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Editoriali

ACCA LARENTIA

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ACCA LARENTIA. SILENZI, OMISSIONI, DEPISTAGGI, MENZOGNE.
UN MISTERO ITALIANO DEGLI ANNI DI PIOMBO
DI ROBERTO RAGONE
Sembra un fatto secondario, nella grande girandola degli anni di piombo, quando ogni giorno il telegiornale ci srotolava davanti le immagini dell’ultimo morto targato BR. Ma non è così. Quella che è passata alla storia come la ‘Strage di Acca Larentia’ è stata il detonatore che ha fatto esplodere tutta una serie di accadimenti che forse soltanto ora, a distanza di quarant’anni, trovano una spiegazione, anche se parziale. Non sapremo mai tutto, non conosceremo mai la verità vera, al di là di quella processuale. Non sapremo mai davvero perché due ragazzi dell’MSI quella sera furono uccisi, seguiti, ad un paio d’ore di distanza, dalla morte di Stefano Recchioni, un giovane militante che nulla aveva a che fare con quella sezione, ma che si trovava lì con altri camerati per testimoniare della propria e altrui indignazione, rabbia, sgomento, dolore per la morte di due amici. Anche la morte di Stefano Recchioni è un punto oscuro, ed è destinato a rimanere tale, anche se la ricostruzione del fatto è ormai ufficiale e contraddittoria. Da una parte, come scrivono Cutonilli e Valentinotti nel loro libro "Acca Larentia, tutto quello che non è stato mai detto", il racconto di alcuni testimoni, che raccontano che l’allora capitano Edoardo Sivori sparò verso il gruppo dei ragazzi di destra in risposta ad alcuni colpi d’arma da fuoco indirizzati all’autista della sua auto: dopo tre colpi, la sua Beretta 34 d'ordinanza in calibro 9 corto si inceppò, e quindi chiese e ottenne dal suo sottoposto una Beretta 51, in cal. 9 parabellum, con la quale, dicono alcuni testimoni, sparò ad altezza d’uomo, centrando alla testa Stefano Recchioni. Un’altra versione, accreditata da Cossiga e riportata sempre da Cutonilli e Valentinotti,  racconta che, colpito da sassi lanciati dai militanti, Sivori inciampò, gli partirono due colpi ed uno di questi raggiunse Recchioni. Recchioni arrivò in coma all’ospedale S. Spirito, ed il referto medico di ingresso parla di “Ferita d’arma da fuoco con foro di  entrata bozza frontale SX. e ritenzione di proiettile regione occipito-parietale-temporale SX. Stato comatoso”. Stefano Recchioni cesserà di vivere due giorni dopo, e i suoi organi interni non potranno essere  donati perché troppo danneggiati. I medici parlano anche del reperimento, nel cranio del ragazzo, di un proiettile cal. 7,65, incompatibile quindi con le armi in dotazione ai Carabinieri. La versione agli atti della magistratura parla di colpi sparati dalle spalle dei CC, presumibilmente da un balcone, contro i militanti di destra, scagionando quindi del tutto il capitano Sivori: e su questa base è stato possibile all’avvocato Francesco Tallarico ottenere la somma di duecento milioni per la morte di Stefano Recchioni, in quanto considerato vittima di terrorismo. Una parte di questa somma è stata adoperata per acquistare all’asta un monumento funebre dedicato a Stefano, il resto è andato in beneficenza. La cosa strana è che qualcuno, evidentemente in un eccesso di zelo, ha ritenuto di mettere in tasca a Stefano alcune cartucce cal. 7,65. Stefano non aveva un’arma, non ne aveva mai posseduta una e non ne aveva quella sera. Nella sentenza istruttoria di proscioglimento, giudice Guido Catenacci, leggiamo: "Sentenza nel procedimento penale CONTRO (omissis) – Recchioni Stefano, nato a Roma il 26/01/58, residente Via Napoli 51 – DECEDUTO – IMPUTATI (omissis)  – RECCHIONI: reato di cui agli artt. 10 e 12 L. 14/10/19674 n. 497 per aver illegalmente detenuto e portato in luogo aperto al pubblico n. 5 cartucce calibro 32. In Roma il 7/1/1978." Passò quindi da vittima ad imputato di un reato mai commesso ed estinto per la sua morte. 
In queste righe vi proponiamo un ricordo di quei giorni e di quei morti, con le interviste di alcune delle persone che sono state più vicine agli avvenimenti. Parlare con tutti sarebbe stato impossibile, dato che tanti furono quelli coinvolti a vario titolo in quegli accadimenti  e in quelli successivi, anche se la tentazione è stata forte, e forse in un prosieguo riprenderemo questo argomento. In questo momento, comunque, non c'è l'intenzione di svolgere un'indagine profonda ed accurata. Altri ci hanno preceduto con il massimo impegno, e a loro va tutta la nostra stima: esiste un'ampia e diffusa letteratura in merito. In particolare, vogliamo citare Valerio Cutonilli e Luca Valentinotti, con il libro dal titolo: "Acca Larentia, tutto quello che non è stato mai detto", una fatica durata quattro anni, in cui gli estensori analizzano non solo l'eccidio e le sue vere o presunte ragioni d'essere, ma espongono con completezza tutto ciò che era il contorno degli anni di piombo in Italia. Peccato che il libro sia esaurito, ma confidiamo in una ristampa. Ancora oggi gli assassini di Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta non sono stati individuati. Sarebbe troppo lungo spiegare le ragioni di questa omissione, certamente non del tutto casuale, da parte degli inquirenti. Sta di fatto che due giovani vite sono state stroncate senza una motivazione reale. Il tutto è parso quasi un gioco, quasi un videogioco, se non fosse che i videogiochi sono apparsi molto più tardi. Un'esercitazione militare, s'è detto, una prova, una sorta di iniziazione al sangue, una dimostrazione che quando c'era da uccidere, anche i cinque autori dell'agguato – tanti pare che fossero – erano capaci di farlo, vigliaccamente, proditoriamente, a sangue freddo, su bersagli inermi e ignari, abbattendo ogni barriera etica e morale innata in ciascuno di noi. Il battesimo del fuoco. Franco Bigonzetti era un bravo studente, e per soddisfare il suo desiderio di eleganza, andava a lavorare in una ditta di manutenzione stradale, per non chiedere soldi alla famiglia. Quella sera, come sempre, indossava un impermeabile bianco che, in quella penombra delle 18,20 di una sera di gennaio, ha facilitato il compito al suo assassino, rendendolo un bersaglio facile. La famiglia di Francesco Ciavatta era emigrata dal Molise a Roma, dove il padre aveva trovato lavoro come portiere di un palazzo, allo scopo di offrire un futuro migliore del suo a Francesco, iscritto all'Università. Era fiero di quell'unico figlio, che avrebbe portato in casa la prima laurea che avessero mai visto in famiglia. Il padre di Ciavatta si suicidò dopo qualche giorno, distrutto dal dolore, in preda ad atroci sofferenze per avere ingerito il contenuto di una bottiglia di acido muriatico. 
Sono le 18 e 23 minuti del 7 di gennaio 1978, in via Acca Larentia, a Roma. Al numero 28 c'è la sezione del MSI del quartiere Tuscolano – prevalentemente rosso – soggetta ad attacchi periodici da parte dei compagni. Attacchi che finora hanno comportato botte, manganellate, nulla di serio. In sezione sono in cinque: Franco Bigonzetti, Francesco Ciavatta, Maurizio Lupini, Vincenzo Segneri, Giuseppe D'Audino. Hanno appuntamento in Via Ottaviano, quartiere Prati, con altri camerati, per un volantinaggio. Si occupano poco di politica, molto di politica sociale, vogliono distaccarsi dallo stereotipo del neofascista sterile.    Il locale affaccia su di una piazzetta dove le auto non arrivano. Di fronte ci sono alcune colonnine in pietra, a fianco una scalinata che porta alla strada. I ragazzi decidono di raggiungere gli altri a via Ottaviano, con la A 112 di Pino D'Audino. Devono chiudere il locale. Escono prima Ciavatta e Bigonzetti, seguiti da Segneri, mentre Lupini e D'audino s'attardano all'interno per staccare la corrente. Improvvisamente uno sparo: da venti metri di distanza una pallottola centra Franco Bigonzetti all'occhio destro, uccidendolo sul colpo.  Racconterà Maurizio Lupini, che gli era dietro. "Ho visto Franco alzarsi di un metro da terra, il suo impemeabile bianco aprirsi come le ali di un uccello, ricadere come al rallentatore." Quando cade, Franco Bigonzetti è già morto, e il suo sangue scorre sotto la porta blindata che i tre superstiti hanno chiuso prontamente. Lupini ha fatto in tempo a vedere una faccia, e ne ricava un identikit con la polizia, ma stranamente la fisionomia non corrisponde a quello che Lupini ha dettato. Intanto Francesco Ciavatta, dopo aver cercato di soccorrere l'amico, fugge verso la scalinata, ma è troppo tardi. Viene raggiunto da numerosi colpi sparati alla schiena, e rimane per terra. Segneri è stato ferito ad un braccio, la pallottola è entrata e uscita, si è salvato all'interno del locale. Lupini e D'Audino sono illesi. Fossero usciti tutti insieme, non ci sarebbero stati supersiti. I ragazzi nel buio e nel più assoluto silenzio si buttano a terra. Sentono qualcuno bestemmiare, fuori, e altri colpi sparati contro il corpo di Bigonzetti già morto. Il sangue filtra sotto la porta sempre più copioso. Dopo un'eternità ritengono di poter uscire, aprono, sirene, Polizia, Carabinieri, luci blu, attorno al corpo di Bigonzetti si è radunata una folla. Lupini non sa che è già morto, lo prende, riesce a trascinarlo al centro della piazzetta. I suoi indumenti sono pieni di sangue, ma dovrà tenerli addosso fino al mattino dopo, dopo il lungo interrogatorio da parte della polizia. "L'odore del sangue è terribile" dirà poi "ne avevo fin sotto le unghie." Una signora si affaccia e gli dice che c'è un altro ragazzo, sulla scalinata. Maurizio va, trova Francesco Ciavatta sulla scalinata, ferito, che si lamenta. Lupini va verso di lui, lo sorregge. "Mi brucia tutto dentro" dice Francesco, saranno le sue ultime parole. Lupini starà con lui fino all'arrivo dell'ambulanza, dopo aver tentato invano di trovare un'auto disposta al trasporto. L'ambulanza arriverà dopo mezz'ora, Francesco morirà durante il trasporto all'ospedale. 
FRANCESCO TALLARICO è l'avvocato che ha curato gli interessi della famiglia Recchioni, riuscendo ad ottenere un risarcimento per la morte di Stefano. L'ho incontrato nel suo studio, nel centro di Roma, m'ha raccontato quello che sapeva, mi ha pregato di avvisarlo della pubblicazione di questo articolo. Questo è il resoconto della nostra conversazione.  
