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EMIGRATI DIMENTICATI

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Tempo di lettura 4 minuti L’emigrazione autentica è quella che inizia cento anni prima del 1870. E questa fu la emigrazione dalla Valcomino.

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di Michele Santulli  [ Già pubblicato sull'edizione de L'osservatore d'Italia sfogliabile di domenica 18 maggio 2014 – per consultare www.osservatoreitalia.com ]

Entrare nel  Museo Nazionale dell’Emigrazione Italiana al Vittoriano di Roma è come entrare in una sala da ballo: luci psichedeliche, musichette, macchinette video: cioè vi trovi tutto e in sostanza non vi trovi nulla o quasi: un museo “nazionale” dove curiosamente si fa iniziare il fenomeno dell’emigrazione solo dopo il 1870. Emigrazione certamente, quella postunitaria, ma ancora di più un esodo, una diaspora, e non solo italiana, massimamente aldilà dell’oceano, quasi una invasione, come è successo e sta succedendo oggi. La molla è sempre la stessa: fame e miseria.

Ma emigrazione può essere ed è anche qualcosa di altro: non solo ricerca del pane ma anche, e a volte solamente, avventura, pionierismo, volontà di scoperta, una nuova Patria, col sussidio di sacrifici enormi, di rinunce, pericoli. E’ il lontano occidente americano, il Far West, divenuto un mito e un paradigma, è la Terra Promessa degli Ebrei che fuggono dall’Egitto. Molte motivazioni e impulsi. L’emigrazione autentica è quella che inizia cento anni prima del 1870. E questo fu la emigrazione dalla Valcomino.

E’ vero, fame, miseria, aumento delle bocche da sfamare, soprusi e violenze dei signorotti e non solo, situazione non più sopportabile ma anche avventura, spirito libertario, aspirazione e nostalgia di una Patria nuova e di un mondo nuovo e migliore. Un flusso continuo iniziato alla fine del 1700 e riversatosi nell’altra parte del territorio cioè verso le Paludi Pontine, verso Terracina, Anzio, Nettuno e le  cittadine sulla Via Appia, in particolare Velletri e, allo stesso tempo, verso Roma e verso le Alpi.

E di questa autentica epopea vogliamo rammentare una componente, la più terribile, quella della vera e propria “tratta dei bambini”. I genitori che, in cambio di un po’ di soldi, affittavano, o vendevano, i loro figli, normalmente per un periodo di tre anni, a dei personaggi, i cosiddetti “padroni", che si industriavano per portarli nelle grandi città e maggiormente in Francia ed Inghilterra dove li obbligavano ai mestieri più umili e duri. Lustrascarpe, venditori per le strade di statuette di gesso e di santini o di altre immagini o di fiammiferi, sguatteri, facchini, mendicanti, suonatori di organetto, spazzacamini, in certe fabbriche, senza cure, senza pulizia, alloggiati in tuguri infimi, nella promiscuità e abiezione più ripugnanti. Un diplomatico italiano, calcolò che di cento di questi infelici bambini, che verso la metà dell’Ottocento nella sola Inghilterra ammontavano a circa tremila, un cinquanta per cento moriva per le privazioni e gli stenti, un trenta per cento riusciva a fuggire e a liberarsi e un venti per cento proseguiva l’attività di sfruttamento appresa dai padroni.

E questi bimbi malfamati sporchi e laceri per le vie di Londra rappresentavano un motivo di continua umiliazione e cruccio per i benpensanti e anche per gli organi dello Stato. Londra a quell’epoca, come anche oggi, era, come si dice, l’ombelico del mondo, la capitale del Commonwealth, una città ricca e perciò tale contingenza umana  saltava particolarmente agli occhi. Le età di questi sfortunati bimbi andavano dagli otto ai quattordici anni circa. Già Londra si era occupata di tale problema dei propri bambini  alcuni anni prima grazie alle denunce puntuali di Charles Dickens attraverso i suoi famosi tabella e libri, ed aveva provveduto alla eliminazione della piaga ma ora si trovava di fronte quella rappresentata dai giovanissimi immigrati italiani, provenienti in quantità maggiore da alcuni paesini sperduti sulle montagne della Valcomino e in particolare da certe frazioni di Picinisco e di Villalatina o delle Mainarde oggi molisane.

