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Editoriali

STAMINA E CURE COMPASSIONEVOLI: 50 MILA FIRME PER UNA LEGGE CHE TUTELI IL DIRITTO ALLA CURA

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Tempo di lettura 6 minuti Ora ci chiediamo come abbia fatto lo stesso Uccelli ad accettare la nomina avendo in seno un altro conflitto enorme, quello di essere il titolare di una sperimentazione clinica già avviata

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di Cinzia Marchegiani


Alla presidente dell’associazione Alleanza, la dottoressa Elisa Salvi Visconti non piacciono i giri di parole, e va dritta al cuore di una maratona che sente sulle proprie gambe:

La proposta di legge popolare che abbiamo depositato ha un duplice obiettivo, recuperare il diritto leso dagli aventi diritto (ordinanze dei giudici di lavoro e agire sul decreto legge e legge sulle cure compassionevoli) applicando lo strumento legislativo per il diritto alla cura e all’equità della cura, integrativo a tutte le azioni finora svolte. L’azione di tutela si innesca quando, lo Stato e gli enti di rappresentanza, (in questo caso nella fattispecie l’AIFA, la Regione Lombardia e gli Spedali Civili) non svolgono appieno i loro compiti, essendo corresponsabili del diritto leso. Il nostro obiettivo è vigilare sulle azioni di governo istituzionali e degli enti esigendo atti di chiarezza nei confronti dei cittadini, sia risolutori che risarcitori. Quando i diritti sono lesi vanno ripristinati!

Così come anticipato una settimana fa, le 17 persone portavoce del neo Comitato Promotore Cure Compassionevoli si sono date appuntamento a Roma al Superior Hotel, nella sala Cicerone:

Grazie alla Giurista Annalisa Cutolo, che ha curato e studiato questo importante strumento di giustizia, abbiamo depositato la proposta di legge popolare, che a giorni sarà notificato dalla Gazzetta Ufficiale. Serviranno 50 mila firme per chiedere la responsabilità allo Stato di rispondere alla scelta fatta nel 28 settembre 2011, quando venne firmata convenzione tra Stamina Foundation e gli Spedali Civili di Brescia con il nulla osta dell’Aifa, ma anche la corresponsabilità della Regione Lombardia e dell’AIFA stessa.

I portavoce del Comitato Promotore Cure Compassionevoli rappresentano le persone che sono in lista agli Spedali Civili di Brescia, quelle già infuse e quelle che ancora non hanno acquisito l’ordinanze di autorizzazione dei giudici del lavoro.

La Proposta di Legge Popolare mira all’accesso delle cure compassionevoli, senza i limiti normativi attuali che violano non solo gli tabella 2-3-29-30-32 della nostra carta Costituzionale, ma che violano altri 7 tabella internazionali”,conclude il presidente di Alleanza. Sicuramente questa nuova iniziativa sarà da supporto e strumento normativo alle tante associazioni e movimenti nati sul territorio nazionale che difendono non solo il diritto alla vita, ma anche al diritto di poter essere tutelati dallo Stato che si è fatto garante di legiferare una sperimentazione, ma soprattutto per far rispettare il principio che tutti i malati hanno gli stessi diritti, è illogico dover pretendere di ricorrere ad un giudice affinché si possa disporre l’autorizzazione a ricevere una terapia ad uso compassionevole…(non tutti hanno le stesse disponibilità economiche), per non parlare del fiume di denaro pubblico, gestiti dalla direzione del nosocomio di Brescia che paga profumatamente un avvocato per opporsi alle sentenze dei giudici che vanno a favore dei malati…una pratica che fotografa la massima inciviltà che un paese democratico può mettere in pratica.
Una campagna per la raccolta delle firme, mira a ristabilire il diritto leso dei malati che lo hanno acquisito e per quelli che invece ancora lo attendono. Questa è l’Italia dei paradossi che fa scendere in campo le stesse vittime dei vuoti legislativi e dei silenzi istituzionali, per contrastare la violazione e sopruso sui malati e soprattutto sui minori. Con la proposta di legge popolare si può gettare le basi per difendere un diritto sancito dalla costituzione, un segnale che dovrebbe essere condiviso da tutti i cittadini e non solo dai malati.
Mentre continua il governo a perder tempo con la commissione conoscitiva sul caso Stamina, presieduto da una ricercatrice ora senatrice all’interno della Commissione Igiene e Sanità, Elena Cattaneo che ha molto da spiegare agli italiani quali cause sta perorando all’interno del senato e dimostrare che non ledono con i molti conflitti d’interesse che per etica e onestà intellettuale dovrebbe scongiurare, il tempo inesorabile è il vero protagonista di questi valzer infiniti.

