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Editoriali

Belpaese, non ci resta che piangere…

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Il profeta Geremia, attivo nel Regno di Giuda tra il 626-586 a.C. circa, al 31:15 del suo Libro scrisse: “Geova ha detto questo: ‘In Rama si ode una voce, lamento e amaro pianto; Rachele piange i suoi figli. Ha rifiutato d’essere confortata per i suoi figli, perché non sono più”.

La Rachele nazionale rifiuta d’essere confortata e lamenta piangendo sul calo di tanti valori che sta subendo la società italiana,

Quello di Geremia non è altro che il ritratto profetico dei giorni nostri.

Cala la demografia, cala la produzione, calano i consumi, cala il benessere, si riduce la sicurezza, si restringe l’assistenza sanitaria, si degrada la qualità di vita, si svaluta la sacralità della fede, scarseggia la frequenza dei fedeli ai riti sacri domenicali, mentre si alza lo spread, si impenna il costo della vita, cresce il degrado, si dilaga il materiale trash negli intrattenimenti televisivi e si allunga la lista di parroci che annacquano il Vangelo, incuranti dei lamenti dei fedeli.

Europa, la prossima primavera si voterà per un guscio vuoto

Le urne si apriranno in tutti i paesi appartenenti all’UE tra il 23 e il 26 Maggio 2019 e lo scrutinio si aprirà per tutti a partire dalle ore 23:00 del 26 Maggio 2019. Sarà la nona volta che i cittadini della Comunità europea verranno chiamati ad eleggere i loro rappresentanti al Parlamento Europeo e sarà anche la nona volta, ahinoi, che si chiameranno 400 milioni di
cittadini dei paesi europei a votare per un guscio vuoto. Nei 4 paesi della Ue, Lussemburgo, Cipro, Grecia e Belgio il voto è obbligatorio, nei restanti paesi, per fortuna, il voto è libero. E’ una occasione ghiotta e non è sfuggita ai faccendieri della politica , i soliti che vegetano tra partiti e affaristi. I contrassegni per la partecipazione a questa kermesse si contano intorno a numero 47. Ci sono dei più strani come il Partito Pirata, il Movimento dei Poeti d’Azione, il Popolo della Famiglia di Mario Adinolfi, la Liga Veneta Repubblica, La Catena, Democrazia Cristiana, l’Altra Italia e poi il Sacro Romano Impero Cattolico, il Partito Internettiano e “Fuori dalla Ue per diventare il Giappone d’Europa”.

Poi, naturalmente ci sono da aggiungere i big della “politica” come il M5S, la Lega dei popoli di Salvini, Più Europa, Zingaretti con il simbolo “Ora Unità” per il PD, Forza Italia e di tutto e di più. Si sa quanti sono, come e da chi si faranno rappresentare ma non è dato sapere cosa vogliono andare a fare al parlamento europeo, quale programma hanno in mente, cosa ci si potrà attendere dalla loro presenza , eventuale, a Bruxelles.

Con candore risponde Mirella Cece, presidente del Sacro Romano Impero Cattolico : “.. il mio programma è ambizioso ma non lo voglio anticipare perché troppo articolato”. Sarebbe troppo per il comprendonio dei cittadini capire l’articolato di Mirella Cece, bisogna votare a scatola chiusa, prendere o lasciare. Si tralascia la novità di Zingaretti, “Ora Unità” e quando mai! Viene da rispondere: domani Bella Ciao.

Con queste prospettive come fa la Rachele nazionale a non lamentarsi e
ben si capisce perché rifiuta d’essere confortata.