A quell’epoca nessuno conosceva la Valcomino, questo territorio appartato di Alta Terra di Lavoro che veniva confuso regolarmente con il concetto di “Abruzzi”. E fu un personaggio della Storia d’Italia, ancora non compreso pienamente nel suo alto valore e nel suo significato a seguito di una storiografia non di rado parziale e partigiana,  stiamo parlando di Giuseppe Mazzini, che unico e solo e per primo si occupò fattivamente di questa infelice umanità abbandonata, preda dello sfruttamento e della disperazione. Tutti sanno che il patriota  fu costretto all’esilio a Londra già dal 1837 e vi rimase per oltre trenta anni, fino al 1868, quattro anni prima della fine. E guardandosi attorno a poco a poco capì e si rese conto del fenomeno dello sfruttamento e della violenza cui venivano sottoposti questi bimbi abbandonati.  E perciò decise di offrire loro l’unica arma possibile per un riscatto autentico e  per l’affrancamento: l’istruzione, la cultura. E quindi a costo di ulteriori rinunce personali  e  con il sostegno di personaggi inglesi della cultura e dell’arte coi quali nel frattempo era entrato in contatto quali lo storico Thomas Carlyle, i poeti Rob Browning e Algernon Swinburne, la vedova del poeta George Byron, il filosofo John Stuart Mill ed altri, fondò una scuola per questi bambini che venne aperta il 10 novembre1841, data anche questa da non dimenticare nella storia della emigrazione italiana soprattutto e principalmente ciociara, data che tra l’altro documenta e prova l’anacronisma dei motivi ispiratori del suddetto Museo Nazionale della Emigrazione. La scuola sorse in una zona a quell’epoca tra le più degradate di Londra a Hatton Garden, poi trasferita in una strada vicina, a contatto con il quartiere di Clerkenwell, abitato quasi esclusivamente da Italiani specie ciociari, dove in quegli anni sorse anche una chiesa italiana: la chiesa di San Pietro (1869-71), oggi ancora sul posto. La scuola fondata da Giuseppe Mazzini si svolgeva solo la sera e vi si insegnavano le discipline indispensabili all’apprendimento basilare. Le lezioni si svolgevano anche la domenica e in questo giorno impartiva le sue lezioni di cultura italiana lo stesso Giuseppe Mazzini. La scuola fu seguita e patrocinata anche da Charles Dickens che ben conosceva i luoghi dove aveva ambientato anche qualche sua opera quale per esempio “Oliver Twist”. Non è escluso che frequentassero la scuola anche i modelli che a quell’epoca iniziavano ad arrivare a Londra quali  Angelo Colarossi e Alessandro De Marco, entrambi di Picinisco.

La scuola ebbe una lunga vita, sempre frequentata e seguita sia dagli alunni sia dai promotori, durò venti anni. Ogni ricorrenza del dieci novembre gli alunni e i promotori e gli insegnanti si riunivano e festeggiavano l’avvenimento. Se si desidera conoscere più approfonditamente questa pagina di storia anche ciociara, allora raccomando la lettura di un libretto scritto nel 1999 da un ricercatore della Università di Pisa, il Prof. Michele Finelli: “Il prezioso elemento. Giuseppe Mazzini e gli emigranti italiani nella esperienza della
scuola italiana a Londra”. E dire che nella Ciociaria frusinate, a riprova ulteriore del degrado culturale e morale che l’attanaglia, non mi pare che vi sia un qualcosa, una via o una piazza, che ricordi gli emigranti ciociari e la loro lunga epopea per le vie del mondo.

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Editoriali

Corsi di recupero per i debiti formativi: dettagli ed efficacia

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Ogni scrutinio di classe è diverso e proprio per questo possono essere decretate promozioni, bocciature o sospensioni di giudizio, nonché i cosiddetti debiti formativi.

In questo articolo non si vuole tanto commentare la decisione di dare 1 o 2 o 3 debiti formativi in una o più discipline, quanto l’efficienza dei corsi formativi che dovrebbero aiutare lo studente, in sospensione di giudizio, a ripassare la materia/e per poi dare l’esame “riparativo” da fine agosto a inizio settembre.

