. A completare l’offerta c’è poi “Il Vuoto”, ossia una vera e propria modalità allenamento che viene sbloccata dopo aver terminato il gioco almeno una volta, e che si rivela assolutamente utile per padroneggiare gli stili profondamente diversi dei tre protagonisti.



Per quanto riguarda il corposo moveset dei personaggi è bene sottolineare però che le mosse, se non quelle base, saranno tutte da sbloccare. Per farlo bisognerà spendere le classiche anime rosse al “negozio” di Nico, oppure tramite l’ausilio delle storiche statue dorate. Ovviamente sia Nico che le statue danno la possibilità di acquistare potenziamenti e gadget utili a proseguire nei livelli. In ogni caso, nel corso dell’avventura non sarà possibile sbloccare tutte le abilità, visto che il numero di gemme che si potranno raccogliere è inferiore al costo necessario per acquistare tutto. Per poter comprare ogni tecnica, per ogni singolo personaggio, bisognerà completare la campagna più di una volta o pagare con moneta reale nello store dedicato. Come da tradizione Devil May Cry 5 non è il tipico gioco da abbandonare una volta finito, anzi: questo è probabilmente il peggior modo di giocarlo. Completandolo una prima volta (impresa che richiederà circa una dozzina d’ore a difficoltà normale) si sbloccherà infatti il primo livello di difficoltà aggiuntivo per poi sbloccarne altri man mano che si finisce l’avventura. Il nostro consiglio è quello di non commettere l’errore di abbandonare il gioco dopo una sola “run”, anche perché per padroneggiare a fondo tutti e tre i personaggi ci vorrà molto tempo, ce ne vorrà ancora di più per potenziarli al massimo, ma vi assicuriamo che alla fine le combo che si potranno eseguire saranno qualcosa di assolutamente spettacolare e che ripagheranno ampiamente tutto il tempo speso.

Al momento è assente invece il classico Bloody Palace, la modalità Survival che i fan conoscono bene, ma si tratta di un’assenza momentanea in quanto essa verrà aggiunta gratuitamente tramite un aggiornamento pianificato per il mese di aprile. A livello grafico, appena entrati nell’universo di Devil May Cry 5, non si può fare a meno di rimanere a bocca aperta. Per la realizzazione del gioco Capcom si è infatti affidata alle prodezze dello stesso motore grafico utilizzato per Resident Evil. Cut-scene a parte, anche nelle scene più confuse e negli scontri più veloci e accesi le animazioni raggiungono picchi d’eccellenza straordinari. Ovviamente, nonostante l’alto livello grafico e la fluidità in game, Devil May Cry 5 non è perfetto.

La prima parte, ambientata soprattutto nella rocambolesca Red Grave City, è infatti capace di mostrare dei bei panorami, e di sfruttare al meglio il motore grafico. A ribaltare la situazione è la seconda metà dell’avventura che, svolgendosi all’interno dell’enorme albero che ha invaso la città, risulta molto meno piacevole alla vista, oltre che estremamente limitata e dalla struttura sicuramente poco sorprendente. In ogni caso nel complesso ci si trova dinanzi a una produzione “tripla A” e quindi il risultato finale è assolutamente grandioso. A fornire il giusto supporto sia alla maestosità delle location sia alle incredibili battaglie è il comparto sonoro che, con le sue melodie suddivise tra heavy metal puro e sonorità “drum and bass” tipiche della serie, accompagnano con grinta ed enfasi ogni mossa dei protagonisti, rendendo le combo ancora più devastanti e l’atmosfera di gioco adrenalinica.

Tirando le somme, Devil May Cry 5 è un titolo con tutti gli attributi. L’ultima fatica di Capcom è un action game esagerato, spavaldo ed estremamente adrenalinico. Proseguendo nella storia è ben evidente come la trama, seppur importante, sia stata messa in secondo piano rispetto al gameplay. In questo quinto capitolo Hideaki Itsuno ha però voluto puntare molto sui fatti che fanno da sfondo al gioco, regalando una sceneggiatura davvero profonda e interessante, ricca di colpi di scena, capace di dare tante risposte ai fan che le cercavano da tempo e soprattutto in grado di tenere incollati allo schermo dall’inizio alla fine. Tutte le 20 missioni che compongono l’opera hanno qualcosa da dire e lo fanno molto bene, senza mai annoiare accompagnando il giocatore verso un finale ricco di sorprese e confezionato davvero bene. I tanti anni di sviluppo si vedono, e si nota chiaramente la passione messa dal team nella realizzazione di un’opera che, a parere nostro, resta una delle migliori di sempre. Devil May Cry 5 rappresenta ciò che i fan desiderano, un prodotto solido, realizzato con il cuore e che gode di una straordinaria giocabilità. Non giocarlo sarebbe un grave errore.