L’Europa non è il paese del pater familae e tanto meno una buona mamma

Tra le liste iscritte per la presentazione alle prossime europee c’è chi più di altri vende retorica dicendo: “Fuori dalla Ue per diventare il Giappone d’Europa” senza spiegare cosa affascinerebbe a questo gruppo del sistema giapponese. Poi c’è chi, con convinzione, ma non convince, insiste su “Più Europa”. Quale,domanda il cittadino, perché quella che c’è basta e avanza.
L’altro sabato, 6 aprile , nel corso della seconda giornata della Dottrina Sociale della Chiesa, evento promosso dall’Osservatorio Van Thuan e svolto nel teatro Rosetum di Milano, l’Arcivescovo di Trieste monsignor Giampaolo Crepaldi, nella sua lectio magistralis “Europa, processo di unificazione europea”, citava delle opinioni di illustri personaggi riguardo all’Europa che si riproduce qui di seguito: Remi Brague, professore emerito di Filosofia medievale e araba presso l’Università Paris, ha affermato che l’Europa non crede più in nulla; Gianni Baget-Bozzo aveva detto che l’Europa si considera una colpa ed è stretta tra nichilismo e islam;

Walter Laqueur, storico e commentatore politico, sostiene che l’Europa stia vivendo i suoi ultimi giorni; Giulio Meotti dice che l’Europa si suicida ed è alla fine; Jürgen Habermas dice che è in crisi e Benedetto XVI ha detto che l’Europa odia se stessa.

Piange Rachele meditando al crepuscolo, seduta su una polveriera con in mano la miccia a lenta combustione

Anche l’Italia, come Achille sarebbe stata immersa dai suoi costituenti in acque sicure, anche lei sarebbe stata posta su basi solide per affrontare qualsiasi emergenza e non per niente da sempre aveva conquistato l’appellativo di Belpaese. Madre natura non le aveva fatto mancare niente. Nei suoi annali vantando uomini illustri ha conosciuto momenti di gloria. Poi arrivarono i personaggi dai quali Platone avvertiva di stare lontani perché pretendevano di dare ed insegnare agli altri ciò che non possedevano e non conoscevano.

Pretendevano di amministrare il Paese creando debiti piacendo di piacere, pareggiando favori e raccomandazioni e sempre con il sorriso stampato salutavano chiunque : “ciao caro”. Grazie a loro oggi l’Italia è sommersa sotto un debito pubblico mastodontico che ostacola ogni e qualsiasi manovra. Un buon e vero amministratore, prima di gridare “più Europa” farebbe bene a convincersi per un “più Italia” ed il primo passo andrebbe fatto verso la rimozione di questo macigno.

Non più i pastori che guidano il gregge ma quest’ultimo che pasce i pastori

Per fortuna di noi credenti ancora ci sono tanti sacerdoti che dedicano la loro vita al bene degli altri. Lavorano in silenzio, affrontano pericoli e insulti e talvolta anche minacce di morte. Non indietreggiano e spesso se ne vanno senza onori come hanno sempre vissuto. Ahinoi non tutti sono cosi. Tanti altri stanno sposando il vento che tira. Sono i cosiddetti preti di frontiera, quelli d’assalto che trascinati dal gregge seguono il politically correct, accantonano il Vangelo nel cassetto ed elevano i gommoni degli immigranti agli onori dell’altare.
I profughi sostituiscono i pastorelli nei presepi, le stazioni della via crucis , l’omelia domenicale e il Sinodo dei giovani. Questi pastori guidati dal gregge predicano la carità verso il prossimo e va benissimo perché è un precetto evangelico però dimenticano di predicare che non si può amare il fratello che sta in Zambia o in Burkina Faso e fregarsene del fratello nella periferia della propria città. Questi stessi stanno facendo della Santa Messa uno show domenicale con canti e balli, chitarre e tamburi, tanti ye ye e tanti clap clap.

Scrisse Geremia : ‘In Rama si ode una voce, lamento e amaro pianto”.
Da oltre Tevere non si odono voci, nessuno lamento, l’amaro pianto
proviene dalle tante Racheli fedeli che sono costrette a subire questo
decadimento.

Primo pomeriggio ora delle trasmissioni trash e cascame a go go

L’abbiamo letto, sempre su questo giornale, in una edizione precedente, che la televisione non copre più quel ruolo di una volta, e cioè ruolo educativo. Lontani sono i tempi delle trasmissioni di Alberto Manzi “Non è mai troppo tardi”. Le conduttrici di oggi pescano le loro storie dalle periferie profonde e presentano storie di pochi, tristI storie di matrimoni falliti, figli abbandonati e altre storie di decadenza, degrado e declino.

