Connect with us

Editoriali

arrestato procuratore capo di aosta

Pubblicato

il

Clicca e condividi l'articolo
Tempo di lettura 11 minuti
image_pdfimage_print

ARRESTATO IL PROCURATORE CAPO DI AOSTA PASQUALE LONGARINI

DI ROBERTO RAGONE

Il procuratore capo facente funzioni di Aosta, Pasquale Longarini, è stato arrestato il 31 gennaio u. s. nell’ambito di una inchiesta condotta dal Nucleo Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Milano per conto della Procura della Repubblica milanese, coordinata dal pm Roberto Pellicano e dal Procuratore Aggiunto Giulia Perotti. Il dottor Longarini è stato arrestato e posto agli arresti domiciliari per violazione dell’art. 319 quater del Codice Penale, cioè per induzione indebita a dare o promettere utilità. Coinvolto nelle indagini e messo ai domiciliari anche Gerardo Cuomo, titolare di un caseificio valdostano. "Le indagini hanno consentito di accertare come a fronte di questa sollecita disponibilità nei confronti dell'amico imprenditore, Longarini abbia ricevuto dallo stesso, oltre a forniture di prodotti caseari, quantomeno favori se non delle vere e proprie remunerazioni, come nel caso del viaggio in Marocco", scrive il gip nell'ordinanza di custodia cautelare. In definitiva, il dottor Longarini è accusato di aver fornito indebitamente informazioni a Gerardo Cuomo per risolvere problemi di tipo giudiziario o amministrativo, in cambio di utilità o di promesse di utilità. Coinvolta nell’affaire una terza persona, un albergatore valdostano con attività ad Aosta e Courmayeur, che, secondo l’accusa, sarebbe stato indotto  dal Longarini a rifornirsi dei prodotti venduti dal Cuomo per un valore di circa 70.000 euro, informando poi il Cuomo delle intercettazioni a cui era sottoposto nell’ambito di una indagine sulla ‘ndrangheta disposta dalla DDA di Torino, una tranche della quale era stata trasmessa proprio ad Aosta. Il dottor Longarini, alla procura di Aosta da quindici anni, aveva collaborato, nella qualità di sostituto procuratore, con la collega Stefania Cugge alle indagini che, in primo grado, portarono alla condanna a 30 anni di reclusione di Anna Maria Franzoni, accusata dell’omicidio del piccolo Samuele, di tre anni, nella villetta di Montroz in cui la Franzoni abitava con il marito, Stefano Lorenzi, e i due figli, Davide e Samuele. A proposito dell’omicidio di Cogne, abbiamo interpellato il noto criminologo professor Carmelo Lavorino, che all’epoca dei fatti (sino all’entrata dell’avv. Carlo Taormina) è stato consulente della difesa per Anna Maria Franzoni, e ha conosciuto da vicino il dottor Longarini. Il professor Lavorino, a posteriori, ci ha espresso alcune delle perplessità che lo avevano colto ai  tempi delle indagini sulla Franzoni, proprio da parte del dottor Longarini, innamorato, a quanto ci dice Lavorino, della sua tesi accusatoria, al punto tale da non considerare