GIUDIZIO GLOBALE:

Grafica: 9

Gameplay: 10

Sonoro: 9,5

Longevità: 9

VOTO FINALE: 9,5

Francesco Pellegrino Lise




Metro Exodus, un’odissea post atomica

Metro Exodus,
l’ultimo capitolo della serie basata sui romanzi dello scrittore russo Dmitry
Glukhovsky è finalmente arrivato su Pc, Xbox One e Ps4. L’ultima fatica di 4A
Games e Deep Silver è stata attesa con molta ansia dai fan, considerando che
l’ultimo gioco della saga è stato rilasciato quasi sei anni fa e in questo
lasso di tempo gli appassionati hanno potuto solo giocare alle versioni
remastered del titolo originale e del suo seguito. Per chi non lo sapesse
l’universo di Metro è un universo catastrofico dove la storia dello scorso
secolo ha lasciato il genere umano ferito, saccheggiato nell’animo da due
guerre devastanti. I precari nuovi equilibri politico-economici fra Est e Ovest
che ne conseguirono scissero il mondo nella seconda parte del ventesimo secolo,
portando il pianeta sull’orlo di una guerra nucleare senza scampo, per nessuna
fazione. Nel 2010 lo sviluppatore ucraino 4A Games diede vita al racconto di
Dmitrij Gluchovskij ambientato nella metropolitana di Mosca con Metro 2033 e,
successivamente, Metro Last Light, first person shooters dalle sfaccettature
horror in cui meccaniche survival e stealth assecondano una caratterizzante
anima narrativa. Adesso con Metro Exodus, anch’esso ispirato al terzo e ultimo
romanzo dell’autore russo, le claustrofobiche meccaniche di gioco che hanno
caratterizzato la serie vengono accantonate a favore di una giocabilità più
esplorativa. Fuori dai tunnel della metropolitana di mosca il mondo ancora
esiste, ferito, irrimediabilmente mutato, ma in ogni caso vivo. Andando più
nello specifico, in Metro Exodus si vestono ancora una volta i panni di Artyom.
Egli, sposatosi con Anna, la bella e determinata figlia del Colonnello Miller,
il leader dell’Ordine di Sparta, sogna ancora un futuro lontano dal giogo
opprimente della metropolitana e delle mostruosità nate dalle radiazioni che
hanno reso Mosca una terra arida e inospitale. E proprio tenendo saldamente a
sé quest’idea che gli eventi del prologo del gioco conducono il protagonista e
suoi compagni ad abbandonare lo scenario in cui si sono svolti i precedenti
capitoli in cerca di una nuova speranza a bordo dell’Aurora, un treno a vapore
che li conduce in un vero e proprio esodo per la sopravvivenza che durerà un
anno intero. Lungo l’arco di questi 12 mesi l’alternanza delle stagioni
coincide con il sopraggiungere di nuove e differenti insidie, legate a filo
doppio alle novità di gameplay introdotte con Exodus: attraversando ciò che
resta della vecchia Russia, Artyom e compagni si trovano a esplorare vaste
regioni dalle caratteristiche uniche dove mostri e fanatici di ogni genere sono
pronti a fare di tutto per ostacolare la ricerca di una destinazione finale
tanto sfuggente quanto ambita. La trilogia di Metro è sempre stata
un’esperienza esplicitamente dedicata al single player, ed Exodus, nonostante
lo stravolgimento delle ambientazioni, non è da meno. Come nei vecchi capitoli
della serie, dove erano previsti dei finali multipli e di conseguenza anche
delle scelte morali che andavano a incidere direttamente sul karma del
protagonista, anche stavolta il sistema è il medesimo. Compiere determinate
scelte, adottare una certa condotta piuttosto che un’altra determinerà il
destino di Artyom, e anche il finale della storia. Anche stavolta sarà
necessario fare molta attenzione a ciò che si fa, in quanto la condotta non è
effettivamente rappresentata chiaramente mediante un qualsiasi indicatore. Se
si commette un errore, si avvertirà solo un lieve suono accompagnato da una
specie di flash. Fortunatamente basta tenere le orecchie bene aperte e prestare
attenzione alle parole dei compagni di d’avventura: quasi sempre, infatti,
consiglieranno la condotta più adatta, che in genere si basa sulla regola d’oro
del “non uccidere gli innocenti”. Il punto è che coloro che sono
liberi dal peccato non sono sempre riconoscibili, e per aggirare il problema
l’unica via è quella dell’approccio stealth. Tale modo di affrontare il gioco è
diventato ancor più centrale in questo capitolo, e lo sviluppo verticale di
alcuni livelli lo rende anche particolarmente stimolante. Per evitare
l’omicidio bisogna muoversi nell’ombra, o in alternativa è necessario arrivare
alle spalle del nemico per poi sferrargli un colpo deciso fra capo e collo. Le
soddisfazioni ci sono anche in questo caso, ma è chiaro che scegliendo la
“via del buono” si spara molto meno, e in alcuni casi il basso
profilo viene imposto per molto tempo, e forse non a tutti potrebbe piacere
tale tipo di approccio. D’altra parte, è bene sottolineare che bastano pochi
errori per compromettere il finale “positivo” e l’alternativa non è esattamente
un “happy ending”. Quindi se si desiderà un’esperienza più difficile, immersiva
e appagante, consigliamo la via del bene. Se invece si cerca un approccio più
action, più shooter e più adrenalinico, a patto di accettare un finale
negativo, Metro Exodus potrà garantire tanto divertimento anche in questo
senso.