La Lorenzin, si è dimostrata un ministro della salute con dubbie capacità di gestione anche riguardo le nomine di una commissione scientifica, visto che in tempi meno sospetti noi dell’Osservatore d’Italia avevamo fatto luce sul prof. Antonio Uccelli, portatore di conflitto d’interesse.

Ora ci chiediamo come abbia fatto lo stesso Uccelli ad accettare la nomina, visto che non solo si era espresso su stamina in modo poco elegante sulla sentenza del TAR del Lazio, ma avendo in seno un altro conflitto enorme, quello di essere il titolare di una sperimentazione clinica già avviata e che ha superato la fase I, proprio sulle cellule staminali mesenchimali.

Ci sono troppe responsabilità istituzionali e sembra un gioco a chi riesce a perder tempo, una mancanza di rispetto e serietà per le vite preziose dei malati che chiedono solo il diritto ad una cura ad uso compassionevole, giacché lo stato ne garantisce una palliativa che non cura ma accompagna alla morte!

I malati e i sostenitori del diritto alla vita hanno messo in campo uno strumento democratico, un grande insegnamento per chi ha dimenticato la sua funzione nel governo dovrebbe che dovrebbe sempre avere in agenda questi principi. Il diritto e il potere non possono essere alleati in una civiltà dove la democrazia e la sua carta costituzionale sono i loro guardiani.


La Dott.ssa Salvi Visconti comunicherà, una volta pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la proposta di Legge Popolare, attraverso la conferenza stampa di star up in che avverrà contemporaneamente in molte regioni, e anticiperà il comunicato da cui partirà la documentazione e la modalità della raccolta delle firme.
La maratona per la dignità e il rispetto alla vita ha preso forma. I cittadini insegnano ai politici che la coscienza della collettività non è ancora assopita.

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Codice Rosso: un’arma spuntata contro la violenza? [PRIMA PARTE]

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L’intervista a Rosy Andreacchio vicepresidente del Centro Antiviolenza Margherita di Frascati

La violenza occupa sempre di più le pagine di giornali, televisione, web.
La legge 69/2019, nota come Codice Rosso, ha introdotto una serie di strumenti di materie di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere.

A Frascati opera ormai dalla fine del 2023 un Centro Antiviolenza, il Centro Antiviolenza Margherita sezione Castelli Romani, ospitato, grazie al parroco di Cocciano don Franz Vicentini, nei locali della Parrocchia di San Giuseppe Lavoratore.

Abbiamo incontrato Rosy Andreacchio, vicepresidente del Centro Antiviolenza Margherita sezione Castelli Romani al quale abbiamo rivolto alcune domande.

Nella foto don Franz Vicentini, parroco della Parrocchia San Giuseppe Lavoratore di Cocciano e Rosy Andreacchio vicepresidente del Centro Antiviolenza Margherita di Frascati

Innanzitutto grazie per la tua disponibilità e grazie per il servizio che gratuitamente riuscite ad offrire a decine di vittime di violenza che spesso trovano porte chiuse di fronte alle loro problematiche.

Io ho l’abitudine di andare dritto alla questione: cosa succede quando una persona, una vittima di violenza viene da te. Quale è il tuo approccio?
Loro si presentano da me al Centro ma sono molto restie, purtroppo, perché sanno che vanno incontro a tutta una serie di situazione che rischiano di trasformarle da vittime in “carnefici” di sé stesse.