 Successe, che anni dopo ci contattò la mamma di Stefano Recchioni, me e mio padre, anche lui avvocato, e ci disse: “Guarda, ci hanno respinto una richiesta al Ministero degli Interni per avere l’indennizzo per le vittime del terrorismo, per quanto riguarda nostro figlio.” Ci portano questo provvedimento di rigetto dell’istanza, e decidiamo di fare ricorso al TAR. Prendiamo la procura scritta della signora, e io mi metto a ricercare. A cercare di tirare le fila di ciò che sta dicendo. Quindi risalgo al fascicolo penale, e chiedo di poter esaminare gli atti del processo. Mi dicono di ritornare di lì a un po’, perché dovevano prendere gli atti dall’archivio. 
Io so che il capitano Sivori non è stato processato, è stato prosciolto in istruttoria.
Esatto.
Erano quelli gli atti che lei cercava?
Esatto. Che succede, ritorno al Tribunale Penale, mi trovo davanti una cosa alta così di faldoni, tutti processi di Prima Linea, …… Mi guardo l’esame autoptico della salma. E quindi ho le fotografie del ragazzo, dell’autopsia. Non sono un criminologo, né esperto di armi, né roba del genere. Personalmente pratico il tiro con l’arco giapponese da trentacinque anni, o spada, armi bianche, e con le armi da fuoco… proprio un mondo che non mi interessa. Però, vedo le fotografie, e vedo che il ragazzo presentava un forellino di entrata sulla fronte, e la testa era spaccata. Quindi, da profano io ritengo che il proiettile sia entrato dalla fronte e sia uscito dalla testa. Dopodiché vedo che c’era una sentenza istruttoria, perché eravamo col vecchio rito che diceva che il giudice istruttore faceva le indagini e poi concludeva. Nella sentenza che io ho conservata nel faldone, c’era scritto più o meno quello che le sto per dire. Allora, l’episodio, secondo i CC, si è svolto in questo modo: Stefano Recchioni non fu colpito dai Carabinieri che sparavano contro i terroristi; perché lei consideri che quella sera ci fu un gruppo di persone fantomatico… Allora questa è Acca Larentia, qui c’erano i Carabinieri con i blindati. A un certo punto arriva un gruppo di gente, tira fuori le mitragliette, comincia a sparare contro i Carabinieri, che si rifugiano dietro ai blindati. Questi rimettono le armi a posto e scompaiono, e i Carabinieri rispondono al fuoco. La sentenza dice: Stefano Recchioni fu colpito da dietro, cioè da quelli che sparavano contro i Carabinieri, colpito dietro la testa. Quindi, dice testualmente la sentenza, non fu certo il capitano Sivori a ucciderlo, ma furono quelli che sparavano contro i Carabinieri. Questo dice la sentenza. Allora, siccome nelle motivazioni del provvedimento del Ministero degli Interni di rigetto dell’istanza di concessione di indennizzo per le vittime del terrorismo è scritto testualmente: “Si nega in quanto il ragazzo è stato coinvolto negli episodi”, no? Quindi non è una vittima, ma è un complice, come dire, un compartecipe, io prendo questa sentenza, faccio un bel ricorso al TAR e dico: Signori, dalla sentenza emerge che lui fu ucciso dai terroristi che sparavano contro i Carabinieri, il povero ragazzo stava lì, perché gli misero, insomma gli trovarono dei bossoli addosso, dei bossoli, non un’arma, per dire che anche lui.. ma insomma… non aveva un’arma da fuoco. Il ragazzo era disarmato. Ok, faccio ricorso al TAR, e viene accolto. Sulla base incontrovertibile del fatto che lui era stato colpito da dietro, da quelli che sparavano contro i Carabinieri, quindi, in una vicenda terroristica, è stato ucciso dai terroristi. Questa è la…
Questa è l’ufficialità.
La famiglia ha sempre avuto la convinzione che il ragazzo sia stato ucciso dai Carabinieri. 
IVO CAMICIOLI, il dottor Ivo Camicioli, è responsabile infermieristico del dipartimento specialità, all'ospedale S. Giovanni Addolorata, a Roma. L'ho incontrato nel suo studio.
 Quel giorno tu sei andato in via Acca Larentia
Sì, io ero il segretario giovanile, e quindi dovevo essere presente in associazione. Non ero presente al momento dell’attentato. Ero presente fino a poco prima, perchè era il giorno in cui stavamo recandoci a Prati per fare un volantinaggio. C'erano due eventi, la chiusura della sezione di Ottaviano, che era stata chiusa con provvedimento della magistratura, e poi c’era il concerto degli ‘Amici del vento’, se non ricordo male. Quindi eravamo stati convocati per questo volantinaggio a via Ottaviano il pomeriggio del sabato 7 gennaio. E quindi ci siamo visti in sezione per poi a gruppi andare, chi con i motorini, chi con la macchina, come facevamo di solito. Quasi tutti avevamo un motorino. Soltanto uno più grandicello, Pino D’Audino, aveva la macchina, era uno dei fortunati che aveva una A112, e siccome lui era in ritardo, un gruppetto di noi ha incominciato ad andar via, verso le quattro e mezza, cinque, e qualcuno era rimasto per raggiungerci poi appena arrivava quello con la macchina. Quindi quelli che sono stati oggetto dell’attentato erano quelli dell’ultimo gruppo, i cinque che erano rimasti in attesa di venire con la macchina. Ciavatta, Bigonzetti, Segneri, Lupini, D’Audino, i cinque che erano rimasti per ultimi nella sezione. All’epoca io ero molto coinvolto nella sezione, perché ero segretario giovanile, e quindi ero in quel momento l’organo più alto, perché il segretario di sezione, un certo Attilio Russo… che poi è diventato frate… tra l’altro è quello che ha celebrato l’altr’anno la messa della ricorrenza, il 7 gennaio, era stato denunciato per un agguato che c’era stato pochi mesi prima, e quindi la sezione era rimasta senza segretario. Questo ha fatto in modo che io dovessi prendere un po’ in mano le redini della situazione. Tra l’altro venivamo da un periodo in cui c’era stato un cambio generazionale, perché i vecchi attivisti erano andati via, e c’è stato un periodo, nel ’77, ero rimasto quasi da solo, cioè il pomeriggio andavo lì, aprivo, stavo un’oretta e poi andavo via. C’era qualcuno dei vecchi che ancora frequentava la sezione, è stato veramente un attimo di stasi incredibile, però l’affetto per la sezione, tutto quello che è, insomma, ci ha portato a tener duro. Dopo un po’ hanno incominciato a venire dei fuorusciti da Colle Oppio, qualcuno che si era allontanato per motivi che adesso non so, e alcuni di via Noto, che, un po’ per dei dissapori che c’erano all’interno con il segretario, un po’ perché se non ricordo male c’era stato pure un attentato alla sezione, e quindi era mezza inagibile… non ricordo bene ma mi pare che il contesto fosse quello. Per cui alcuni di loro avevano incominciato a frequentare anche la nostra sezione, e quindi avevamo ricominciato a fare un po’ d’attività. Proprio mentre ci stavamo riorganizzando, il 12 dicembre del ’77, ci hanno fatto un bell’agguato. Era di mattina, stavamo in sezione, eravamo cinque o sei persone, fra cui anche alcuni ragazzi di una nostra dipendenza, Villa Lais, al Tuscolano, proprio vicino alla nostra sezione. Questa villa era anche il posto dove ci vedevamo con persone che non facevano parte degli attivisti, ma sempre gente dell’ambiente nostro. Tra l’altro in quella via abitava anche Franco Ciavatta.  C’era un bar dove ci incontravamo. Quella mattina casualmente stavano lì da noi. A un certo punto s’è sentito quel silenzio spettrale che precede l’azione, che noi, allenati come eravamo, per un attimo, ci siamo chiesti cosa stesse succedendo.
Perché ogni tanto vi attaccavano, per avere una porta blindata…
Guarda, la porta blindata era una salvezza. Parto dall’attacco precedente, quello riferito ad Attilio Russo. Quello è avvenuto più o meno nel marzo del ’77. Sul libro ‘Attivisti’ queste date sono ben individuabili perché sono riportate con una cronologia esatta. Sono uscito dalla sezione per un difetto alla serratura, eravamo in quattro o cinque, c’era dentro pure il segretario, e sono andato all’autosalone per farmi prestare un paio di pinze. Attraverso il piazzaletto davanti alla sezione, e appena arrivo alle colonnine, stavo per girare per andare all’autosalone, a un certi punto vedo – per l’abitudine ad essere sempre in allerta – un gruppetto di dieci-dodici persone che si avvicinavano, e subito ho inquadrato che c‘era qualcosa che non andava. In una frazione di secondo loro si sono accorti che li avevo visti. Ho incominciato a correre verso la sezione, loro hanno incominciato a correre verso di me, hanno incominciato a sparare nella mia direzione, e hanno rotto la vetrina del negozio accanto alla sezione. Un proiettile è rimbalzato, e ancora c’è il buco sull’inferriata, ad altezza d’uomo, ovviamente. Per fortuna non mi hanno preso, sono riuscito ad entrare e a dare l’allarme, per cui siamo saltati dalla finestra posteriore, perché non avevamo come difenderci, e un paio di persone all’interno sono riuscite a respingere l’attacco, anche se i compagni sono riusciti a lanciare un paio di molotov, e poi sono scappati sparando all’impazzata, infatti sono stati trovati moltissimi bossoli.
Ma in queste occasioni intervenivano i carabinieri?
Sì ma sempre a babbo morto. Tant’è vero che dopo che siamo usciti dalla parte di dietro, dopo aver aspettato un tempo congruo per sincerarci che tutto era a posto, nel frattempo, con calma, erano arrivate un paio di volanti della polizia, che ci hanno interrogato. Però, sezione danneggiata, le molotov  per fortuna non sono riusciti a lanciarle all’interno, altrimenti avrebbero devastato tutto. Parliamo di marzo del 1977. Ci fu poi un altro tentativo di assalto a maggio del ’77, nell’ambito del quale sono stato anche arrestato io e denunciato il segretario della sezione. Parliamo quindi di maggio del ’77. Il fatto importante è che la tipologia di agguato di quel giorno – per questo quando parlo dei fatti di Acca Larentia parto sempre da quell’episodio – è stato un episodio anomalo, perché normalmente l’assalto avveniva durante il passaggio del corteo, o il gruppo di compagni rumorosi, o gli slogan, e ci facevano l’assalto. Poi c’erano gli scontri, si vinceva o si perdeva, ma era una cosa molto rumorosa. In quell’occasione invece sono venuti stile commando, proprio, cioè come se fosse una specie di anticipazione di quello che poi è successo il 7 gennaio del ’78. Perché anche in quel caso loro potevano benissimo appostarsi, aspettare che uscissimo, e la strage che hanno fatto l’avrebbero anticipata di un po’ di mesi. Invece questo non è avvenuto soltanto perché casualmente si sono incrociati con me. Erano in pochi e in assoluto silenzio, quindi erano lì per far male. Normalmente gli assalti erano di cento, duecento persone. Arriviamo quindi a dicembre. Mentre eravamo chiusi all’interno, sentiamo che c’era qualcosa che non andava, e improvvisamente incominciamo a sentire colpi di mazza contro la porta blindata. Ormai eravamo belli allenati, siamo di nuovo usciti dalla parte di dietro e mentre uscivamo abbiamo visto che la porta stava cedendo. Questa volta sono riusciti a rompere la porta, entrare nella sezione e buttare le molotov, quindi hanno annerito tutto e danneggiato la sezione.