In questo titolo,
come già nei suoi predecessori, per forza di cose la narrativa riveste un ruolo
fondamentale. Essa, infatti, deve invogliare il giocatore a proseguire il
viaggio, e per farlo necessita di uno scopo e di una tavolata di personaggi di
spessore su cui poter contare. A bordo dell’Aurora, il treno con cui si muovono
i protagonisti, tutto questo c’è, e il tema dell’esodo verso la terra promessa
è affrontato con grande pathos. Esempio clou ne è uno dei primi filmati che con
una dissolvenza catapulta il giocatore nel passato, all’interno di un vagone
della metro, ancora brulicante di persone. Le ruote si muovono verso chissà
dove, mentre chi sta con il pad in mano osserva dal finestrino il teatro della
condizione umana; fuori la città cambia, dapprima sferzata dai venti di guerra
lontana e poi demolita dal fragore nucleare, e infine il silenzio, poi le porte
si aprono. Davvero di grande effetto. All’inizio di Metro Exodus ci si trova
ancora a Mosca, a poca distanza dagli eventi di Last Light, ed Artyom, fra
un’uscita e l’altra, non ha ancora abbandonato l’idea che ci sia vita oltre i
confini della città. Per una serie di sfortunati eventi, spiegati purtroppo in
maniera un po’ brusca e superficiale, la comitiva degli Spartani si ritrova ad
apprendere una terribile verità, e ovviamente poco dopo la situazione
precipita, costringendoli a fuggire per sempre dalla capitale russa. Il loro
mezzo è un vecchio treno corazzato, denominato in seguito Aurora, che fungerà
da nuova casa per tutto il viaggio. A bordo ci sono tutti: Artyom, sua moglie
Anna, Miller, Alyosha, Idiota e anche qualche nuovo arrivo. Ognuno di loro ha
le sue paure, i suoi sogni, e anche se non sono disponibili delle vere e
proprie interazioni, dal momento che il protagonista è ancora una volta
completamente muto, durante il pellegrinaggio verso est ci saranno numerose
occasioni per fare la loro conoscenza; girovagando per il campo base, di volta
in volta allestito in modo diverso, capita spesso di origliare scambi di
battute, storie di folklore, dialoghi e perfino litigi che contribuiscono a
tratteggiale i loro profili. In Metro Exodus il giocatore sarà sempre uno
spettatore passivo, ed è una scelta che oggi mostra più che mai i suoi limiti,
eppure dopo ogni missione, quando si ritorna all’Aurora, viene sempre voglia di
ascoltare i discorsi dei compagni di viaggio, di osservarli mentre sono seduti
su uno sgabello intenti a fumare una sigaretta piegata o a sorseggiare una
vodka di pessima qualità, e nonostante la scarsa possibilità d’interazione, ci
si sente a casa, al sicuro e circondati da persone amiche. Proprio queste
atmosfere speciali sono il punto di forza di Metro Exodus. Infatti il gioco
riesce a coinvolgere emotivamente chi gioca e tutto ciò dà energia alla voglia di
proseguire nell’avventura e di scoprire cosa accadrà proseguendo nella storia.
Nell’ultima fatica di 4A Games e Deep Silver c’è spazio per la speranza e il
desiderio personale, per la delusione e la disillusione, e anche per la ricerca
della tranquillità. Peccato che quest’ultima sia una merce molto rara, anche
perché nel cuore della Russia post nucleare si incontrano personaggi bizzarri e
strane tribù dalle intenzioni poco pacifiche, come fanatici che ripudiano la
tecnologia e anche schiavisti della peggior specie, e alcune di queste
riusciranno a far rimpiangere i tempi delle buie gallerie della metropolitana.
Le atmosfere sono sempre magnifiche e quando la trama riprende la narrazione
lineare il risultato è sempre alto.