Ha più di una ragione Rachele a piangere i suoi figli e rifiuta d’esser confortata, perché non è questa l’Italia che a lei piace vedere promossa. Non vede nulla di educativo e ciò che si trasmette non rappresenta la società italiana. C’è una parte maggioritaria del paese sana, che ride, che ama e rifiuta di essere coinvolta in questa cloaca magna di tanto trash e cascame del primo pomeriggio in TV

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Editoriali

Codice Rosso: un’arma spuntata contro la violenza? [PRIMA PARTE]

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L’intervista a Rosy Andreacchio vicepresidente del Centro Antiviolenza Margherita di Frascati

La violenza occupa sempre di più le pagine di giornali, televisione, web.
La legge 69/2019, nota come Codice Rosso, ha introdotto una serie di strumenti di materie di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere.

A Frascati opera ormai dalla fine del 2023 un Centro Antiviolenza, il Centro Antiviolenza Margherita sezione Castelli Romani, ospitato, grazie al parroco di Cocciano don Franz Vicentini, nei locali della Parrocchia di San Giuseppe Lavoratore.

Abbiamo incontrato Rosy Andreacchio, vicepresidente del Centro Antiviolenza Margherita sezione Castelli Romani al quale abbiamo rivolto alcune domande.

Nella foto don Franz Vicentini, parroco della Parrocchia San Giuseppe Lavoratore di Cocciano e Rosy Andreacchio vicepresidente del Centro Antiviolenza Margherita di Frascati

Innanzitutto grazie per la tua disponibilità e grazie per il servizio che gratuitamente riuscite ad offrire a decine di vittime di violenza che spesso trovano porte chiuse di fronte alle loro problematiche.

Io ho l’abitudine di andare dritto alla questione: cosa succede quando una persona, una vittima di violenza viene da te. Quale è il tuo approccio?
Loro si presentano da me al Centro ma sono molto restie, purtroppo, perché sanno che vanno incontro a tutta una serie di situazione che rischiano di trasformarle da vittime in “carnefici” di sé stesse.

Cioè spiegami meglio
Purtroppo, questo tipo di legislazione di legge che abbiamo porta, diciamo, a questo finale in quanto sono tante le donne che subiscono violenza ma solo 1 su 10 che la subisce poi arriva alla denuncia … le altre no e questo perché hanno paura. Hanno paura in quanto restano sole senza alcun aiuto concreto. Non c’è nessuno, o meglio sono pochissimi gli apparati, diciamo sociali, amministrativi, comunali che riescono a stare al fianco delle donne. La loro paura, che poi diventa realtà, è che alla fine tutto gli si ritorca contro, incominciando dagli altri.


Quindi sole durante la violenza, sole dopo la violenza, quindi il rischio diventa questo.
Si!

Quindi, per capire: io mi rivolgo al centro di violenza antiviolenza perché sono sola, trovo sicuramente te operatrice che mi dai una mano, ma poi chi dovrebbe compiere l’azione di blindare la persona non c’è! Giusto?
Sì! Non c’è perché la legge ti blocca. La legge, la norma li si blocca si ferma, cioè nel senso che poi è il Procuratore che gestisce il cosiddetto Codice rosso. È lui che, in quel momento vede, valuta se la donna deve essere messa in sicurezza o deve essere lasciata lì, così, nella sua quotidianità.