Questo a dicembre del ’77.
Il 12 dicembre del ’77. Poi c’è stato un altro episodio particolare il 28 dicembre, sempre dello stesso anno, quindi parliamo di pochi giorni prima della strage. Ci chiama la direzione per dirci che avevano ammazzato Fabio Pistolesi, al Portuense. Ci dissero che avevano ammazzato un camerata, quindi tam tam fra tutte le sezioni e quel giorno, di pomeriggio,  partimmo dalla sezione per andare a vedere dov’era successo. Io stavo sul motorino dietro a Francesco Ciavatta, con cui c’era un rapporto di amicizia molto stretto, e quindi spesso stavamo insieme. Siamo andati sotto una pioggia scrosciante, e siamo arrivati là che eravamo zuppi dalla testa ai piedi. Ci siamo riuniti a Largo della Loggia, dov’era successo il fatto, c’è stato un po’ di parapiglia.
Largo?
La Loggia, al Portuense. Là c’è stata un po’ di tensione, ora non ricordo bene se  soltanto con la polizia, perché non ci s’è capito niente, siamo arrivato con quella pioggia, con quella confusione, poi i compagni erano ancora presenti, dei gruppi di compagni, con quello che era successo. Anche quello è stato un agguato ben determinato, fatto proprio per ammazzarlo, non un incontro casuale. Poi siamo rientrati in sezione, era il 28 dicembre quindi stavamo sotto le feste di Natale. Dato che di solito sotto Natale l’attività politica subiva uno stop, ci siamo organizzati per ripulire la sezione. Abbiamo procurato un bidone di tinta gialla, abbiamo riverniciato tutto, e nei giorni precedenti, non so se il 5 o il 6 di gennaio, abbiamo anche organizzato una festa con tutti gli amici della villa, per inaugurare la  ripulitura della sezione. E poi ci si preparava per la riapertura delle scuole. Non ricordo se a quell’epoca la Befana già non c’era più come festa. E quindi credo che le scuole avessero già riaperto ai primi di gennaio. Tant’è vero che il 7, che era sabato, le scuole erano aperte. Noi la mattina ci siamo visti in sezione, come al solito, quindi il 7 gennaio del ’78. L’altro episodio era avvenuto il 28 dicembre del ’77. Risistemata la sezione, ripartiamo con l’attività politica. Era un periodo di tensione tremenda, ormai le armi impazzavano, gli scontri non avvenivano più con i bastoni o altro, incominciava il periodo della Brigate Rosse… si rischiava tanto, ecco. La mattina alle 7 ci fu un po’ di tensione con quelli del Liceo XXIII, con cui ci eravamo fronteggiati un po’, in una giornata un po’ grigia, un grigiore che non ci piaceva. Ci siamo visti nel pomeriggio, e come sempre abbiamo parcheggiato i motorini sul piazzale, e poi ad una certa ora abbiamo deciso di muoverci, di andare avanti, poi quando fosse arrivato Pino con la macchina ci avrebbero raggiunti. Siamo andati via, chi con la vespa, chi col motorino, penso intorno alle 4 e mezza, le cinque. Io ero sul motorino di Roberto, una delle persone che frequentavano la sezione all’epoca, poi c’erano altri di cui non ricordo neanche i cognomi. Ho detto Alberto Lupini, perchè il fratello, Maurizio, è uno di quelli che sono rimasti nel locale. Adesso ti dico quello che è successo a me, poi ti racconto cos'è successo a quelli che sono rimasti. Per ciò che riguarda me, siamo partiti con il motorino, siamo arrivati a Prati, e lì abbiamo fatto il volantinaggio. Poi ad un certo punto, non c'erano i cellulari all'epoca, e non sapevamo quello che succedeva. Con il motorino siamo rientrati, potevano essere le sette, sette e mezzo, più o meno circa mezz’ora dopo l’agguato. Tornando da via Appia, abbiamo girato da via delle Cave, e appena abbiamo girato abbiamo visto una marea di gente, lampeggianti blu, e abbiamo capito che era successo qualcosa. Temendo un assalto dei compagni, cosa all’ordine del giorno, e di poter incrociare i compagni che scappavano, e quindi, siccome ci conoscevano, ci avrebbero aggrediti, per prudenza abbiamo fatto il giro di dietro e siamo andati a Villa Lais, per sentire se qualcuno di quelli della comitiva sapeva qualcosa. Come arriviamo là incontriamo uno che si chiamava Marco, un altro che stava lì, e ci hanno detto, guarda che c’è stato un agguato, hanno sparato, e, lì non s’era ancora capito, forse hanno ammazzato una persona. Allora da lì siamo ripartiti con il motorino e siamo andati subito sotto la… che poi ci siamo divisi, perché Roberto è andato verso la porta della sezione, dove poi ha assistito al tentativo di trasporto di Bigonzetti che era caduto davanti alla porta della sezione. Loro non ci sono riusciti e così l’hanno portato con l’ambulanza in ospedale. Anche se poi credo che sia arrivato già morto. Invece io, come sono arrivato lì, c’era mio fratello che mi cercava, io abitavo proprio lì sopra, perché avevano sentito gli spari, e quindi mi ha detto di tornare subito a casa perché i miei erano preoccupati. Quindi in quel momento ho avuto un paio d’ore di black-out perché ho dovuto tornare a casa. Qui inizia invece la storia di quello che è successo durante la nostra assenza. I cinque che dovevano andar fuori, Franco Ciavatta ha scritto un biglietto: “Aspettami domattina siamo a Prati”, quello di cui su tutti i giornali c’è ancora la fotografia. Aspettami domattina, e l’ha attaccato alla porta. Era per Marco, uno di quelli di Villa Lais che non era ancora rientrato. Si sono preparati per uscire, quindi quattro hanno aperto la porta e sono usciti. Il quinto, Maurizio, che era all'interno, è andato in fondo alla sala a chiudere il contatore della luce, che fortunatamente stava proprio in fondo. Questa operazione probabilmente ha salvato la vita agli altri, perchè altrimenti sarebbero morti tutti. Mentre lui stava chiudendo la luce, sono iniziati gli spari. Erano le 18,23. Il commando era appostato nei pressi delle colonnine, è avanzato e ha incominciato a sparare con pistole e mitraglietta Skorpion. Questa mitraglietta Skorpion ha una storia, poi te la racconto. Il primo ad essere colpito è stato Bigonzetti, l'hanno colpito alla testa ed è morto subito. Colpito ad un occhio, è caduto sullo stipite della porta. La porta non era stata ancora chiusa, e gli altri sono rientrati dentro. Segneri è stato colpito ad un braccio. D'Audino non è stato colpito, è rientrato subito, e Maurizio Lupini non ha fatto in tempo ad uscire perchè era quello che doveva spegnere il contatore della luce. Nel frattempo Franco Ciavatta, che era quello più avanzato, non colpito, è scappato per le scale, ed è stato colpito mentre saliva le scale, tant'è vero che è riuscito ad arrivare fino dall'altra parte e s'è accasciato nel punto dove tuttora c'è la lapide, dove io personalmente ho attaccato quella di plastica, che ancora sta lì da quel giorno. Fatta da me e ripresa da un manifesto di Europa Civiltà, non so se ti ricordi, il Movimento per la Civiltà. C'era questo manifesto che io conservavo a casa, per cui ho preso questa frase. Invece le frasi degli altri sono state ideate da un altro dei nostri. Quindi a quel punto loro chiudono la porta, si buttano per terra, perchè non sapevano esattamente cosa stesse succedendo, e rimangono in totale silenzio. Sentono fuori quelli che smadonnavano perchè non erano riusciti a completare l'azione, mi ricordo bene che nello smadonnare hanno sentito altri colpi che probabilmente sono stati sparati su Bigonzetti che era rimasto steso per terra, e poi sono scappati. Sono rimasti fermi immobili fino a quando hanno sentito che la situazione consentiva di poter aprire. Nel frattempo hanno visto che il sangue era tale e tanto, come dimostrano le foto dell'epoca, che era filtrato da sotto la porta, e a quel punto sono usciti fuori in preda al panico. C'era polizia, ambulanze, non sapevano cosa fare, non riuscivano a trasportare Bigonzetti, quello è il momento in cui siamo tornati noi con il motorino. Poi siamo andati sulle scale, abbiamo visto che c'era Franco Ciavatta ancora in vita, ha detto le sue ultime parole, non ricordo con chi di loro ha scambiato le ultime battute prima d'essere portato in ospedale, dove poi è morto per emorragia interna. Ci sono i giornali dove si vede Ciavatta all'arrivo, con Segneri che urla con la ferita al braccio in barella, e gli altri due, Bigonzetti col torace tutto sporco di sangue. Tornando all'agguato, chi erano questi che hanno fatto l'agguato, perchè poi sono iniziate le indagini, e s'è capito subito che non c'era nè la voglia nè la possibilità di arrivare ai colpevoli di questa strage. La rivendicazione è stata fatta dai Nuclei Armati per il Contropotere Territoriale. Ora, la cosa curiosa è quello che succede dopo, perchè dopo il sequestro Moro cala il silenzio sulla storia di Acca Larentia, sono due mesi di scarto, perchè Moro è stato rapito il sedici marzo del '78. Dopodichè, improvvisamente, nell'86, mi sembra, arrestano una persona. Arresti per la strage di Acca Larentia, Mario Scrocca. Tra l'altro infermiere del Santo Spirito, è stato arrestato. Un'altra è ricercata, Daniela Dolci, che è scappata in Sudamerica, ricercata per la strage di Acca Larentia. Questo viene portato in carcere, prima di fare l'interrogatorio, s'impicca. Uno strano suicidio. Quindi cala il silenzio pure lì. Poi però, andando a cose che avevo già letto sui giornali, si