altre ipotesi di colpevolezza, nonostante non ci fossero prove schiaccianti a carico della madre di Samuele, e alcune perizie fossero tirate per i capelli. “Accade a volte” ci dice Lavorino “che gli inquirenti, coloro che svolgono le indagini, si innamorino del sospetto iniziale e di una loro tesi accusatoria, e, anche per una forma di inconscio protagonismo, perseguano quella, cercando di cucirla addosso all’indagato, piuttosto che cercare un vero colpevole. Io di perplessità nel delitto di Cogne ne ho sempre avute,” continua il prof. Lavorino “ perché fin dall’inizio ritenevo che l’impianto accusatorio nei confronti di Anna Maria Franzoni fosse carente. Ritenni che fin dall’inizio c’era nei confronti di Anna Maria Franzoni il cosiddetto innamoramento del sospetto, che poi diventa innamoramento della tesi. C’era ormai l’idea precostituita della colpevolezza di questa donna, e quindi a mio avviso tutti gli appartenenti alla Procura ed ai vari gruppi investigativi parteciparono a questa ‘caccia alla donna’, a prescindere dalla sua colpevolezza, perché in effetti non riuscirono a trovare nemmeno un elemento forte portante. Quindi già a suo tempo ebbi delle perplessità per come investigava questa procura di Cogne, e nel momento in cui uno dei PM dell’epoca, oggi Procuratore Capo, sempre ad Aosta, – Longarini è stato per quindici, venti anni ad Aosta, – oggi sia in carcere, mi fa sorgere dei dubbi sulla serietà e genuinità analitica logico-deduttiva di questa persona, di questo apparato. È chiaro che quando esplose il caso Cogne, poiché la procura di Aosta era una piccola procura, lo è tutt’ora, ma era una piccola procura, non era preparata ad un impatto massmediatico del genere, ad una simile pressione psicologica, ritengo che probabilmente chiuse un occhio laddove non doveva chiuderlo, il c.d. “occhio investigativo che deve guardare verso tutte le direzioni”. Io per i primi mesi fui il consulente di Anna Maria Franzoni, poi quando arrivò Carlo Taormina preferii andare via, fermo restando che anche Taormina preferiva che io andassi via, insomma ci trovammo in accordo solo su questo. Anche perché inizialmente Taormina era colpevolista, mentre io ero innocentista. Circa un mese dopo il fatto, quando facemmo liberare Anna Maria Franzoni, dal Tribunale del Riesame, io entrai nella scena del crimine, entrai nella casa, nella villetta, nella stanza del delitto assieme al mio gruppo di lavoro. Sono uno dei pochi soggetti che sono entrati sulla scena del crimine, quindi vidi esattamente le macchie di sangue, le fotografai, le contai, ebbi l’opportunità di fare determinate valutazioni, insomma io ho lavorato sul caso e dentro il caso. Poi, quando mi accorsi che da un’indagine molto seria che doveva essere effettuata, e da un processo molto serio, si stava passando ai saltimbanchi televisivi, cercai di defilarmi, per motivi di serietà.