A livello di
giocabilità, come vi dicevamo all’inizio, Metro Exodus propone qualcosa di
molto diverso rispetto a quanto è stato visto nei capitoli precedenti. Una
volta entrati in contatto con le aree denominate Volga e Caspio, la sensazione
è quella di perdersi da un momento all’altro. La mappa a disposizione di Artyom
dice poco o nulla su ciò che bisogna fare, almeno finché qualcuno non indica la
strada al protagonista. Ogni location è stata creata a misura d’uomo, e a parte
rari casi dove bisogna aggirare ostacoli, si riesce a correre da una parte
all’altra in una manciata di minuti, a patto però di sopravvivere ai mutanti e
ad altri temibili orrori, ovviamente. Il rischio di una struttura del genere
era alto, anche perché in realtà non esistono delle vere e proprie missioni
secondarie, non ci sono personaggi opzionali da scoprire e neppure le solite
vecchie fetch quest, eppure 4A Games è riuscita a trovare l’equilibrio
perfetto. in Metro: Exodus la storia ci porta costantemente da un punto A ad un
punto B, ma nel mentre è impossibile non lasciarsi contagiare dalla voglia di
esplorare i piccoli centri abitati e le numerose rovine disseminate in giro,
magari a bordo di un piccolo quattroruote di fortuna o di una barchetta a remi
da cui entra acqua da tutte le parti. Il più delle volte ad attirare
l’attenzione del giocatore sarà proprio il paesaggio stesso, magari grazie a
uno scorcio particolarmente ispirato, un dettaglio o un’architettura che si
staglia in lontananza. Tali aree spingono ad “abbandonare” momentaneamente la
missione principale per scoprire cosa si nasconde fra quelle misteriose case o
in quella fabbrica allontanata o fra quei rottami apparentemente abbandonati.
Tutto questo arricchisce l’esperienza di gioco e ne espande la longevità.
Naturalmente, oltre a quanto detto, sulla mappa sono presenti anche alcuni
dungeon, che spesso prendono le sembianze di bunker abbandonati, fogne e
fabbriche prebelliche diroccate. Tali aree sono sezioni relativamente piccole,
caratterizzate da una progressione lineare e dall’utilizzo della maschera
antigas, ma svolgono benissimo il loro lavoro. Esse servono a staccare dal free
roaming, ma sono comunque location curatissime e articolate, che riportano in
primo piano il vecchio e glorioso feeling dei primi due capitoli. Che si tratti
di rovistare fra gli archivi sepolti dell’esercito o di farsi strada attraverso
una diga pericolante, quelli appena citati sono senza dubbio fra i momenti più
riusciti della produzione, e riescono ad incastrarsi perfettamente con il resto
dell’avventura. In Metro Exodus la pratica del frugare fra i rifiuti per
trovare oggetti utili veste ancora una volta un ruolo centrale e lo fa più di
quanto visto in passato, anche perché in questo capitolo non esistono mercanti,
e tutto passa per un pugno di pezzi di metallo e qualche oncia di sostanze
chimiche. All’inizio questo sistema può apparire un po’ macchinoso, ma una
volta che si sarà familiarizzato con il “trova e ricicla” sarà un vero piacere
poter creare tutto ciò che occorre attraverso i materiali di scarto. Si può
creare praticamente tutto in regolare autonomia, dai medikit ai filtri per la
maschera, passando anche per le migliorie per le armi. Insomma, il concetto di
base è: più si passa tempo a cercare materiali utili fra i rifiuti, maggiore
sarà la possibilità di creare equipaggiamento per sopravvivere. Ovviamente per
montare gli oggetti più complessi e ingombranti sarà necessario servirsi di un
banco da lavoro, sempre reperibile al campo base o all’interno delle zone
disseminate in giro per la Russia post nucleare. Assemblare le proprie scorte e
prepararsi prima di ogni singola spedizione non diventerà soltanto un rito, ma
presto ci si accorgerà che è proprio uno degli elementi trainanti del gameplay,
che scandisce il ritmo dell’avventura. A livello di combat system, gli scontri
a fuoco risultano sempre molto realistici e ben realizzati, ogni proiettile
sparato da Artyom sembra diverso da quello precedente, come a voler ribadire
l’artigianalità dell’arma, e il feeling è sempre lento e pesante. In Metro
Exodus però i movimenti sono differenti dai normali shooter, quindi scordatevi
scivolate rapide e scatti fulminei di 180 gradi. Nel gioco, essendo parecchio
simulativo, per perdere la pellaccia basta scordarsi di pulire il vetro della
maschera antigas o di ricaricare l’arma prima di sporgersi da un angolo. Detto
ciò, se non si è abituati alle dinamiche della serie consigliamo caldamente di
affrontare la difficoltà normale, ben bilanciata e più che adatta a comprendere
come si gioca. Al contrario, se si è veterani di Metro e si è alla ricerca
della vera “Metro Experience” allora è il caso di scegliere sulla
difficoltà estrema, dove ogni proiettile raccolto fra la polvere vi farà
gridare al miracolo, ma soprattutto dove sopravvivere sarà un vero e proprio
incubo.