scopre che la pentita, che aveva all'epoca quindici anni, giovanissima, da' tutta una serie di riferimenti precisissimi, sui nomi, sulle riunioni, l'interrogatorio di questa ragazza è agli atti. Insomma, luoghi, circostanze, persone, riunioni fatte in un determinato posto, tutto coincide. Ma l'elemento sconcertante è che lei dice, questi del gruppo terrorista che ha fatto l'agguato era solito addestrarsi con le armi alle Grotte della Caffarella, e ha continuato a farlo anche dopo l'agguato. Tra l'altro le Grotte della Caddarella stanno dietro casa mia, vicino a Piazza Venezia. Grotte, che io tra l'altro conosco perchè ci andavamo a fare delle escursioni, con i gruppi di scout. Vanno lì  e trovano i bossoli della mitraglietta Skorpion, quindi tutto coincide. Però la cosa sconcertante è che poi arrestano, un po' di tempo dopo, dei brigatisti della seconda generazione, uno dei quali era in possesso della mitraglietta Skorpion che avevano utilizzato per uccidere due persone: Ruffilli, che era un magistrato, e poi Ezio Tarantelli. Cioè due omicidi fatti con la stessa mitraglietta. Poi hanno scoperto che quella che ha ucciso Moro era la gemella di una coppia di mitragliette, tutte passate per le mani delle Brigate Rosse, che è stata usata nel sequestro Moro. Allora sono andati a risalire, hanno visto come si era arrivati a questa mitraglietta. La mitraglietta, lo dice uno che per un certo tempo ha fatto parte di un gruppo di fuoco, la portava un certo Marco De Maggi. Dice che questo Marco De Maggi portava la mitraglietta alle esercitazioni, e poi se la riportava, quindi era in suo possesso. Dove abitava Marco De Maggi? In via Acca Larentia. Che noi conoscevamo benissimo, erano tre fratelli. Uno si sapeva che faceva parte di un collettivo, ma quello più piccolo era misterioso, non si sapeva mai… taciturno… questo che portava la mitraglietta, insomma, entrava, usciva, non sapevi mai cosa… era impercettibile, sembrava un ragazzo innocuo, invece poi era il più pericoloso. Erano comunque ragazzi impegnati con l'estrema sinistra, e quindi i conti tornano perfettamente, perchè tutto il filo logico porta poi a questa mitraglietta che era stata acquistata da Jimmy Fontana, venduta ad un commissario di polizia del Tuscolano, dottor Antonio Cetroli, che poi non si capisce bene come questa mitraglietta sia passata nelle mani di De Maggi, poi nel frattempo Cetroli è morto, come nessuno ha mai chiarito come nessuno ha mai chiesto a De Maggi come avesse avuto questa mitraglietta. Gli ultimi che l'hanno avuta hanno avuto l'ergastolo, perchè tra l'altro uno di quelli che l'ha usata per uccidere Ruffilli, manco a farlo apposta, è un dipendente del S. Giovanni, un infermiere del S. Giovanni, tale Franco Grilli. E' l'ultimo che l'ha usata, dopodichè hanno fatto il blitz nel covo in una località di mare qua vicino Roma, mi pare Passoscuro, qualcosa del genere. Mettendo insieme tutti i tasselli è uscita fuori una storia che ha dell'incredibile. Le indagini poi non hanno portato a niente, la cosa è finita così. Cosa è successo poi dopo l'assalto alla sezione, immediatamente c'è stato un radunarsi di tutti i camerati da varie parti di Roma. La sera stessa sono iniziati degli incidenti, proprio sotto casa mia. Non ho potuto vedere molto, perchè stavo ancora a casa, ero risalito per tranquillizzare i miei genitori, avevo allora diciassette anni. Abitavo proprio nella piazzetta dove hanno ucciso Stefano Recchioni, perciò dalla finestra ho potuto vedere cosa stava succedendo. A sinistra della piazza, cioè della sezione, c'erano tutti i camerati, dall'altra parte i blindati della polizia e dei Carabinieri. Ad un certo punto è iniziato lo sparo dei lacrimogeni, non si riusciva più a veder niente, la piazza era completamente invasa dal fumo, e sono dovuto rientrare, e quando s'è diradato un po' sono riuscito a riaffacciarmi, ho visto un capannello di persone accanto al palo dove nel frattempo era stato colpito Stefano Recchioni. Di più non posso dire, questo è successo un paio d'ore dopo l'agguato. Stefano poi è morto nei giorni successivi, mi sembra il giorno 10, se non ricordo male. Un particolare: perchè l'agguato proprio da noi. Devo premettere che noi rappresentavamo un'isoletta nera in mezzo a un mare rosso, da Cinecittà fino all'Arco di Travertino in poi era tutta zona rossa. La zona dell'Alberone, era completamente rossa, c'era un comitato di quartiere comunista, insomma sezioni di vario genere. Nella zona del Quarto Miglio c'erano collettivi di compagni, e così più andavi in periferia e più… Poi eravamo circondati da scuole rosse, il Liceo Ventitreesimo, il Vallauri, l'Augusto, insomma tutte le scuole, l'Augusto un po' si salvava perchè c'era via Noto vicino, però, mentre via Noto e Piazza Tuscolo erano in una zona leggermente più protetta, noi eravamo proprio un avamposto. La sezione di Cinecittà già non esisteva più, perchè era stata bruciata qualche anno prima, a Torpignattara era stata bruciata, e quindi eravamo rimasti solamente noi. Eravamo anche odiati perchè facevamo, o meglio, tentavamo di fare una politica sociale, incentrata più sulle tematiche del verde, del quartiere, che poi abbiamo sviluppato ancora meglio dopo l'attentato. Insomma, eravamo un gruppo che dava fastidio. Un gruppo di gente giovane, che sapeva come muoversi, e in espansione, perchè tenevamo sempre molto la zona sotto controllo. Quindi questo è uno dei motivi. Il secondo motivo è che c'erano sicuramente dei gruppi estremisti che si dovevano 'allenare' per azioni più importanti. Poi la cosa più curiosa è che l'agguato è avvenuto di sabato, quando noi normalmente non eravamo aperti. Potevamo essere aperti di mattina, perchè c'erano le scuole aperte, ma il sabato pomeriggio e la domenica generalmente ci vedevamo altrove. Ognuno stava per i fatti propri, ma noi che eravamo amici e ci frequentavamo, o stavamo a Villa Lais, o andavamo da qualche altra parte. Quel sabato ci siamo visti in maniera inconsueta perchè c'era questa storia del volantinaggio, quindi è evidente che il gruppo di fuoco era informato da qualcuno, cioè sapevano bene cosa facevamo, i nostri movimenti erano controllati. Neanche posso pensare che l'abbiano organizzato lì per lì, perchè una cosa del genere è micidiale. Quindi di certo devono avere avuto delle informazioni. Sicuramente già erano pronti, e anche l'altro agguato, quello del marzo era sicuramente finalizzato a questo. In ogni caso devono avere avuto da qualcuno la certezza che noi quel giorno ci saremmo visti con determinate modalità. E loro, se avessero aspettato due minuti in più che chiudevamo la porta, avremmo avuto cinque morti, data l'efficacia della mitraglietta. Poi la domenica – ritorniamo al 7 sera, poi lì è stato messo il classico gagliardetto con i ceri, come da foto che si trovano sui giornali – la mattina ci rivediamo. A un certo punto nasce un corteo spontaneo per andare ad assaltare la sede dei compagni all'Alberone. Quindi si parte su via Appia, alcune centinaia di persone, rumorosamente si arriva lì. La polizia, devo dire la verità, si defila un po'. L'improvvisazione della cosa ha fatto sì che, sfondata la porta, non c'avevamo niente. C'era qualcuno che con l'accendino cercava di dar fuoco alle cartacce, ai giornali. Tutto s'è risolto in niente. C'è stato solo un gruppo che ad un certo punto s'è staccato, hanno individuato un presunto compagno che stava dietro al mercato dell'Alberone, pare che questo sia stato accoltellato, sicuramente anzi è stato accoltellato, un certo Aldo Codami, una cosa del genere. Non so poi come sia andata a finire. Invece l'area fu preparata bene per il martedì 10. Non so come, s'era capito che martedì ci sarebbe stata la guerra civile. Il tam tam era tale che l'organizzazione… ci siamo visti in sezione il pomeriggio, e come è calato il buio è successo veramente… Tu immagina, le immagini che si vedono di Beirut, Kabul… Silenzio assoluto, le strade deserte, macchine non ce n'erano. Lampeggianti della polizia, spari un po' qua, un po' là, raffiche, di tutto. Botti dei lacrimogeni, un vero e proprio teatro di guerra. Che è culminato poi con… Che poi quelli più esperti hanno fatto ciò che dovevano fare e sono scappati. Gli attivisti un po' più inesperti sono incappati in una maxiretata di quasi settanta persone. Non ricordo bene se è stato in quell'occasione che la camionetta della polizia è salita sopra, proprio dentro al piazzaletto, scavallando le colonnine, ha sfondato la porta della sezione. Non ricordo se in questa occasione o in un'altro degli scontri che ci sono stati in quei giorni, ma è stata veramente brutta brutta brutta. Tanti arresti e per fortuna nessuno ci ha rimesso la pelle. Dopo quell'episodio ricordo che c'è stato un afflusso di attivisti da molte zone, e la sezione ha incominciato ad animarsi, ogni giorno cinquanta, cento persone, mentre prima eravamo in quattro o cinque. Quindi avevamo tantissima gente che veniva lì a darci una mano, e abbiamo ricominciato a fare delle cose che già facevamo prima nel sociale. Le abbiamo incrementate con cineforum, giornali parlati… Il culmine è stato quando abbiamo fatto l'occupazione del vivaio di Villa Lais, che era un vivaio abbandonato, che poi a forza di battaglie è stato trasformato in verde pubblico. Il gruppo è cresciuto tantissimo anche dal punto di vista qualitativo, abbiamo fatto il primo giornale della sezione, che si chiamava "Il Quartiere", che poi dopo ha assunto un altro nome, perchè abbiamo anche migliorato la parte grafica… Abbiamo incominciato a creare il gruppo escursionistico, facevamo delle uscite quasi tutte le domeniche.
Quindi la vostra attività non era eminentemente politica, contro gli avversari politici, era un'attività di tipo sociale.