Allora, premesso, io non conosco nel dettaglio la norma relativa al cosiddetto codice rosso a differenza di te che operi in tale ambito . Ma su che parametri dovrebbe decidere? Cioè, mi spiego meglio: io allora io vengo da te e ti dico guarda c’è una persona che mi picchia. A questo punto cosa succede? Quindi tu accerti il caso, allerti gli organi di polizia giudiziaria si arriva davanti al giudice e lui decide. Ma su parametri oggettivi o in base alla sua discrezionalità?
Allora al giudice arriva la denuncia che viene fatta presso gli organi di polizia giudiziaria, caserma dei carabinieri, commissariato di pubblica sicurezza. Deve essere improntata in una certa maniera, cioè bisogna mostrare che esiste un pericolo imminente e quando arriva questa denuncia al procuratore, è poi a sua discrezione decidere se “bloccare” l’aggressore con un braccialetto elettronico o far continuare a far vivere l’aggredito nella sua quotidianità. Il fatto è che purtroppo poi subentrano i servizi sociali nel senso che al momento in cui ad esempio una donna con un figlio, dei figli, si trova ad essere vittima di violenza e, come spesso succede, l’aggressore è il marito che è l’unico che porta reddito in casa, si corre anche il rischio di vedere i figli allontanati da una madre perché questa non è in grado, a loro avviso, di sostenerli economicamente e socialmente. E questo, te lo garantisco, genera davvero ancora più paura nelle donne che si vedono, ancora di più, allontanate dai propri affetti vicini. Ed allora di fronte a queste “concrete possibilità”, questi ostacoli decidono di non denunciare più.

Noi prima di incontrarci ci siamo sentiti al telefono e ci siamo detti una cosa: ho letto di casi di donne che si sono trovate nella situazione che tu mi dicevi – figlio tolto perché non era in grado di sostenerlo economicamente. Queste donne si lamentavano del fatto che nelle case famiglie per la gestione dei bambini lo Stato spende circa 50 euro al giorno. Se faccio i cosiddetti “conti della nonna”: 50 euro al giorno per 30 giorni vengono fuori 1500 euro. Tu sei donna, sei mamma, anche nonna mi hai detto … sappiamo bene che una madre con anche la metà, anche un terzo farebbe di suo figlio davvero un principe, o sbaglio?
Sì! Io vorrei cercare di far arrivare la mia voce, come quella degli altri operatori dei centri antiviolenza, sul tavolo di chi ci governa. È stato tolto il reddito di cittadinanza in quanto troppe lacune nella gestione dei controlli ma di fronte a questi fatti non avrebbe senso di provvedere “immediatamente” ad un reddito che possa tamponare le necessità impellenti di queste donne


Quindi tu saresti d’accordo a che il governo possa generare una sorta di “paracadute economico” per gestire queste situazioni proprio in virtù di quello che ci siamo detti cioè evitare l’isolamento in cui rischiano di finire poi le donne?
Certo che si sarebbe uno degli elementi che metterebbe in sicurezza le persone vittime di violenza, ti dico, tra le altre cose, che ci sono anche molti uomini che vivono la stessa situazione. Cioè permetterebbe loro di vivere in una situazione di maggiore tranquillità. E lo dico perché da prima linea vivo costantemente le paure di queste persone vittime di violenza che si trovano davvero alla mercè, oltre che fisica e psicologica, a dovere dipendere, per sopravvivere, dai loro aggressori dal punto di vista economico.
Quindi, se non ho capito male, quando parli di “prima linea” mi stai confermando il mio pensiero: vengono prima da te che dai carabinieri a denunciare le aggressioni?
Certo che si in quanto la difficoltà maggiore che incontrano queste vittime di violenza è strettamente collegata al fatto di sentirsi sole e di non avere alcun appoggio di fronte a queste situazioni e noi abbiamo il dovere di renderle coscienti anche dei rischi che si troverebbero di fronte ad una eventuale denuncia che rischia di isolarla ancora di più.

In che senso, scusami?
Per quello che ci siamo detti fin ora. Io denuncio resto da sola con mio figlio, il mio aggressore è l’unico che lavora … mi spieghi dove va questa donna a vivere e con quali soldi? E se ci aggiungiamo che in queste situazioni vengono allontanate dal contesto violento e messe in sicurezza senza, molte volte, neanche la possibilità di poter uscire mentre, troppe volte, assistiamo agli aggressori che se la spassano tranquillamente in giro. Quindi una protezione che diventa una sorta di “arresto domiciliare” che non fa altro che generare ulteriore disequilibrio per la persona vittima di aggressione che diventa così isolata, spesso anche senza la possibilità di telefonare a quei pochi amici o amiche. Faccio io una domanda a te: tu riusciresti a vivere cosi?