Personalmente ho seguito il caso di Cogne, perché anche a me sembrava assurdo che la Franzoni avesse ucciso suo figlio, ma mi sembrava invece plausibile, da vecchio giallista, l’ipotesi di una persona che si era nascosta in casa. Quello che ritengo sia stata un prova molto pesante nei confronti della Franzoni penso siano state proprio le macchie di sangue sulle pantofole e sul pigiama.

Allora… io sul caso di Cogne ho scritto due libri, una decina di saggi, molti tabella e un paio di consulenze. Quindi il caso lo conosco molto, molto bene. Che si fosse nascosta una persona a casa di Anna Maria Franzoni prima che la stessa uscisse di casa alle 8:15 è impossibile per una serie di motivi. Impossibile per una serie di motivi tecnici. Analizzammo tutto in maniera molto approfondita, io e il mio gruppo di lavoro. L’alternativa all’azione omicidiaria da parte della Franzoni è quella di una persona che si è introdotta in casa approfittando del momento in cui la Franzoni è uscita per accompagnare il figlioletto Davide di sette-otto anni, che alle otto e venti prese l’autobus. Questa persona conosceva esattamente i tempi di uscita, di permanenza fuori e di ritorno della Franzoni. Vero è però che quando la Franzoni è tornata, questa persona era ancora in casa, perché non era venuta per uccidere il bambino, doveva effettuare un dispetto alla Franzoni, mettere qualcosa all’interno del comodino del marito in camera da letto, per fare fallire la festa che ci sarebbe stata il pomeriggio, in giardino, proprio all’esterno della camera da letto dove si è verificato il fatto di sangue. Questa persona non immaginava che il bambino stesse sul letto grande matrimoniale, è stata colta di sorpresa, si è intimorita, ha avuto un sussulto, ha perso il controllo, ha incominciato a colpire il bambino fino a ucciderlo, e lo ha ucciso con quell’attrezzo che doveva mettere all’interno del comodino di Stefano Lorenzi. Quindi l’omicidio non è stato premeditato, è stato premeditato soltanto l’intervento per fare quello che doveva essere fatto, iniziando proprio dall’intrusione. Questa persona poi, dalla finestra della scena del delitto, ha visto che la Franzoni stava tornando, ha coperto il volto del bambino col piumone del letto, ed è andata ai piani superiori. Ha aspettato che la Franzoni entrasse, dopodiché è uscita, tanto che la stessa Franzoni fin dall’inizio disse di essere entrata e di avere chiuso la porta a chiave dall’interno. Invece alle nove e venti questa porta era aperta, e nessuno era passato da quella porta: a mio avviso è stata questa persona. La quale persona aveva però una conoscenza territoriale della casa, era una conoscente, questa persona, dei coniugi Lorenzi, e quindi di Anna Maria Franzoni, e aveva anche avuto l’opportunità di avere in mano la chiave della casa, in modo da farsi un doppione. Il doppione di quella chiave e quella chiave stessa l’avevano avuta diverse persone per motivi di amicizia, di buon vicinato lontano e vicino, eccetera. Passiamo alle ciabatte e alle macchie di sangue. Le ciabatte, secondo un’ipotesi della procura che poi non ha trovato riscontro in nulla, – e qui la difesa della Franzoni avrebbe dovuto approfondire e non l’ha fatto,- sul pigiama venne fatta la BPA, Bloodstains Pattern Analisys, l’analisi delle macchie di sangue sul pigiama, e un tecnico tedesco, un certo Hermann Schmitter, fece una consulenza, una perizia che io non condivido in nessun modo, e dichiarò che l’assassino sicuramente indossava i pantaloni del pigiama, e non si sa se indossasse la casacca. Garofano disse invece che l’assassino indossava la casacca soprattutto, e forse i pantaloni del pigiama. Sulla questione delle ciabatte ci fu una grande confusione, e non si addivenne a nulla. Comunque, morale della favola, la sentenza di condanna non trovò alcun movente, non riuscì a dimostrare nulla, però insomma sappiamo che ormai il caso era esploso a livello massmediatico, la difesa di Anna Maria Franzoni,- parlo di Carlo Taormina,- pensò di andare soltanto in televisione, senza fare indagini difensive serie, esaustive ed alternative, e la storia finì con la condanna della Franzoni, la quale si aiutò molto a farsi condannare col suo atteggiamento.

Sì, ricordo esattamente che andava in televisione, anche da Costanzo, con un atteggiamento molto… lacrimevole…

Sì, fortemente lacrimevole, però questo è comprensibile per alcuni motivi, anche perché era spinta dall’avvocato Taormina ad andare nelle trasmissioni perché Taormina la usava come mezzo di scambio, di baratto, per avere una visibilità mediatica che aveva perso, perché Taormina fra dicembre e gennaio, quindi dicembre 2001, e gennaio 2002, era stato costretto a dare le dimissioni da sottosegretario agli Interni del governo Berlusconi. Quindi praticamente aveva avuto una caduta di visibilità mediatica, era in crisi di presenza televisiva, tanto che inizialmente era colpevolista, poi si offrì alla famiglia della Franzoni e divenne innocentista. Quindi la famiglia tenne una strategia mediatica che per me fu totalmente suicida, divenne succube dell’avvocato Taormina, tanto che poi ultimamente si sono anche denunciati a vicenda. La Franzoni ha denunciato Taormina, dicendo che non era stata assolutamente contenta della sua difesa, e l’avvocato ha chiesto alcune parcelle arretrate, non si sa per cosa visto che ha sempre dichiarato che la difendeva a titolo gratuito.

Mi sembra di ricordare, mi corregga se sbaglio, che l’avvocato Taormina fu accusato di aver tentato di ‘scoprire’ sulla scena del crimine alcune prove a posteriori, tramite un suo investigatore privato.