Sì, molto. Noi poi, essendo tutta gente della zona, anche abbastanza popolare all'epoca, ora lo è un po' meno, è diventata un po' più… perchè le case costano l'ira di Dio, quindi la gente è cambiata, ma all'epoca il tessuto sociale era fatto da operai, gente semplice, studenti. Eravamo diventati una bella attrazione, e quindi davamo molto fastidio. Poi, mentre noi lavoravamo su questo fronte, nel frattempo poi c'è tutta la storia che porta alla nascita dei NAR. Lì abbiamo avuto un brutto contraccolpo quando c'è stata l'uccisione di Ivo Zini, un anno dopo, se non ricordo male, nel 78, un compagno che stava leggendo il giornale davanti alla sezione dell'Alberone che ha creato un effetto rebound su tutti i compagni che in quel periodo erano arretrati, e ha creato le condizioni per ricominciare con assalti, aggressioni, case dei nostri incendiate, insomma veramente un periodo molto brutto. Io poi sono uscito e dopo di me è stato nominato segretario di sezione con il partito che, come ti dicevo, in quel periodo era variante. Venne nominato Giacomo Fariola. Nel frattempo era anche arrivato Francesco Storace, che aveva ricominciato a frequentare. Era venuto un po' prima, era sparito per un periodo di tempo, e poi è ritornato subito dopo la strage. Avevo incominciato a lavorare e frequentavo un po' meno, andavo solo la sera, e successivamente loro sono stati oggetto di un altro agguato con degli spari… Hanno sparato a Francesco Storace e ad un altro ragazzo della sezione mentre stavano attaccando dei manifesti. Questo un anno dopo. Quindi per dire come il clima fosse rimasto comunque molto teso, incandescente. 
MAURIZIO LUPINI è quello che dentro la sezione si è attardato a staccare la corrente, ed è salvo per miracolo. Staccare la corrente non era soltanto compito suo, quindi quella sera avrebbe potuto toccare ad un altro, e lui trovarsi sulla linea del fuoco. Mentre mi parla, l'emozione ritorna a farsi strada, come allora, come riaprire una ferita che non può rimarginare; un'emozione evidente nelle parole e nell'espressione. Maurizio lavora negli uffici della Regione Lazio, ed è lì che mi  ha ricevuto.
Allora, quel giorno famoso…
Cento volte abbiamo ripercorso quel racconto, che tu avrai sentito nelle altre interviste.
Sì, però tu hai un ruolo particolare nella vicenda, perché ti sei attardato a staccare la luce…
Sì, è stata aperta la porta, io spengo la luce, stavo alla porta e la stavo richiudendo. È stata una fortuna. Una fortuna perché se aspettavano a sparare quando avevamo già chiuso la porta, sarebbe stata una strage invece che con tre persone, anzi due persone perché poi uno è morto dopo, sarebbero morte cinque persone. Là non ti salvi, perché hanno sparato con più pistole, poi la mitraglietta skorpion, che, come ho avuto modo di sapere, spara una sequenza di colpi che non lascia scampo. 
Anche la skorpion, sembra una cosa scontata, ma non lo è.
Bè, hai seguito i passaggi, no? Non quello che dico io, ma a livello giornalistico tutti i passaggi di questa mitraglietta. Jimmy Fontana, il questore del Tuscolano, che era zona limitrofa, il dottor Cetroli, che poi è morto.
Quello che non si capisce e come Jimmy Fontana, o Enrico Sbriccoli, come si chiamava, abbia dichiarato di averla ceduta a Cetroli, mentre Cetroli dice di non averla ricevuta. 
È una falsità della buonanima di Cetroli, perché c’è una tracciabilità, perché quest’arma fu venduta nell’armeria Oslavia, al quartiere Prati.
Da Bonvicini.
Sì, la famiglia che gestiva l’armeria, e là dentro vendono quest’arma a questo tizio con un assegno, quindi c’è una tracciabilità.
Venduta a Jimmy Fontana?
No, Fontana vende a Cetroli e Cetroli gli da’ un assegno.
Rimane da capire come da Cetroli quest’arma sia andata a finire in mano ad un certo De Maggi, il più piccolo di tre fratelli che abitavano in via Acca Larentia. Rimane anche da capire se quest’arma è stata venduta già con il tiro a raffica, o se è stato ripristinato in un secondo tempo, visto che per questa operazione qualcuno è stato condannato.
C’è anche il particolare di una persona che fu maldestramente ferita, che era il presunto basista dell’operazione, e che per quella ferita gli venne riconosciuta un’invalidità che lo portò ad essere assunto alla Provincia di Roma. È importante, perché questa persona non sarebbe un appartenente all’area politica che fece l’attentato, ma una persona vicina all’area dei servizi segreti. Il libro di Cutonilli ha sollevato il coperchio su cose che oltre ad essere inedite sono senz’altro rilevanti. E poi ci si pone pure la domanda perché è stato frettolosamente tutto insabbiato e archiviato. 
Ma tu, quando hai sentito sparare, hai visto cadere i tuoi compagni…
Chi ha sparato era una persona avvezza all’uso delle armi.
Pare che andassero ad esercitarsi in una grotta…
Vicino all’acquedotto dell’Acqua Santa.
Dove  Livia Todini ha dato tutti i particolari, hanno trovato i bossoli e tutto. Non ci vuole molto ad esercitarsi con un’arma così.
Sì, però… ti dico la dinamica di quella sera. Allora, io spengo la luce, vado alla porta, sto per richiudere la porta, quando il primo colpo che viene sparato dalle colonnine prende Bigonzetti in testa. Tu calcola che da quella distanza, da circa venti metri, un colpo del genere, il primo colpo, il corpo di Bigonzetti viene sollevato tanto così da terra. Tant’è vero che io c’ho st’immagine, che vedo sto corpo alzarsi, lui aveva un impermeabile bianco, portava sempre quello, e l’impermeabile che si apre come due ali. Poi c’è stata tutta una concitazione, perché ci sono stati… ta… un attimo di silenzio, poi, tatatatata, e quindi io ho ricollegato… in quell’attimo Ciavatta vedo che scappa, vedo il movimento su per le scale per scappare. Le persone entrano dentro, Segneri che mi stava qua [di fianco] viene ferito al braccio da un colpo di mitraglietta, e mi butta per terra. Vedo la porta che si apre verso l’interno. Non so chi mi abbia sorretto, ho avuto la prontezza di uno scatto di reni per chiudere la porta in faccia a queste persone. Ho richiuso, e ho sentito questa persona che bestemmiava e che continuava a sparare sul corpo di Bigonzetti che stava supino per terra ed era morto, perché la palla gli è entrata da un occhio ed è uscita dal di dietro, c’era tutta materia grigia per terra. 
La palla è uscita?
Sì, c'era un foro d'entrata e un foro d'uscita. C'era tutta materia grigia per terra.
Probabilmente non era un 7,65.
No, era più grosso. E poi, una precisione del genere, questi sanno sparare, perchè col primo colpo riesci a prendere una sagoma al buio da una ventina di metri di distanza, vuol dire che sei un tiratore.
Ma non è mai stato stabilito se fosse stata solo la skorpion o altre armi a sparare?
Questo non l'ho mai approfondito, non ho mai avuto interesse a saperlo. 
Allora, tu hai chiuso la porta, 
Era tutto buio dentro. Abbiamo aspettato alcuni minuti, saranno stati circa cinque minuti, dopodichè, a diciannove anni non è che c'hai la mente… la circostanza è talmente irreale che la vedi come una fiction, almeno è stata la mia percezione… riaccendiamo la luce, e vedo tutto il sangue che filtra da sotto la porta e così dico a Enzo [Segneri], ma è sangue tuo, guarda, ma siccome la palla al braccio è entrata e uscita, Enzo non sanguinava. No, mi dice, apriamo la porta e vediamo Bigonzetti che stava lì… poi usciamo, sirene, tutta la gente che  curiosava, dai palazzi… io la prima cosa che faccio, prendo Bigonzetti, 'sto ragazzo che era un sacramento di un metro e novanta, grosso, era un judoka, ma a parte questo, era un ragazzo di una docilità… voglio dirti chi era Bigonzetti, Bigonzetti era un ragazzo sportivo, uno studente di medicina e per pagarsi gli studi, d'estate lavorava per una ditta di asfalti a freddo. Uno che ha un figlio così… era un mite per natura… ma poi sempre ben vestito, l'impermeabile, la cravatta, o il cravattino. Esco davanti alla porta e vedo Bigonzetti, la prima cosa che mi viene in mente è prendere 'sta persona, caricarmela addosso e portarla al centro del piazzale. Lì m'ero tutto sporcato di sangue le mani, perchè non mi rendevo conto che lui ormai era morto. Una signora che stava al piano di sopra, che conoscevamo, mi dice guarda c'è un altro ragazzo là, porca miseria, vado di là, c'era riverso, che aveva fatto tutte le scale, aveva cercato di scendere, era Ciavatta, era ancora lì. Quindi io sono stato con lui, e lui m'ha detto che si sentiva tutto bruciare. Chiaramente, l'hanno preso da dietro, gli hanno frantumato… praticamente poi, è stato mezz'ora riverso per terra e la causa del decesso di Franco Ciavatta è stata emorragia interna. Col senno del se, col senno del ma, lo sai che non si ragiona, però se fosse venuta prima l'ambulanza, chissà. Vabbè. 
Po c'è stato l'episodio successivo, quello quando sono intervenuti i Carabinieri.
Ecco io là non ero presente, perchè nell'immediato a me la polizia mi porta via, mi porta subito a S. Vitale, quindi io c'ho avuto… c'è stato un momento di buio. Io mi sono ritrovato a San Vitale, a via Nazionale, alla Questura Centrale, e mi hanno incominciato a fare domande, a fare domande fino alle sei del mattino, mi davano ogni tanto un caffè. E non è che 'sti disgraziati m'hanno detto togliti 'sta maglietta tutta sporca di sangue, le mani… manco un macellaio… ce l'avevo dentro alle unghie. Poi l'odore del sangue è una cosa terribile. E fino alle sei del mattino io dicevo, io devo andare a casa, non posso stare così, accompagnatemi a casa, e quindi poi con una volante mi hanno accompagnato. All'epoca avevo quasi vent'anni, li avrei compiuti a settembre. Franco era del '59, un anno meno di me, Bigonzetti del '58 pure lui. Sono eventi che ti segnano per tutta la vita, perchè non puoi fare a meno di ricordarti, e pure se tenti di rimuovere,  le circostanze a livello psicologico ti riportano a quel momento. Per me, ad esempio, la notte di capodanno è una situazione terribile. Far cadere dentro casa il coperchio di una pentola, io salto e cominciano le palpitazioni. Le persone che urlano, non è che sono un soggetto da igiene mentale, però rammento che c'è una reazione dentro di me, una reazione consapevole, che non va bene. Siccome è una cosa talmente irreale, non te ne rendi conto. Mio padre la mattina mi voleva chiudere dentro casa, non mi voleva far uscire. Io ho preso e sono uscito, a dispetto di quello che mi poteva succedere. La mattina alle otto e mezzo stavo in via Acca Larentia. Arrivato nello spiazzo mi son cedute le gambe, sono caduto in ginocchio, davanti a dove stava tutto il sangue di Bigonzetti. Da lì poi ho iniziato un percorso, non ho mai cambiato il mio modo di vedere politico, di fare attività… poi la vita, sai ti porta ad un certo momento, non ad allontanarti, ma a staccare un attimo nelle circostanze in cui crescendo, andando avanti con gli anni subentra l'esigenza di trovarti un posto di lavoro, quindi quelle sono cose che ti staccano momentaneamente, o fai il politico mestierante, e non era il mio caso, o fai attività politica per passione.  Comunque dopo un po' mi convocano in Questura con un altro amico, Giovanni Coi, e mi dicono che siamo i prossimi bersagli delle bierre, e ci vogliono mettere sotto protezione ad Asti o a Torino. Ma io non ho voluto andare ad Asti, con il mio amico Coi, che era sardo, siamo andati in Barbagia, e per un anno ho fatto di tutto, puzzavo di pecora, ho fatto anche il pecoraio. I miei parenti non sapevano dove fossi, per telefonare dovevamo fare dei rimbalzi, e cambiavamo spesso luogo. Poi dopo un anno sono tornato a casa. 