Di certo no, te lo posso assicurare. Quindi questa in apparenza “blindatura” diventa un vero e proprio isolamento mentre il “mostro”, l’aggressore, se la spassa in giro?
Certo ho assistito ed assisto a numerosi casi di questo genere dove la vittima è isolata e l’aggressore se la spassa in totale tranquillità e se ci sono bambini questi finiscono per la loro “sicurezza” in una casa famiglia spesso separati dal genitore vittima di aggressione.
Io faccio un salto indietro perché mi frulla una cosa in testa: tu all’inizio mi hai parlato di “pericolo imminente” all’interno della denuncia ma poi è il giudice che deve decidere se il “pericolo è imminente o meno”?
No, vuole tutte le fotografie, vuole tutte gli audio che devi mettere da parte a testimonianza delle aggressioni. Per cui se una donna, per esempio, non ce l’ha queste queste cose, o magari ha cambiato telefono bisogna predisporre un altro iter che ovviamente allunga ancora di più i tempi di intervento.

Allora, se ho ben capito, è sempre la soggettività di un giudice che decide.
Sì!

Quindi se lui ravvisa che non c’è rischio se ne assume pure la responsabilità?
Si, dovrebbe essere così

Ragionando per ipotesi: la donna o l’uomo vittima di aggressione vengono uccise dall’aggressore la responsabilità, teoricamente, andrebbe in capo al giudice?
In teoria si, ma non lo è! Ed è questo che non riesco a capire: questa norma che, nella visione, dovrebbe garantire non ha strumenti concreti ed immediati per aiutare le vittime di violenza.

Allora provo a girare la domanda. Se tu domani avessi la possibilità, conoscendo, perché le vivi, le necessità ed i bisogni delle vittime di violenza, quali correzioni porteresti al cosiddetto “Codice Rosso”?
Attuare immediatamente un programma di protezione alla vittima, ma lasciandola libera nella sua casa, magari con i suoi figli, aiutandola magari economicamente ed il carnefice deve essere allontanato. Ti dico che, ad esempio, perché a me piace parlare sul dato concreto, io ho donne che stiamo assistendo e l’unico modo è mandarle in delle strutture in Calabria allontanadole dal loro contesto sociale, famigliare che è invece da sempre qui ai Castelli Romani e la loro colpa è essere vittime di violenza. Quindi oltre il danno la beffa di essere allontanate dai loro spazi di vita.

Anche perché, correggimi se sbaglio, in questo modo gli eventuali figli e anche le condizioni psicologiche di queste persone subirebbero ulteriori danni davvero poi non più quantificabili.
Correttissimo perché, sempre per esperienza, si assiste davvero ad uno sfilacciamento anche del rapporto, ad esempio, tra la mamma, vittima di aggressione, con dei figli. Questi poi si sentono davvero isolati con è un padre violento, con tutte le ripercussioni che questo può generare loro, ed una madre lontana che spesso fatica pure nel mantenere con loro dei rapporti genitoriali completi.

Questa è la prima parte dell’intervista rilasciataci da Rosy Andreacchio, vicepresidente del Centro Antiviolenza Margherita, sezione Castelli Romani, di Frascati.

Domani pubblicheremo la seconda parte nella quale verranno evidenziati anche i problemi delle violenze effettuate da minori verso i loro famigliari.

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Oriana Fallaci: Il coraggio della verità

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Scusaci Oriana,
non ti abbiamo proprio capito.

Non solo ci avevi messi in guardia ma avevi lasciato che quello che tu chiamavi “alieno che vive in me” ti divorasse perché ritenevi più importante educarci alla riscossa dell’Occidente che salvare la tua vita.

Dopo quasi 20 anni dalla tua scomparsa– te ne andasti via in silenzio quel 15 settembre 2006 – siamo ancora con quell’estremismo islamico mascherato da buonismo che si insinua nel nostro pianeta con la rapidità di un virus al quale non siamo un grado di porre rimedio o, meglio, non vogliamo porre rimedio.

Le tue parole, i tuoi gesti, anche estremi, il chador buttato a terra – cencio da medioevo -, non hanno fatto presa.

Purtroppo un ecumenismo buonista ci copre gli occhi.