La regola ministeriale sancisce che chi “salda” il debito/i passa all’anno scolastico successivo e chi non lo supera dovrà ripetere l’anno.

Quello che spesso ci si domanda, tra docenti, è quanto l’alunno riesca a comprendere dal corso formativo e quanto sia utile lo studio individuale.

Sicuramente, il corso formativo aiuta l’alunno a ristudiare i punti di fragilità della disciplina in cui ha il debito, ma un buono studio individuale può rendere maggiormente efficace il recupero.

In questo caso, sarebbe necessario avere un’insegnante esterno che possa aiutare lo studente a focalizzarsi sui punti chiave svolti a lezione.

Essenzialmente, per questi motivi sarebbe idoneo:

  • 1. Focalizzare per memorizzare, ma anche per comprendere;
  • 2. Produrre uno schema riassuntivo sugli argomenti che appaiono più fragili da apprendere;
  • 3. Leggere gli schemi e i riassunti ad alta voce;
  • 4. Non darsi un tempo nello studio poiché ogni persona ha i suoi di tempi;
  • 5. Ripetere i concetti chiave più e più volte;
  • 6. Passare ad argomenti successivi;
  • 7. Produrre testi o comprensioni scritte per esercitarsi;
  • 8. Nella fase finale ripassare tutto a scaglioni.

Pertanto, costruirsi uno schema mentale è molto utile sia per l’alunno che per l’insegnante che, caso mai segue, individualmente il ragazzo/a.

Ecco, secondo questa progettualità di recupero, lo studente con debito/i potrebbe arrivare a risultati efficaci e fare “bella figura” davanti alla commissione di recupero. Tuttavia, la proposta vincente è si ai corsi formativi, ma anche un grande si allo studio individuale oppure accompagnato da un docente in rapporto 1/1.

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Editoriali

La linguistica italiana: qual’è l’elemento che si oppone al suo cospetto?

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La lingua italiana nel corso dei secoli ci ha lasciato poemi, trattati, racconti e storie che al giorno d’oggi necessitano di essere interpretati da esperti ( o non ) per poterli conoscere nella loro anima. Pensiamo alla Divina Commedia di Dante Alighieri nella versione volgare dell’italiano … ecco in questo caso per interpretarla dobbiamo “tradurla nell’italiano che si parla oggi”.

Gli studiosi, i docenti possono tradurla, ma chi non è erudito o non possiede le strumentazioni adatte (vocabolari, la conoscenza della storia della lingua italiana etc …) fa sicuramente più fatica a comprenderne il significato.
Tutto quello che la lingua italiana ci ha lasciato necessita di essere analizzato poiché come primo requisito per una giusta comprensione del poema è sapere quando è stato scritto? dove è stato scritto (in quale paese)? che influenze ha subito da parte di altre lingue? quale storia c’è dietro a quel racconto?

Parlare di interpretazione linguistica è banale, si necessità di una vera e propria traduzione, ad esempio dall’italiano volgare del 1200 a quello del 1800.
Ogni epoca ha delle caratteristiche linguistiche in termini diacronici che nessuno può modificare.

Come reca il titolo dell’articolo esiste un elemento che si oppone alla pura lingua italiana (così come la conosciamo oggi): il dialetto.

In molti paesi della nostra penisola il dialetto è conservato e tutt’ora oggi si mantiene vivo. Questo accade sia al nord, al centro che al sud Italia.

L’utilizzo del dialetto, considerato una lingua a tutti gli effetti, è molto in voga in Italia poiché molte persone vogliono mantenere le proprie origini e, non solo, anche la propria unicità/identità. Per tali motivi, assolutamente non banali, la lingua italiana si confronta anche con i vari dialetti.

La dialettofonia rappresenta il suono delle parole di un determinato registro linguistico tipico di una parte della nostra Italia. A volte il solo aspetto fonetico delle parole dialettali ci permette di riconoscere, ad esempio, da quale regione arriva quella tal persona.
Il dialetto “ricalca”, in senso figurato, uno stemma che ciascuno di noi porta nel suo DNA e che non può cancellare. Tuttavia, se una persona non parla il suo dialetto non vuol dire che non gli piaccia o che non sa esprimersi, ma semplicemente possono esserci delle abitudini pregresse che non gli consentono di utilizzare il dialetto.

