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Redazione
Nelle carceri del Lazio l’assistenza religiosa e il diritto al culto non appaiono una priorità. Il loro rispetto viene assicurato, all’interno di ciascun istituto, con modalità operative figlie delle buone pratiche quotidiane e della responsabilità dei singoli operatori nell’evitare rapporti conflittuali.
Nonostante la varietà delle confessioni presenti, nelle carceri spicca la centralità della figura del cappellano cattolico nell’opera quotidiana di tutela del diritto universale al culto.
E’ questo il quadro che emerge dalla ricerca L’assistenza religiosa in carcere – Diritti e diritto al culti negli istituti di pena del Lazio, condotta in 10 dei 14 Istituti di pena della regione dal Centro Studi e Documentazione su Religioni e Istituzioni Politiche nella Società Postsecolare (CSPS) dell’Università di Roma Tor Vergata, con il contributo del Consiglio Regionale e del Garante dei detenuti.
«Garantire il rispetto delle diversità religiose sta diventando una priorità – ha detto il Garante dei detenuti Angiolo Marroni – Tra le molte questioni legate al mutamento multiculturale e multireligioso della popolazione carceraria vi sono, infatti, anche quelle legate al rispetto del culto di ognuno e del diritto dei detenuti di praticare il proprio credo. Nelle condizioni in cui, attualmente, versa il sistema penitenziario italiano, credo che una piena tutela del diritto alla Fede possa contribuire a migliorare la qualità complessiva della vita in carcere».
Nelle carceri del Lazio sono presenti 7.130 reclusi, oltre 2.300 in più rispetto alla capienza regolamentare. La popolazione carceraria straniera (quasi il 40% dei reclusi) rappresenta oltre 150 diverse nazionalità. Una pluralità che rispecchia il mutamento in senso multiculturale della società italiana legato a processi di globalizzazione ed immigrazione. Accanto a tutto il resto, muta anche il panorama religioso nazionale che, da una composizione largamente cattolica, si avvia verso una pluralizzazione delle appartenenze religiose. In altri termini, pur in assenza di dati ufficiali, il pluralismo religioso nelle carceri è più forte di quanto non si percepisca.
La ricerca (scaricabile nella versione integrale dal sito www.csps.uniroma2.it) ha mappato le modalità con cui le carceri assicurano l’assistenza religiosa e rispondono al diritto al culto, mediante 103 interviste realizzate a coloro che sono più coinvolti su tale versante (direttori e vice direttori, educatori, agenti di polizia penitenziaria, psicologi, mediatori, volontari, cappellani, ministri di culto o referenti di diverse confessioni).
Dal lavoro emerge che l’assistenza religiosa e il diritto al culto, oltre a non essere oggetto di programmazione, non fanno parte dei percorsi di formazione degli operatori penitenziari. La religione non rientra fra le informazioni raccolte sui detenuti all’ingresso in carcere, perché considerata un tratto intimo e privato dei reclusi. E nella vita quotidiana in carcere è carente, per gli stessi motivi, una comunicazione efficace dei diritti riguardanti la professione religiosa. Il sistema penitenziario regionale non è, però, insensibile a tali problemi, anche se le risposte nascono più dalle buone pratiche quotidiane e dalla buona volontà degli operatori che non da una efficace pianificazione istituzionale.
La ricerca mette in evidenza la citata centralità della figura del cappellano cattolico, che non solo garantisce diversi aspetti dell’assistenza (materiale, umano, spirituale, religioso) ma interviene anche nelle problematiche legate agli altri culti, anche se con intensità diversa a seconda delle confessioni. Funge da mediatore ed organizzatore nell’attività dei ministri ortodossi, cui mette a disposizione gli spazi di culto, e provvede spesso alle necessità dei musulmani. E’, invece, meno legato all’attività dei protestanti ed è distante dai Testimoni di Geova, con i quali si avverte una più o meno esplicita tensione. Il cappellano gioca un ruolo importante anche nella diffusione dei testi sacri di altre confessioni (spesso facilita l’accesso al Corano ai musulmani) e nel favorire, con la propria intercessione, l’ingresso in carcere di altri ministri di culto (vale per gli ortodossi).
La ricerca evidenzia come, invece, sia carente l’assistenza non cattolica. I ministri incontrati sono Testimoni di Geova (33), delle varie famiglie del Protestantesimo (6) e delle Chiese Ortodosse (4). E’ evidente, considerando la numerosità dei musulmani, l’assenza di imam che svolgano regolarmente il servizio (ad eccezione del periodo del Ramadan). Una situazione, per altro, poco funzionale rispetto all’esigenza di sicurezza e controllo dei rischi di proselitismo e integralismo.
La centralità della religione cattolica si rivela sull’analisi degli spazi per il culto e la preghiera. A fronte di una capillare presenza di cappelle, sono scarsi gli spazi per le altre confessioni. Il carcere di Civitavecchia può essere citato per i pregevoli spazi dedicati al culto buddista, mentre a Cassino e Viterbo piccole salette o ex-camere di detenzione sono state messe a disposizione dei musulmani per la preghiera del Venerdì o per essere adibite a moschea. Carenza di spazi, diversità fra religioni e complessità dei riti rendono difficoltosa la gestione della celebrazione dei culti in carcere. Rara risulta, ad esempio, l’osservanza della preghiera del Venerdì secondo i precetti dell’Islam. Solo in un paio di istituti questo momento è rispettato. Sostanzialmente rispettate in tutte le carceri, invece, le regole del Ramadan, grazie anche all’intervento di comunità esterne come l’UCOII (Unione delle Comunità Islamiche in Italia) e l’ALCUMI (Alternativa Culturale dei Marocchini in Italia).
L’alimentazione differenziata in funzione dei culti è, invece, un principio pacificamente accettato. La domanda di menù su base religiosa proviene dai musulmani (si ha una media indicativa di 50 richieste; nei due istituti più ampi considerati, Rebibbia N.C. e Regina Coeli, il numero sale rispettivamente a 250 e 190). La criticità è rappresentata dall’assenza di cucine aderenti alle tradizioni religiose, come la cucina halal per l’Islam o la cucina kasher per l’Ebraismo.
Nelle conclusioni del lavoro del CSPS sono indicati alcuni suggerimenti per innalzare il livello della tutela del diritto al culto in carcere. Fra le indicazioni, la formazione del personale; l’invito a una riflessione sulla riforma dell’istituto del cappellanato sulla base di quanto accaduto nel sistema penitenziario inglese; l’apertura di spazi multi-fede e, più in generale, l’invito a pensare una piena implementazione dell’assistenza religiosa come risposta di diritto ai rischi di radicalizzazione religiosa in carcere.
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