Gli Stati Uniti, un tempo custodi di un ordine mondiale democratico, si inginocchiano per l’ennesima volta di fronte alle guerriglie talebane divenendo, ancora una volta, artefici di confusione e non di libertà.

Le donne afgane tornano ad essere al pari di animali da riproduzione e nessuna voce si scaglia più contro questa ignominia.

Il sangue di giovani soldati occidentali sparso sulla terra non grida solo giustizia ma verità e rispetto per la loro missione di democrazia.

Il sangue di troppe giovani vittime colpevoli solo di vivere “nella parte sbagliata del mondo” muoiono sotto “bombe intelligenti” che dimostrano, sempre di più, la “stupidità del genere umano”.

Senza dimenticare la continua corsa ad un riarmo che in apparenza vuole imporre la pace ma poi diventa solo “fabbrica di morti”.

Scusami se mi rivolgo a te solo oggi.

Ma sento attorno a me il silenzio della rassegnazione di un mondo prono alla violenza.
Sento l’ipocrisia di chi vorrebbe un mondo organizzato dall’alto con scelte di chi, nel mondo, ormai non vive più perché abituato alle mollezze di un cultura che vuole essere solo di morte e non più di vita.

Oggi saresti stata l’emblema vivente di una riscossa necessaria ad un mondo senza più attributi né coraggio.

Saresti quel punto di riferimento di chi, come me e tanti altri, crede ancora nella possibilità che questo martoriato mondo possa tornare ad essere luogo di pace, di rispetto reciproco, luogo in cui le “libertà individuali” possano divenire valore aggiunto.

Ma, purtroppo, non ci sei più e sentiamo terribilmente la tua mancanza.
Ci manchi, mi manchi!

15 settembre 2006 – 15 settembre 2024

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Editoriali

Omosessualità, il caso del Vescovo Reina e le ombre sulla formazione nei seminari

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L’inchiesta sul Vescovo Reina getta luce su presunte problematiche all’interno della Chiesa, alimentando il dibattito sulla formazione dei sacerdoti e il trattamento dell’omosessualità nei seminari cattolici

L’omosessualità, la maturità umana e i requisiti per il sacerdozio sono temi centrali di un dibattito che negli ultimi anni ha assunto una dimensione sempre più rilevante all’interno della Chiesa Cattolica.

Questo approfondimento de L’Osservatore d’Italia intende analizzare il contesto che coinvolge il Vescovo Baldo Reina, ex rettore del seminario di Agrigento, accusato di aver adottato pratiche discutibili nella formazione dei seminaristi, in particolare riguardo ai candidati con tendenze omosessuali.

La vicenda è stata approfondita in una recente inchiesta giornalistica, che solleva interrogativi sulle dinamiche di discernimento, il rispetto dei “fori” interno ed esterno e la condotta morale all’interno dei seminari cattolici.

La formazione nei seminari: un quadro confuso

Un primo elemento critico è la mancanza di un progetto formativo univoco che regoli la formazione dei seminaristi in modo uniforme in tutta la Chiesa cattolica.
I seminari, infatti, seguono orientamenti e approcci diversi, il che complica il processo di valutazione dei candidati al sacerdozio. In questo contesto, emergono problematiche legate alla gestione delle tendenze omosessuali e al modo in cui queste vengono affrontate durante la formazione.

La Chiesa Cattolica ha stabilito una distinzione tra due concetti fondamentali nella gestione della formazione: il foro interno e il foro esterno. Il primo riguarda l’intimità spirituale e personale del candidato, tutelato dal sigillo sacramentale e gestito da padri spirituali e confessori. Il secondo concerne la dimensione pubblica e formativa del seminarista, supervisionata da rettori e insegnanti. Tuttavia, il confine tra questi due “fori” non sempre viene rispettato, come dimostrato nel caso del seminario di Agrigento.