Io questo non lo so. Non so cosa fece Taormina. Però posso dire esattamente questo, che i consulenti tecnici di Taormina e un investigatore privato incaricato da Taormina, andarono una notte nella villetta di Cogne per cercare – questo lo fecero dopo la condanna della Franzoni in primo grado, queste cose si fanno sempre prima, non si fanno dopo, però anche, ricordo, lo fecero perché seguirono un mio suggerimento che avevo inserito messo su di un articolo –  andarono a cercare delle tracce dell’assassino che dovevano esserci. Ma le cercarono a modo loro, e non come avevo suggerito io, e cercarono le impronte digitali dell’assassino sulla porta della camera da letto. La quale porta della camera da letto era stata toccata da molte persone anche dopo che era stata dissequestrata la casa. C’erano stati i familiari, c’ero stato io, c’era stata un sacco di persone, e l’abbiamo toccata così, senza guanti, perché ormai in quella casa erano tornati a viverci, tranne la Franzoni. Allora, di notte andò lì questa squadra di tecnici, e sulla porta venne evidenziata dal Luminol questa impronta digitale sporca di sangue, che non era di Anna Maria Franzoni. Allora il ragionamento fu questo: poiché il sangue si coagula dopo cinque minuti, essendo un’impronta digitale sporca di sangue, sul sangue può evidenziare l’impronta dell’assassino. E non essendo di Anna Maria Franzoni, questo è un elemento che praticamente la toglie dal mirino della colpevolezza, che la discolpa. Però gli inquirenti aostani vennero a scoprirono che prima era stato spruzzato il Luminol e poi era stata apposta messa l’impronta digitale. Questa impronta papillare era l’impronta di un tecnico del team di Taormina, e su questa questione voglio stendere un velo pietoso, perché il gruppo di difesa di Anna Maria Franzoni fece una figuraccia, mi pare che alcuni di questi vennero anche rinviati a giudizio; naturalmente Taormina non fu rinviato a giudizio perché non era presente, quindi non poteva sapere quello che stava accadendo, però naturalmente, da responsabile delle indagini difensive non fece una bella figura. Tanto che, insomma, quello che io imputo a Carlo Taormina è che poteva far fare uscire benissimo una bellissima figura all’istituto delle indagini difensive nel caso di Cogne, invece lo sputtanò nella sua credibilità.

Allora, alla luce di tutto questo, professore, quali sono in definitiva i suoi dubbi su Longarini, quelli che lei ha espresso anche su di un social network?

Allora, i miei dubbi su Longarini, è che, dal punto di vista delle investigazioni su Cogne, a mio avviso, si è dimostrato inadeguato. In seguito, lo trovai anche in un processo, ad Aosta, sempre per il fatto di Cogne, dove lui era l’accusa contro di me, e sinceramente mi sembrò alquanto schierato a livello induttivo, tanto che non prese in considerazione alcuna argomentazione della mia difesa, invero fortissima e logicissima. Poi il processo mi andò benissimo, perché lo vinsi io, tanto che il procuratore generale di Torino chiese la mia assoluzione confutando e contraddicendo lo stesso Longarini: è tutto dire! Ora, che dopo quindici anni sia coinvolto in una situazione del genere, e un magistrato venga arrestato e messo agli arresti domiciliari, io perdo fiducia sulla metodologia e sullo spirito con cui seguì le indagini a Cogne. È vero che in Italia esiste il presupposto di innocenza, ma è anche vero che questo presupposto di innocenza debba valere sia per la Franzoni, e poi anche per il dottor Longarini. Vediamo ora come si mettono le cose, fermo restando che se viene arrestato un povero cristo qualunque, si può anche pensare che ci sia stato un certo pressappochismo, ma se viene arrestato un magistrato, specialmente un Procuratore Capo, vuol dire che c’è qualche elemento molto forte. E qui gli elementi forti sarebbero le indagini di polizia giudiziaria della Guardia di Finanza. E ci sarebbero anche delle intercettazioni. Quindi vediamo come va a finire la storia. Però se Longarini risulterà colpevole, questo riavviso darà un ulteriore colpo alla credibilità di sentenza di condanna e quindi di colpevolezza di Anna Maria Franzoni.