FABIO TORRIERO Negli anni settanta è stato iscritto al Fronte monarchico giovanile e componente del gruppo musicale, sempre del Fronte monarchico giovanile, Nuovo Canto Popolare. È stato anche tra i fondatori del gruppo di musica alternativa di destra Janus.Laureato in Scienze politiche, è giornalista professionista dal 1994. Ha lavorato per L'Italia settimanale e Lo Stato diretti da Marcello Veneziani e per Libero di Vittorio Feltri. Editorialista de Il Tempo, direttore della rivista culturale La Destra Italiana e del quotidiano online IntelligoNews (anche web-tv). È una delle firme de La Croce diretto da Mario Adinolfi. Oltre a seguire i principali fatti di politica interna ed estera, si occupa dei temi legati alla comunicazione e alle riforme. È stato responsabile per la comunicazione dell'Ugl. Ha diretto il magazine femminile Mia.Spin doctor di parlamentari e ministri, insegna comunicazione politica, scrittura giornalistica e storia dei media, presso la Link Campus University-Università di Malta, l'Ese e l'Anglo italian institute. È inoltre consulente di comunicazione aziendale. Per la Fondazione Farefuturo è stato responsabile dell'Area-formazione-comunicazione. Collabora con la Fondazione Cantiere Abruzzo, ed è membro del Comitato Scientifico della Fondazione An. Ha numerose pubblicazioni al suo attivo. Ho incontrato Fabio Torriero nel suo ufficio, che è anche la redazione di Intelligo-News. Torriero mi ha offerto un'analisi del periodo storico in relazione ai fatti di Acca Larentia.
 Quale è stata la sua parte nei fatti di Acca Larentia?
Le spiego. All’epoca io ero militante nel Fronte Monarchico Giovanile, che, secondo le categorie del tempo, era diviso fra orianiani politicamente, ed evoliani, anche se il Fronte Monarchico era espressione giovanile dell’Unione Monarchica Italiana, che quindi era la monarchia sabauda, una destra conservatrice. Però noi giovani, chi all'epoca faceva politica, vivevamo un po’ una guerra civile, c’era un fronte unitario contro il comunismo, però già c’era un passaggio diverso, poi le spiego la differenza. Comunque, per quanto riguarda Acca Larentia, noi da tempo avevamo costituito nelle scuole la Lega  Liste Autonome, che era una sorta di federazione liste autonome alla destra del Fronte della Gioventù. Quindi in Visconti, Azzarita e Kennedy, [scuole superiori ndr] c’erano delle realtà che si federavano fra loro, erano delle liste di destra, chiamiamola extraparlamentare, in realtà perché non si riconoscevano nella gerarchia e nella burocrazia del Movimento Sociale e del Fuan. Eravamo associati fra noi. Quel giorno, in pratica, dovevamo fare una riunione ad Acca Larentia, era il 7 gennaio. Dovevamo vederci per continuare un discorso che sarebbe stato ampliato in tutta Roma. Questo perché molti giovani volevano presentarsi nelle scuole, ma non all’interno di una di quelle strutture storiche e burocratiche. C’è sempre stata questa dicotomia fra destra extraparlamentare giovanile e giovani dentro le associazioni storiche del Fronte della Gioventù, prima Giovane Italia, poi Fuan. Le liste nelle scuole si richiamavano direttamente al Fronte della Gioventù. Noi stavamo facendo un coordinamento della Lega Liste Autonome, e l’incontro era appunto con i dirigenti di via Acca Larentia esattamente in quel giorno. Io arrivo, con mezz’ora di ritardo, e trovo già il primo morto all’ingresso della sezione. E quindi scatta quello che poteva essere il dramma interiore, personale, fisico, esistenziale, la rabbia. Che poi si capisce solo quando tu stai dentro una storia di guerra, di lotta e di sacrificio quotidiano. A scuola e nel quartiere erano botte ogni giorno,- io stavo a Villa Bonelli -, Roma era divisa in enclave, a macchia di leopardo, c’era Villa Bonelli, Colli Portuensi, Monteverde, Eur, Balduina, Parioli, Vigna Clara e Trieste Salario, erano le isole. Poi c’era tutto il resto. Noi avevamo, per esempio, Magliana, Portuense e Donna Olimpia, dove abitavo io, che erano dei capisaldi dell’estrema sinistra, di Lotta Continua, Stella Rossa, Autonomia Operaia, c’era tutto, insomma. E poi c’era questa Prima Linea, che, come ho saputo dopo, dovevano dimostrare ai più grandi delle Brigate Rosse di essere in grado di fare i soldati, i militari, per essere assunti dalle Brigate Rosse. Da quello che abbiamo saputo, Acca Larentia è stata un’esercitazione militare di questi che dovevano accreditarsi presso le BR per farsi assumere. 
Come ha saputo questo?
È quello che poi si è saputo.
A parte ciò che poi s’è pubblicato, lei ha avuto dei contatti con qualcuno?
No, successivamente io ho avuto dei contatti con Marcello De Angelis, con cui ho sempre dialogato a livello giornalistico, (avendo iniziato la mia carriera con Marcello Veneziani al Settimanale) in ambiente giornalistico ed ex politico, tutta una generazione. Poi lui è scappato in Inghilterra, o ha subito la repressione di allora, che si chiamava regime, e quindi parlando con Marcello De Angelis, che è stato il mio grafico al Settimanale, poi ha fatto carriera politica a livello giovanile in Terza Posizione. C'era un rapporto diretto con tutte queste associazioni della destra extraparlamentare. Il fratello di Marcello De Angelis è stato trovato morto in carcere. Quindi più o meno parlando con lui, parlando con altri, parlando con ex degli anni '70, poi ricostruendo le vicende… ma anche Tallarico, poi, in fondo, quando lui, credo da avvocato, abbia difeso la causa di Stefano Recchioni, la terza vittima.
Lei non c'era quando c'è stata la sparatoria che ha portato alla morte di Recchioni?
No, io arrivo e trovo questi morti, e impulsivamente, la rabbia… poi sono tornato a casa, e in una sorta di istinto di autoconservazione, che mi è sempre scattato nei momenti culminanti… non è paura, è come se all'improvviso ragionassi. Le spiego anche perchè. Sono ritornato lì, nel quartiere qualche giorno dopo, credo due o tre giorni dopo, e ho partecipato a tutti i cortei successivi. C'è stata la reazione di tutta la destra romana che è confluita lì, Appio Tuscolano eccetera, e devo dire per due – tre giorni abbiamo riconquistato il quartiere. Cortei dappertutto, con scontri abbastanza pesanti, e lì ho avuto contezza di qualcosa di superiore che stava scattando attraverso noi. Cioè, noi facciamo il corteo, Almirante gira verso destra con il corteo ufficiale, che fa il giro di Acca Larentia, noi andiamo dritti e continuiamo. Arrivano macchine con persone giovani, capelli rasati, e incominciano ad incendiare tutto. Ecco, lì, l'impressione che ho avuto io è stata quella che erano persone dei servizi. Che arrivavano, s'infilavano nei cortei, quando c'era un momento di calo dell'attenzione. C'erano momenti cruenti, e in qualche modo l'impressione, la sensazione, il dubbio, il sospetto, più di un sospetto che: c'era stato il morto di destra, cavalcando la nostra reazione ci doveva essere il morto di sinistra. 
Infatti all'Alberone, dopo qualche giorno… 
Esatto. In modo tale che l'effetto percepito dall'opinione pubblica era come al solito favorevole alla Democrazia Cristiana. Questo è successo prima del famoso corteo, dei famosi scontri quando arrestano tutti i ragazzini, c'è la famosa storia di Fini che nella Sezione evita di essere fermato esibendo il tesserino di pubblicista. Io ho partecipato ai cortei di via Appia, di reazione, subito dopo, dopo Recchioni, per quattro/cinque giorni, ma non quello del sabato successivo dove poi fanno la retata, perchè… come si dice, fateli sfogà questi due tre giorni, così la gente si rende conto che sono uguali agli estremisti di sinistra. Quando qualcuno ha deciso che lo sfogo doveva finire, hanno fatto il sabato la retata, li hanno presi tutti, hanno bloccato ogni reazione e arrestato tanti ragazzini. 
Quindi c'era una strategia della tensione.
Certo, senza dubbio.
Quella che abbiamo imparato a conoscere negli anni '70, in forma macroscopica. Questa era, come dice giustamente lei, una prova.
Un esempio classico, un microesempio.
Questo coinvolgimento dei servizi l'ho sentito anche da qualcun altro, che ha partecipato come lei a questi cortei…
In realtà si vedevano queste macchine, estranee ai nostri cortei, si mettevano di lato, entravano, cominciavano a dar fuoco alle macchine, non penso che fosse un'associazione di destra che improvvisamente arrivava con le macchine normalmente, scendeva e partecipava in modo, diciamo così, teppistico… certo, nel corteo c'erano esagitati, che spaccavano vetrine per rabbia… ricordo che ad un certo punto videro una macchina, una R4, era il clima di quel tempo, solo a starci sembra un film se uno lo racconta. Si viveva un clima di guerra, dove uno poteva morire da un momento all'altro.
Ho letto da qualche parte che tra quelli che hanno fatto l'assalto ad Acca Larentia e poi sono scappati, pare che ce ne fosse uno claudicante, e che hanno lasciato le armi in una R4 rossa. 