Tanto si potrebbe scrivere sulle origini e sviluppo della coscienza ecclesiale di questi due “fori” ma prendiamo un intervento di Papa Francesco che vale a spiegare bene in cosa consista: «E vorrei aggiungere – fuori testo – una parola sul termine “foro interno”. Questa non è un’espressione a vanvera: è detta sul serio! Foro interno è foro interno e non può uscire all’esterno. E questo lo dico perché mi sono accorto che in alcuni gruppi nella Chiesa, gli incaricati, i superiori – diciamo così – mescolano le due cose e prendono dal foro interno per le decisioni in quello all’esterno, e viceversa. Per favore, questo è peccato! È un peccato contro la dignità della persona che si fida del sacerdote, manifesta la propria realtà per chiedere il perdono, e poi la si usa per sistemare le cose di un gruppo o di un movimento, forse – non so, invento –, forse persino di una nuova congregazione, non so. Ma foro interno è foro interno. È una cosa sacra. Questo volevo dirlo, perché sono preoccupato di questo». (Papa Francesco – Presentazione della nota sull’importanza del Foro Interno e l’inviolabilità del sigillo sacramentale, 29 giugno 2019.)

La nota sull’intervento, ovviamente, ci aiuta a capire dalle stesse parole di Papa Francesco l’importanza e la serietà con cui vengono visti i due “fori”, specialmente quello interno.

Il caso di Agrigento: “Libertà” o pressioni?

Nel seminario di Agrigento, sotto la direzione di Baldo Reina, un giovane seminarista con tendenze omosessuali è stato inviato a seguire un percorso noto come “Verdad y Libertad”, un programma di guarigione dall’omosessualità, ampiamente criticato e condannato sia dalla comunità scientifica che dalla Chiesa stessa.

La decisione di sottoporre il giovane a questo programma, che ha provocato disorientamento e danni psicologici, è stata presa nel foro esterno, sotto la supervisione di Reina quando era rettore del seminario di Agrigento.

Questo solleva questioni etiche e pastorali, poiché la proposta di partecipare a tali programmi dovrebbe avvenire con il consenso del seminarista, che però si è trovato di fronte a pressioni implicite per conformarsi.

L’elemento più inquietante è l’assenza di separazione tra foro interno ed esterno: il seminarista, che si è confidato spiritualmente, è stato poi giudicato e obbligato a seguire un percorso di “cura” che violava i principi di riservatezza e rispetto del foro interno. Questo modus operandi è stato fortemente criticato, poiché ha sovrapposto il giudizio spirituale a quello formativo, con effetti devastanti sulla persona coinvolta.

Le critiche a Reina: Un giudice unico?

Reina ha agito come giudice unico nel caso del seminarista, dimostrando una gestione della formazione caratterizzata da un’autorità indiscutibile e da un’interpretazione rigida delle norme. L’inchiesta pubblicata su “Domani” evidenzia come il percorso imposto al giovane seminarista non solo mancasse di fondamento medico e psicologico, ma fosse anche moralmente discutibile. Le pratiche proposte dal programma “Verdad y Libertad” sono state condannate in vari paesi, compresa la Spagna, e ritenute contrarie agli insegnamenti della Chiesa stessa (QUI L’ARTICOLO DEL QUOTIDIANO DOMANI).

Un clima di tensione nella Diocesi di Roma

La nomina di Baldo Reina come vescovo ausiliare di Roma ha sollevato preoccupazioni anche per la gestione della Diocesi di Roma, in particolare per quanto riguarda la gestione del patrimonio immobiliare e le dinamiche interne al Vicariato. La presenza di figure discusse, come Don Renato Tarantelli Baccari, ex avvocato diventato sacerdote, e Mons. Michele Di Tolve, ex rettore del seminario lombardo, ha creato un clima di sfiducia e tensione tra i sacerdoti romani. La mancanza di trasparenza e il rischio di favoritismi hanno alimentato il malcontento.

Il caso del Vescovo Reina solleva questioni profonde su come la Chiesa Cattolica gestisce la formazione dei futuri sacerdoti, soprattutto quando si tratta di tematiche delicate come l’omosessualità. L’assenza di un progetto formativo chiaro e la mancata distinzione tra foro interno ed esterno espongono i candidati a pressioni psicologiche e morali che possono compromettere il loro percorso. La Chiesa dovrà riflettere su questi episodi per garantire un ambiente di formazione più rispettoso e trasparente, evitando che si ripetano errori simili.

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