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POZZUOLI (NA) – Nell’antichità la Solfatara di Pozzuoli era considerata la porta dell’Inferno, i Pink Floyd la scelsero come location per il film-concerto-documentario dal nome: “Live at Pompei”, diretto da Adriano Maben e persino Toto girò due film “Totò all’inferno”; e “47 morto che parla”, De Sade paragonò le persone passionali all’attività
tellurica flegrea.
Lo scenario è sempre lo stesso, lunare con i segni dello zolfo vicino le rocce dove si trovano le fumarole di colore verdastro, i sentimenti contrastastanti, di attrazione e di paura che si prova verso questo luogo quando lo si visita è lo stesso da sempre, come testimoniano le opere letterarie e pittoriche, persino Dante la menziona, attorno ad essa c’è una fitta vegetazione come a voler nascondere da lontano quello che è capace di fare la natura. Era consuetudine dipingere Gouaghes nell’Ottocento avendo come
soggetto la solfatara, venne definita dal presidente Charles de Brosses la “marmitta di vulcano”, Goethe la mensiona suo libro “Viaggio in Italia” durante il Grand Tour.
Il cancello nei giorni dopo la tragedia si apriva solo per i campeggiatori, fuori al bar vicino all’entrata non si parla dell’altro, i puteolani che vivono nelle vicinanze della Solfatara hanno tutti il volto sotto shock dell’incubo che ha vissuto quasi un’intera famiglia del nord in gita e in cerca di spensieratezza ma, invece hanno trovato la morte. Eppure è successo lì e li ha inghiotti senza pietà, come un mostro, facendo ricordare a noi persone contemporanee che la natura è bella, ma anche crudele, che decide lei quando e come andarla a trovare. Il confine che unisce la vita e la morte e talmente sottile che non tradisce l'etimologia del significato dei Campi flegrei dal greco FLègo, dal significato “Brucio, Ardo”. Giuseppina Ercole
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