Io so che quando ci fu il corteo, ad un certo punto si vide uno con un'R4, lo prelevarono, tale Codanna, se non sbaglio, e lo aggredirono. Io avevo questo tipo di sesto senso: addirittura arrabbiato, incavolato nero, però, quando vedevo la degenerazione del corteo, mi tiravo sempre indietro, cioè partecipavo ma avevo una sorta di antifurto naturale. Questo forse per il retaggio della mia famiglia; cioè c'è un modo di essere coraggiosi, ma non incoscienti. Altri andavano oltre, me ne rendo conto. Uno, quei tipi strani che arrivavano e s'infilavano nei cortei; due, non escludo che anche in quel caso ci fosse qualcuno che guidava la reazione emotiva dei più deboli, più fragili, in quelle situazioni. Un po' come gli Hooligans, c'è sempre qualcuno più agitato che fa da capobastone. Però che ci fosse una R4… forse una coincidenza. Ai servizi era legata l'idea che stavamo un po' tutti a destra, che c'era un'idea del sistema, del regime, che in qualche modo, col bilancino, usando destra e sinistra, da Valle Giulia in poi, si definiva un'unità generazionale dei giovani, e con l'antifascismo e l'anticomunismo ci hanno divisi, in realtà per stabilizzare il sistema, ma questa è la lettura che anche Davoli ha dato nella Notte della Repubblica, tutti hanno capito che il terrorismo e l'estremismo degli anni di piombo sono serviti a stabilizzare il sistema. Il sistema allora non era solo la DC, era un po' di più, era il pentapartito. Anche il partito Comunista ha svolto un ruolo stabilizzatore, se vogliamo. Anche perchè all'indomani di questi fatti irruenti, poi dopo s'arrivava sempre  a delle scelte parlamentari… qui andiamo proprio nell'ottica temporale. Guarda caso, dopo Moro s'arriva al governo di solidarietà nazionale, quindi un ruolo collapsing, in nome della libertà, della democrazia, dell'antinazismo, dell'antiterrorismo, però poi guarda caso c'era un collante.
Non c'è stato mai più un momento così estremo nello scontro tra destra e sinistra…
Il fatto è che oggi non esistono più destra e sinistra, però, negli anni successivi non c'è più stato … guardi io le posso dire, avendo vissuto la militanza giovanile nella destra in modo anche abbastanza diretto, non solo in termini politici, ma, per esempio, ho fatto anche parte della famosa 'Musica alternativa', c'erano i Campi Hobbit, ho fatto parte, insieme a Tallarico, di complessi di musica rock celtica, quindi insomma ci siamo dati da fare un po' in tutte le manifestazioni anche della comunicazione, non solamente un fatto politico. Io entro in politica nel '71, sono del '58, quindi a quattordici anni, '71, '72. Facevo il ginnasio, al Visconti. C'era una grandissima offerta politica, parlo della destra. Quella offerta politica è durata fino al 75/76. Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale, Lotta di Popolo, questo per restare sul versante fascista. C'erano gli altri, post-maoisti. C'erano i gruppi cattolici, che erano Alleanza Cattolica, Civiltà Cristiana. C'era il Fronte della Gioventù, il Fronte Monarchico… cioè, per un giovane di destra c'era l'imbarazzo della scelta. Se era fascista sociale, andava a Lotta di Popolo, se era evoliano andava a Ordine Nuovo, se era più fascista repubblichino andava ad Avanguardia Nazionale, se era un po' più inquadrato andava al Fronte della Gioventù. Noi all'epoca eravamo i moderati. Il Fronte Monarchico, io m'innamorai di un volantino, guardi un po', non era neanche per la monarchia… poi dopo c'è stato lo studio, la tradizione, però, il primo impulso per un giovane di quattordici anni è emotivo. Io ero affascinato dalla corona, a me mi affascinava il simbolo, la simbologia tradizionale. Quindi, lo studio viene dopo. Fino al '66 eravamo all'interno di un tipo di strategia, c'era Nixon… quindi noi lo sappiamo: c'era un disegno per fermare il comunismo. Qualora il Partito Comunista avesse vinto le elezioni democraticamente, c’era un disegno mirato alla resistenza anticomunista, Gladio, tutte queste cose qua. Ho conosciuto anche Edgardo Sogno, quando, latitante, andò a Ginevra. Quindi, erano momenti così. Però aveva un senso che  io non condividevo in termini assoluti, però in termini relativi sì, all'epoca. Era l'anticomunismo, no? Viene il comunismo, tu fai l'anticomunista, però diventi uno strumento all'interno di un progetto americano di giunta militare. Giunta militare, soluzione greca, no? 
Sì, ma ricordiamoci cos'era il comunismo allora. Oggi è all'acqua di rose. 
Certo certo, non discuto, ma ambienti filoamericani, Democrazia Cristiana di destra, monarchici, conservatori, Alleanza Cattolica, che veniva a farci i campi scuola per dire stiamo pronti, qui fra un po' succede qualche cosa, e gli extraparlamentari di destra che dicevano guardate che se viene un colpo di stato con i militari, è l'unica nostra possibilità per rifascistizzare le istituzioni italiane. Mezza Italia si auspicava una soluzione d'ordine. Quindi, bene o male c'era un clima di paura del comunismo, adesso è inutile fare finta che ci siamo scordati. Noi dicevamo, come, voi siete antiamericani, antiborghesi, antimaoisti, non perchè di sinistra, tanto per la tradizione. Sì, però, se questi fanno il colpo di stato militare è l'unica possibilità di avere un sistema alla Franco. ecco, questo è. Però dopo, dal '76 in poi questo tipo di discorso sparisce, si rompe, diciamo, viene meno, e dal '76 in poi l'estremismo di destra diventa anche spontaneismo armato, dalla piazza in poi. Se prima c'era un collegamento dei servizi, degli enti dello stato, dei militari, della magistratura, dei diplomatici verso l'America, quindi diciamo, verso la soluzione alla greca, qui c'erano dei collegamenti oggettivi verso i movimenti politici di estrema destra. Ricordiamoci che Avanguardia Nazionale era piena di gente dei servizi interni. Dopo. si rompe tutto questo rapporto, con le stragi di Bologna, Italicum e tutto quanto. Da lì in poi, questo rapporto finisce. Dal '76, '77, '78, gli anni di piombo, da quel punto lì, l'estremismo extraparlamentare di destra si lega più ad una visione spontaneista, tipo una cosa come Autonomia Operaia dall'altra parte, con molti che finiscono ai NAR, come soluzione violenta armata, ma perchè, gli ammazzavano gli amici, le sezioni occupate, morivano tutti, questi si arrabbiano e fanno la guerra. Ma diventa un'altra cosa. Qui non c'è più il collegamento con ambienti dello Stato, con ambienti dei servizi, con ambienti militari, corpi dello Stato, perchè diventa un'altra cosa. E lì, questa è una mia valutazione, da servizi eccetera, diventano sostenitori di un'altro disegno. Capiscono che la soluzione militare tipo Argentina o tipo Cile o tipo Grecia non paga, e lì il disegno diventa un altro, il compromesso storico, altre cose, e lì i servizi cambiano, con ambienti  che, al contrario, fomentano destra e sinistra per un equilibrio al centro. Lì cambia totalmente il disegno e lo spontaneismo armato diventa un'altra cosa, non è più quello collegato ai servizi, o quanto meno funzionale al disegno di colpo di Stato, come era fino al '74, '75, diventa un'altra cosa. Diventa spontaneismo puro. La scimmiottatura delle Brigate Rosse, senza tutti i supporti ideologici, la preparazione… poi c'è da dire anche delle BR, che sono state eterodirette. Moro doveva essere morto per tutti, insomma. Dicono che Renato Curcio fosse proprio un uomo dei servizi. Perchè le sedi delle BR erano dentro le sedi dei servizi. Io non lo so, adesso non voglio dire questo, però… Per ciò che riguarda la strage di Bologna, la Mambro e Fioravanti hanno sempre negato di essere stati loro, e non ho motivo di non crederlo, perchè loro si sono sempre attribuiti quello che hanno fatto. Là c'entra poi Cossiga, insomma, più o meno, con i Palestinesi, era il segnale, qui la state facendo fuori del vaso, perchè finchè l'accordo durava, noi sappiamo come fa l'Italia, con il piede in due staffe, formalmente con gli Israeliani, però fanno l'accordo con i Palestinesi, passate di qui, voi non fare attentati e noi vi diamo una mano. Questo è uno dei motivi per cui Tangentopoli, sappiamo perfettamente la vera lettura, non è solo quella della corruzione, quella l'hanno propinata a noi, hanno fatto poi una nomenclatura politica ed economica, capitalismo nazionale, e nomenclatura politica che riguardava il terzo mondo e i paesi arabi, che era assolutamente incompatibile con la geopolitica americana. Quella strada di Mattei, che anche Berlusconi ha ripercorso, è vietata a tutti, chiunque sta là, casca.  Tornando un attimo indietro, per dire cos'erano quei tempi… Alibrandi, il figlio del giudice Alibrandi, la sorella era nel Fronte Monarchico con me, Cristiana o Cristina, e lui, era al Kennedy all'epoca, la mattina faceva politica con noi, con la Lega Liste Autonome, Visconti, Azzarita ai Parioli e Kennedy a Monteverde, faceva politica con noi, e noi non lo sapevamo, il pomeriggio già incominciava a fare rapine.
Rapine?
Sì, era molto 'soldato della rivoluzione'.
                                               XXXXXXXXXXXX
Così si conclude questa breve escursione nei fatti di Acca Larentia. Personalmente ne esco arricchito. Ho conosciuto delle persone che mi hanno fatto entrare nel loro mondo e hanno diviso con me i loro sentimenti, le loro emozioni, con la massima disponibilità. Posso pensare di avere nuovi amici: loro certamente ne hanno uno in più. Parlare e riparlare di quella sera, di quei pochi minuti di fuoco che hanno cambiato la vita di intere famiglie,e di ragazzi poco più che adolescenti, ha segnato anche me. Quando ho chiesto al mio direttore se mi potevo occupare di Acca Larentia, questo nome nella memoria era solo qualcosa che suscitava la mia curiosità e il mio desiderio di approfondire. Oggi non è più così. Posso dire che quei nomi, quei volti, quei fatti, quel dolore, sono entrati a far parte della mia vita, e a volte è come se mi toccassero da vicino più di quanto dovrebbero. Specialmente il dolore. Quello dei camerati, quello delle famiglie, quello dei genitori, quello degli amici: quello di un estraneo spettatore, come me. Questa la targa apposta in memoria di Francesco Ciavatta nel luogo in cui è caduto: "Ora che l’ipocrisia inutile dei discorsi si è spenta, ora che sei soltanto un ricordo, ora ti voglio parlare: per chi sei morto? Non importa, ci credevi. E’ stato inutile? Non importa, ci credevi."
 