In definitiva, il pull investigativo di Cogne non ha voluto seguire i suoi suggerimenti.

No, assolutamente. Prima c’ero io con il mio gruppo investigativo e criminologico, e le cose andavano bene. Poi uscimmo, perché arrivò Taormina con una serie di cortigiani che cercavano pubblicità. Questi ultimi riuscirono a farsi un po’ di pubblicità ed ebbero anche il loro piatto di lenticchie, ma poi le lenticchie caddero tutte per terra, perché poi gira e rigira la Franzoni fu condannata e loro furono rinviati a giudizio. Quindi la vicenda di Cogne ci  insegna soltanto che: Anna Maria Franzoni venne condannata, lei continuò a dichiararsi innocente, ciononostante una madre e un padre, – e non solo un padre, ma l’intera famiglia, – che sono nonostante siano convinti dell’innocenza di Anna Maria Franzoni, non riescono a individuare il vero assassino del bambino. Quindi si trovano a subire, a detta loro, due enormi danni, due enormi insulti: la condanna di Anna Maria Franzoni da innocente, e congiuntamente lo stato ancora in libertà del vero assassino. Però, questa è una situazione estremamente ingarbugliata, che poteva essere risolta fin dall’inizio della questione, ma non è stata risolta perché sono intervenuti tutti questi fattori umani di egoismo, di prepotenza, di voglia di apparire, di presenzialismo, che hanno rovinato tutto.

Poco fa lei parlava dell’arma del delitto, cioè di un oggetto che avrebbe dovuto essere messo nel comodino del marito: ma allora qual’era quest’arma del delitto?

L’arma del delitto la si deduce dalle ferite sulla testa del bambino e dalle tracce che sono state proiettate sulla testiera del letto, sulle pareti e sul soffitto , il quale soffitto è alto due metri e venti, quindi sta a significare che è limitato, basso. Dalle tracce sul soffitto, di cui ho ancora le fotografie, e dalle ferite sulla testa del bambino, l’arma del delitto è un’arma che ha un manico fisso rigido, minimo di venti centimetri, ha un’estremità che ha catturato facilmente la materia cerebrale e ossea del bambino, e l’ha proiettata in alto col movimento detto cast off o brandeggio. Questa parte terminale ha tre punte. Quindi, a questo punto, è una zappetta. Mancava una zappetta dal giardino di Anna Maria Franzoni, e poi è stata ritrovata in seguito. Questo sta a significare che se Anna Maria Franzoni è innocente, qualcuno aveva preso questa zappetta della Franzoni e l’aveva sostituita con un’altra per metterci qualcosa di compromettente e andare a metterla all’interno del comodino per fare fallire la festa pomeridiana. Alla quale festa pomeridiana erano stati invitati tutti i bambini della classe di Davide, tranne due. Quindi, a mio avviso, qualcuno avrebbe dovuto fare  un dispetto alla famiglia di Anna Maria Franzoni e questo dispetto poteva essere fatto solo quando lei sarebbe uscita. Questa persona ha aspettato che la Franzoni uscisse, si è infilata, aveva il doppione delle chiavi, però non lo ha usato perché uscendo la Franzoni non aveva chiuso a chiave, aveva lasciato le chiavi all’interno; questa persona sapeva dove andare, perché aveva una conoscenza territoriale della casa, è stata sorpresa dal bambino, perché non pensava che il bambino stesse nel letto dei coniugi Lorenzi, ma pensava che stesse nella sua cameretta, al buio, e lì ha perso il controllo, ha incominciato a colpire, è entrata in rito distruttivo ed appetitivo, poi ha visto che la Franzoni stava rientrando, ha coperto il viso al bambino, in segno di quella che noi chiamiamo ‘negazione psichica’ o “undoing / disfacimento del crimine”, ha chiuso il sipario del crimine, ed è scappata. Ha atteso che la Franzoni entrasse, e poi è uscita. Evidentemente aveva paura di scontrarsi fisicamente con la Franzoni, nonostante uscisse dall’attuazione di un atto omicidiario ed avesse in mano l’arma assassina.