A livello grafico
Metro Exodus è un titolo davvero ben Fatto. La realizzazione tecnica di alto
livello e l’accompagnamento sonoro di buon livello del mondo di gioco, riescono
a trasmettere a pieno il senso di desolazione e pericolo che attanaglia l’intero
viaggio dell’Aurora. A dispetto di qualche calo di fluidità in alcune delle
fasi più concitate, il colpo d’occhio generale è sempre di alto livello e gode
di un orizzonte visivo più che apprezzabile. La contrapposizione fra la
l’illuminazione naturale degli ambienti esterni e quella artificiale dei luoghi
chiusi regala giochi di luce e riflessi di grande pregio. Questi uniti ai tanti
effetti grafici presenti restituiscono un’immagine viva e sempre ricca di
dettagli. Insomma, nulla da eccepire. Peccato solo per l’assolutamente voluto
senso di pesantezza che si ha mentre ci si muove e si prende la mira che
sicuramente rende l’esperienza di gioco meno fluida e un po’ snervante. In ogni
caso, una volta compreso come gestirla, l’avventura di Artyom sarà assolutamente
una storia avvincente, ricca di colpi di scena e incredibilmente profonda.
Tirando le somme, questo Metro Exodus è un ottimo esempio di come sia possibile
integrare elementi nuovi pur preservando e dando maggior spicco ai tratti più
caratteristici di una serie. La novità delle sezioni liberamente esplorabili ha
aggiunto quantità e varietà all’offerta, permettendo agli sviluppatori di
studiare le parti più lineari dell’avventura senza compromessi in termini di
intensità. Il viaggio di Artyom e dei suoi compagni a bordo dell’Aurora resta
dunque fedele ai tratti caratteristici che hanno reso famosi i giochi
precedenti, ma in questo nuovo capitolo essi sono stati arricchiti in maniera
estremamente positiva nella loro formula base da elementi completamente inediti
e da un comparto tecnico di alto profilo. Insomma, dopo tanta metropolitana e
ambienti bui e angusti un po’ d’aria fresca, seppur infarcita d terribili
mutanti e personaggi estremamente crudeli e senza scrupoli, era quello che ci
voleva. Ovviamente se si vuol giocare bene e comprendere a fondo Questo terzo
capitolo della saga, consigliamo di giocare i precedenti o quantomeno di aver
letto i libri. Ovviamente Metro Exodus può essere giocato anche senza conoscere
quanto è accaduto in precedenza, ma a livello di trama potrebbe essere
difficile comprendere l’universo di gioco e alcuni riferimenti. In ogni caso
crediamo che ogni buon gamer che si rispetti, specialmente chi è rimasto
affezionato ai titoli single player dovrebbe acquistarlo. Ore e ore di gioco
ben scritte e realizzate sono solo la base di quest’opera che se affrontata
come si deve è in grado di dare molte e appaganti soddisfazioni.

GIUDIZIO GLOBALE:

Grafica: 9

Sonoro: 8,5

Gameplay: 8,5

Longevità: 8,5

VOTO FINALE: 8,5

Francesco Pellegrino Lise