LANCIAMO UN APPELLO A CHI CONOSCE I FATTI E LE PERSONE.
Penso che dopo quarant'anni di buio, sarebbe giusto e corretto che gli autori materiali del delitto si facessero avanti, e facessero luce finalmente su questo fatto così doloroso, pur nell'anonimato. Sarebbe anche giusto ed umano che chi sa, e magari ha rivestito un ruolo marginale nell'agguato, parlasse, pur nell'anonimato che siamo in grado di garantire con il  nostro giornale. Sappiamo che ciò che accadeva in quei giorni era strumentale a certe operazioni politiche di alto livello, come ci ha spiegato Fabio Torriero, e che quindi tutti gli attori, da ambo le parti, erano manovrati. Questa è senz'altro una esimente molto importante, nei confronti di quell'episodio di storia d'Italia che conserva ancora oggi troppi lati oscuri.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                                          

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Ambiente

Agenda 2030, sostenibilità ambientale: ecco come impegnarci

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La sostenibilità ambientale è uno dei goals previsti nell’Agenda 2030. Tale documento evidenzia obiettivi molto importanti tra cui, porre fine alla fame nel mondo, dire stop alla violenza sulle donne etc …

Nelle scuole italiane e non solo sono stati avviati progetti per arrivare ai traguardi preposti.
Negli ultimi anni, l’obiettivo della sostenibilità ambientale ha visto una maggiore consapevolezza individuale e collettiva.

All’interno di molte scuole, sono state programmate diverse attività tra cui, insegnare la raccolta differenziata, organizzare gite guidate presso inceneritori e impartire lezioni o laboratori di educazione civica e ambientale da parte dei docenti.

Ogni proposta ha rappresentato la possibilità di rendere i ragazzi e gli adulti maggiormente consapevoli di alcune problematiche legate al nostro pianeta: dalla deforestazione, alle banche di plastica che osteggiano la pulizia dei nostri mari, al riscaldamento globale fino ad arrivare alla totale trasformazione del territorio mondiale.

Molte di queste problematicità, causate principalmente dall’agire umano, vengono studiate non solo dalla scienza, ma anche dalla geografia. Siamo in un mondo globale in cui la questione ambientale e le sue possibili modifiche future preoccupano gli studiosi.
Per tale motivo il concetto di sostenibilità dell’ambiente è un argomento che sta molto a cuore agli esperti e non solo.

Tuttavia, sono nate diverse occasioni per evitare una totale inaccuratezza da parte dell’uomo. Pertanto, per sviluppare una maggiore sensibilità di fronte alla cura costante e attiva del nostro ambiente sono state previste diverse iniziative, partendo proprio dal comportamento dei cittadini stessi:

  • periodicamente si svolgono numerose campagne ambientali per sviluppare una corretta raccolta differenziata da parte dei singoli Comuni, Regioni e Stati;
  • ogni città al suo interno ha organizzato incontri in cui vengono spiegate le diverse fasi di raccolta dei rifiuti;
  • si sono definite regole precise per mantenere pulite le città;
  • di tanto in tanto ogni regione predispone seminari o incontri a tema su come incentivare l’uomo a rendere sempre più vivibile l’ambiente in cui abita;
  • molte scuole hanno sviluppato ricerche e sondaggi, tramite esperti del settore, per sensibilizzare i giovani e gli adulti a far fronte a questa urgenza di “pulizia” all’interno degli ambienti in cui si vive;
  • si organizzano, inoltre, convegni internazionali sulla sostenibilità ambientale e su eventuali nuove tecniche di intervento.

In generale, dalle scuole, alle diverse associazioni e al governo si è trattato l’argomento sulla sostenibilità, ponendo questi obiettivi come primari e improrogabili per “risistemare” il nostro pianeta.

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Editoriali

Aggressione omofoba a Roma: chi ha più prudenza l’adoperi!

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Mercoledì due ragazzi, per un bacio, sono stati aggrediti da un gruppo di egiziani al grido: “Questa è casa nostra e voi froci qua non dovete stare” rischiando davvero grosso.


Per fortuna, invece di reagire, hanno chiesto l’intervento delle forze dell’Ordine che, prontamente, sono intervenute mettendo in salvo i due ragazzi. In queste situazioni “Ci vuole prudenza!”

È un pensiero che la mia generazione ha recepito troppe volte in malo modo e, di contro, le generazioni attuali non sanno neanche da dove provenga.

E se alla mia età arrivo a scrivere di questo è perché il clima che si respira in ogni parte del mondo predica proprio la prudenza. Assistiamo, troppe volte, a situazioni in cui le aggressioni, le violenze, i soprusi colpiscono e fanno piangere proprio perché quella virtù molto predicata e poco praticata, la prudenza appunto, viene accantonata per imporre magari le nostre ragioni di fronte a soggetti che non hanno nulla da perdere pronti a tutto e senza scrupoli.

E non mi si venga a dire “ci rivuole il manganello” perché violenza chiama violenza, aggressione chiama aggressione, sopruso chiama sopruso.

Non so “offrire” una ricetta perché i tanti “Soloni”, esperti in materia, sono decenni che “toppano”, sbagliano, predicando il “dente per dente”.

Occorre “certezza di pena” e “controllo del territorio”. E se a tutto ciò aggiungiamo un “cultura woke” che, a mio avviso, vuole imporre a colpi di “politicamente corretto” scelte sulla vita di ognuno ci ritroveremo davvero a riconsiderare vero ed attuale il pensiero di Thomas Hobbes “Homo hominis lupus”, l’uomo è lupo agli uomini.

Perché l’integrazione non si impone per legge come anche l’inclusione.
Sono processi che passano attraverso l’accettazione di entrambe le parti in modo paritetico e rispettoso ognuno dell’altro.

Quindi, “prudenza” perché, come diceva Henry de Montherlant: Bisogna fare cose folli, ma farle con il massimo di prudenza”.

l’immagine rappresenta l’allegoria della Prudenza

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Editoriali

L’illusione della superiorità e l’incoscienza di chi crede di avere una coscienza superiore: Beata ignoranza!

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Nell’era dell’informazione e dell’autorealizzazione, sempre più individui si convincono di possedere una coscienza superiore, una sorta di illuminazione intellettuale e morale che li pone al di sopra della massa. Questa percezione, spesso priva di una reale base di merito, non solo è pericolosa, ma anche profondamente ingannevole. L’illusione della superiorità può infatti condurre a un’autocelebrazione sterile e alla svalutazione di tutto ciò che non rientra nella propria visione del mondo.

L’autocompiacimento dell’ignoranza

Uno dei fenomeni più diffusi è l’autocompiacimento dell’ignoranza. Alcuni individui, forti di una conoscenza superficiale acquisita attraverso fonti discutibili o parziali, si autoconvincono di avere una comprensione profonda e completa delle cose. Questo atteggiamento li porta a rifiutare qualsiasi opinione contraria, chiudendosi in una bolla di autoconferma. Il paradosso è che più limitata è la loro comprensione, più ferma è la loro convinzione di essere superiori.

La mediocrità travestita da eccellenza

Chi si illude di avere una coscienza superiore spesso ignora la necessità di un’autoanalisi critica e di un continuo miglioramento. Questa mancanza di umiltà e di riconoscimento dei propri limiti porta a una stagnazione intellettuale e morale. La mediocrità, in questo contesto, si traveste da eccellenza, mascherata da un velo di arroganza e presunzione. La vera eccellenza richiede infatti la capacità di riconoscere i propri errori e di apprendere continuamente dall’esperienza e dagli altri.

Il confronto con la realtà

Per smascherare l’illusione di una coscienza superiore, è essenziale confrontarsi con la realtà in modo aperto e onesto. Questo implica ascoltare opinioni diverse, accettare critiche costruttive e riconoscere l’importanza della competenza e dell’esperienza. Solo attraverso questo confronto si può sviluppare una vera comprensione e una consapevolezza autentica.

L’importanza dell’umiltà

L’umiltà è la chiave per evitare la trappola dell’illusione di superiorità. Riconoscere che la propria conoscenza è limitata e che c’è sempre spazio per migliorare è il primo passo verso una crescita autentica. L’umiltà permette di apprendere dagli altri e di riconoscere il valore della diversità di pensiero e di esperienza. Solo con questa attitudine si può sviluppare una coscienza realmente superiore, basata non sulla presunzione, ma sulla consapevolezza e sulla continua ricerca del miglioramento.

L’illusione di una coscienza superiore è un inganno pericoloso che porta all’arroganza e alla stagnazione. La vera superiorità non risiede nella convinzione di essere migliori degli altri, ma nella capacità di riconoscere i propri limiti, di apprendere continuamente e di confrontarsi con la realtà in modo aperto e umile. Solo attraverso questo percorso si può raggiungere una consapevolezza autentica e contribuire in modo significativo al proprio sviluppo e a quello della società.

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