Questa persona era una donna?

Questa persona non è la vicina, non è la psichiatra, non è la donna che la sera prima era stata a cena da Anna Maria Franzoni, questa persona è una donna, anche perché ha temuto lo scontro fisico con la Franzoni ed ha effettuato un “undoing” del tipo femminile. 

Il colloquio con il professor Lavorino, che ringrazio per la sua disponibilità, è continuato il giorno dopo, e ci ha portati molto vicini a scoprire il vero assassino di Samuele. In una prossima puntata potremo approfondiremo insieme ogni cosa.

 

 


 


 


 

 

 

 

Continua a leggere
Commenta l'articolo

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Editoriali

Corsi di recupero per i debiti formativi: dettagli ed efficacia

Pubblicato

il

Clicca e condividi l'articolo
Tempo di lettura 2 minuti
image_pdfimage_print


Ogni scrutinio di classe è diverso e proprio per questo possono essere decretate promozioni, bocciature o sospensioni di giudizio, nonché i cosiddetti debiti formativi.

In questo articolo non si vuole tanto commentare la decisione di dare 1 o 2 o 3 debiti formativi in una o più discipline, quanto l’efficienza dei corsi formativi che dovrebbero aiutare lo studente, in sospensione di giudizio, a ripassare la materia/e per poi dare l’esame “riparativo” da fine agosto a inizio settembre.

La regola ministeriale sancisce che chi “salda” il debito/i passa all’anno scolastico successivo e chi non lo supera dovrà ripetere l’anno.

Quello che spesso ci si domanda, tra docenti, è quanto l’alunno riesca a comprendere dal corso formativo e quanto sia utile lo studio individuale.

Sicuramente, il corso formativo aiuta l’alunno a ristudiare i punti di fragilità della disciplina in cui ha il debito, ma un buono studio individuale può rendere maggiormente efficace il recupero.

In questo caso, sarebbe necessario avere un’insegnante esterno che possa aiutare lo studente a focalizzarsi sui punti chiave svolti a lezione.

Essenzialmente, per questi motivi sarebbe idoneo:

  • 1. Focalizzare per memorizzare, ma anche per comprendere;
  • 2. Produrre uno schema riassuntivo sugli argomenti che appaiono più fragili da apprendere;
  • 3. Leggere gli schemi e i riassunti ad alta voce;
  • 4. Non darsi un tempo nello studio poiché ogni persona ha i suoi di tempi;
  • 5. Ripetere i concetti chiave più e più volte;
  • 6. Passare ad argomenti successivi;
  • 7. Produrre testi o comprensioni scritte per esercitarsi;
  • 8. Nella fase finale ripassare tutto a scaglioni.

Pertanto, costruirsi uno schema mentale è molto utile sia per l’alunno che per l’insegnante che, caso mai segue, individualmente il ragazzo/a.

Ecco, secondo questa progettualità di recupero, lo studente con debito/i potrebbe arrivare a risultati efficaci e fare “bella figura” davanti alla commissione di recupero. Tuttavia, la proposta vincente è si ai corsi formativi, ma anche un grande si allo studio individuale oppure accompagnato da un docente in rapporto 1/1.

Continua a leggere

Editoriali

La linguistica italiana: qual’è l’elemento che si oppone al suo cospetto?

Pubblicato

il

Clicca e condividi l'articolo
Tempo di lettura 2 minuti
image_pdfimage_print


La lingua italiana nel corso dei secoli ci ha lasciato poemi, trattati, racconti e storie che al giorno d’oggi necessitano di essere interpretati da esperti ( o non ) per poterli conoscere nella loro anima. Pensiamo alla Divina Commedia di Dante Alighieri nella versione volgare dell’italiano … ecco in questo caso per interpretarla dobbiamo “tradurla nell’italiano che si parla oggi”.