Solitamente questo è il caso dei giovani d’oggi che preferiscono gli slang ai codici linguistici del proprio dialetto. Una caratteristica sicuramente positiva è mantenere vive le forme dialettali a favore di un loro utilizzo altrettanto diffuso.

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Roma, aggressioni e borseggi in metro. Riccardi (UdC): “Linea più dura per garantire la sicurezza pubblica”

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“Ci troviamo ad affrontare un problema che il Governo non può più ignorare: i borseggiatori operano impuniti nelle metropolitane di Roma. Questa situazione è inaccettabile e richiede un intervento deciso e immediato. Ritengo che la sicurezza dei cittadini debba essere una priorità assoluta e che la moderazione non significhi inazione”.
È assai dura la reazione del commissario cittadino di Roma Capitale dell’UdC, il dottor Roberto Riccardi, circa le continue, ripetute aggressioni e borseggi nella Capitale.

Dottor Riccardi secondo Lei dove bisogna intervenire in fretta nella legislazione italiana in tale materia?
I recenti episodi di furto nei mezzi pubblici mettono in luce una legislazione troppo permissiva. La normativa attuale, che prevede l’intervento delle Forze dell’Ordine solo su querela dei borseggiati, è del tutto inefficace. Questo non solo rallenta l’intervento delle autorità, ma spesso disincentiva le vittime a denunciare, sapendo che le conseguenze per i borseggiatori saranno minime o inesistenti.
Le leggi attuali non sono sufficienti per contrastare efficacemente questo fenomeno. È necessario un cambio di rotta deciso.

il commissario cittadino UdC di Roma Capitale, dottor Roberto Riccardi

E cosa può fare in più, in questo frangente, l’organo giudiziario?
Bisogna smettere di essere troppo indulgenti con i delinquenti. Va adottata una linea più dura per garantire la sicurezza pubblica.
Lei rappresenta uno dei partiti di governo nazionale. Esiste una vostra “ricetta” in merito?
Ecco le misure che proponiamo; arresto obbligatorio per i borseggiatori con l’introduzione dell’arresto obbligatorio per chiunque venga colto in flagrante a commettere furti nei mezzi pubblici. Questo deterrente è essenziale per scoraggiare i delinquenti e proteggere i cittadini.
Modifica della normativa vigente; bisogna consentire l’intervento delle Forze dell’Ordine anche in assenza di querela da parte della vittima, permettendo un’azione tempestiva e decisa contro i borseggiatori.
Inasprimento delle pene ed introduzione di sanzioni più severe per i reati di furto, specialmente quando commessi in luoghi pubblici e affollati come le metropolitane.
Campagne di sensibilizzazione informando i cittadini sui loro diritti e sull’importanza di denunciare ogni atto di borseggio, contribuendo così a creare una comunità più sicura e coesa.
Ma Lei crede che con tali misure si possa mettere un argine alla questione che preoccupa non solo i romani ma le decine di migliaia di turisti che ogni giorno arrivano nella capitale?
Non possiamo più permetterci di essere indulgenti. Dobbiamo agire con fermezza per garantire la sicurezza di tutti i nostri cittadini.
Le Forze dell’Ordine devono essere messe nelle condizioni di poter agire senza ritardi e senza ostacoli burocratici.
Dobbiamo essere determinati nello spuntare le armi dei buonisti ed a ripristinare la legalità nelle nostre strade e nelle nostre metropolitane. Solo con un intervento deciso e risoluto potremo garantire una Roma più sicura e vivibile per tutti.

Risposte chiare e concrete quelle del commissario cittadino UdC di Roma Capitale Roberto Riccardi.
Ci auguriamo che questa volta la politica affronti davvero con tale determinazione questa assenza di sicurezza per i romani e per le migliaia di turisti che si apprestano a giungere nella Capitale per l’imminente apertura, il 24 dicembre 2024, dell’Anno Giubilare.

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