Gli studiosi, i docenti possono tradurla, ma chi non è erudito o non possiede le strumentazioni adatte (vocabolari, la conoscenza della storia della lingua italiana etc …) fa sicuramente più fatica a comprenderne il significato.
Tutto quello che la lingua italiana ci ha lasciato necessita di essere analizzato poiché come primo requisito per una giusta comprensione del poema è sapere quando è stato scritto? dove è stato scritto (in quale paese)? che influenze ha subito da parte di altre lingue? quale storia c’è dietro a quel racconto?

Parlare di interpretazione linguistica è banale, si necessità di una vera e propria traduzione, ad esempio dall’italiano volgare del 1200 a quello del 1800.
Ogni epoca ha delle caratteristiche linguistiche in termini diacronici che nessuno può modificare.

Come reca il titolo dell’articolo esiste un elemento che si oppone alla pura lingua italiana (così come la conosciamo oggi): il dialetto.

In molti paesi della nostra penisola il dialetto è conservato e tutt’ora oggi si mantiene vivo. Questo accade sia al nord, al centro che al sud Italia.

L’utilizzo del dialetto, considerato una lingua a tutti gli effetti, è molto in voga in Italia poiché molte persone vogliono mantenere le proprie origini e, non solo, anche la propria unicità/identità. Per tali motivi, assolutamente non banali, la lingua italiana si confronta anche con i vari dialetti.

La dialettofonia rappresenta il suono delle parole di un determinato registro linguistico tipico di una parte della nostra Italia. A volte il solo aspetto fonetico delle parole dialettali ci permette di riconoscere, ad esempio, da quale regione arriva quella tal persona.
Il dialetto “ricalca”, in senso figurato, uno stemma che ciascuno di noi porta nel suo DNA e che non può cancellare. Tuttavia, se una persona non parla il suo dialetto non vuol dire che non gli piaccia o che non sa esprimersi, ma semplicemente possono esserci delle abitudini pregresse che non gli consentono di utilizzare il dialetto.

Solitamente questo è il caso dei giovani d’oggi che preferiscono gli slang ai codici linguistici del proprio dialetto. Una caratteristica sicuramente positiva è mantenere vive le forme dialettali a favore di un loro utilizzo altrettanto diffuso.

Continua a leggere

Editoriali

Un anno senza Silvio Berlusconi

Pubblicato

il

Clicca e condividi l'articolo
Tempo di lettura < 1 minuto
image_pdfimage_print

Era il maggio del 2016, mancavano pochi giorni alla sfida tra Beppe Sala e Stefano Parisi candidati sindaco di Milano.
Io ero un “semplice” candidato nel municipio 8 ove ero residente.
Una serata elettorale come tante io, ovviamente, giacca e cravatta come “protocollo detta”.
Si avvicina un amico e mi fa: vuoi venire a salutare il presidente?
Io tentenno – non lo nascondo, mi vergognavo un po’ – lo seguo entro in una stanza.
Presenti lui, il presidente, Maria Stella Gelmini, il mio amico ed un altro paio di persone.
Presidente lui è Massimiliano Baglioni è uno dei candidati del nostro schieramento, dice il mio amico.
Il presidente mi stringe la mano mi saluta e con un sorriso smagliante mi chiede:
Cosa pensa di me?
Ed io, mai avuti peli sulla lingua, rispondo:
Presidente non mi è particolarmente simpatico, lo ammetto, ma apprezzo in Lei quella Follia che ci unisce in Erasmo da Rotterdam.
Sorride si gira verso la Gelmini e dice:
Mary segna il numero di questo ragazzo, mi piace perché dice ciò che pensa.
Si toglie lo stemma di Forza Italia che aveva sulla giacca e lo appende sulla mia.
Non lo nascondo: sono diventato rosso.

Oggi, ad un anno dalla morte di Silvio Berlusconi riapro il cassetto della mia memoria per ricordare questo italiano che ha fatto della Follia un impero economico, una fede calcistica, una galassia di telecomunicazioni.
Conservo con cura quella spilla simbolo di  un sogno, simbolo di libertà.
Grazie ancora, presidente, ma si ricordi: non mi è, ancora oggi, simpatico.

Continua a leggere

SEGUI SU Facebook

I più letti