Cioè spiegami meglio
Purtroppo, questo tipo di legislazione di legge che abbiamo porta, diciamo, a questo finale in quanto sono tante le donne che subiscono violenza ma solo 1 su 10 che la subisce poi arriva alla denuncia … le altre no e questo perché hanno paura. Hanno paura in quanto restano sole senza alcun aiuto concreto. Non c’è nessuno, o meglio sono pochissimi gli apparati, diciamo sociali, amministrativi, comunali che riescono a stare al fianco delle donne. La loro paura, che poi diventa realtà, è che alla fine tutto gli si ritorca contro, incominciando dagli altri.


Quindi sole durante la violenza, sole dopo la violenza, quindi il rischio diventa questo.
Si!

Quindi, per capire: io mi rivolgo al centro di violenza antiviolenza perché sono sola, trovo sicuramente te operatrice che mi dai una mano, ma poi chi dovrebbe compiere l’azione di blindare la persona non c’è! Giusto?
Sì! Non c’è perché la legge ti blocca. La legge, la norma li si blocca si ferma, cioè nel senso che poi è il Procuratore che gestisce il cosiddetto Codice rosso. È lui che, in quel momento vede, valuta se la donna deve essere messa in sicurezza o deve essere lasciata lì, così, nella sua quotidianità.

Allora, premesso, io non conosco nel dettaglio la norma relativa al cosiddetto codice rosso a differenza di te che operi in tale ambito . Ma su che parametri dovrebbe decidere? Cioè, mi spiego meglio: io allora io vengo da te e ti dico guarda c’è una persona che mi picchia. A questo punto cosa succede? Quindi tu accerti il caso, allerti gli organi di polizia giudiziaria si arriva davanti al giudice e lui decide. Ma su parametri oggettivi o in base alla sua discrezionalità?
Allora al giudice arriva la denuncia che viene fatta presso gli organi di polizia giudiziaria, caserma dei carabinieri, commissariato di pubblica sicurezza. Deve essere improntata in una certa maniera, cioè bisogna mostrare che esiste un pericolo imminente e quando arriva questa denuncia al procuratore, è poi a sua discrezione decidere se “bloccare” l’aggressore con un braccialetto elettronico o far continuare a far vivere l’aggredito nella sua quotidianità. Il fatto è che purtroppo poi subentrano i servizi sociali nel senso che al momento in cui ad esempio una donna con un figlio, dei figli, si trova ad essere vittima di violenza e, come spesso succede, l’aggressore è il marito che è l’unico che porta reddito in casa, si corre anche il rischio di vedere i figli allontanati da una madre perché questa non è in grado, a loro avviso, di sostenerli economicamente e socialmente. E questo, te lo garantisco, genera davvero ancora più paura nelle donne che si vedono, ancora di più, allontanate dai propri affetti vicini. Ed allora di fronte a queste “concrete possibilità”, questi ostacoli decidono di non denunciare più.

Noi prima di incontrarci ci siamo sentiti al telefono e ci siamo detti una cosa: ho letto di casi di donne che si sono trovate nella situazione che tu mi dicevi – figlio tolto perché non era in grado di sostenerlo economicamente. Queste donne si lamentavano del fatto che nelle case famiglie per la gestione dei bambini lo Stato spende circa 50 euro al giorno. Se faccio i cosiddetti “conti della nonna”: 50 euro al giorno per 30 giorni vengono fuori 1500 euro. Tu sei donna, sei mamma, anche nonna mi hai detto … sappiamo bene che una madre con anche la metà, anche un terzo farebbe di suo figlio davvero un principe, o sbaglio?
Sì! Io vorrei cercare di far arrivare la mia voce, come quella degli altri operatori dei centri antiviolenza, sul tavolo di chi ci governa. È stato tolto il reddito di cittadinanza in quanto troppe lacune nella gestione dei controlli ma di fronte a questi fatti non avrebbe senso di provvedere “immediatamente” ad un reddito che possa tamponare le necessità impellenti di queste donne


Quindi tu saresti d’accordo a che il governo possa generare una sorta di “paracadute economico” per gestire queste situazioni proprio in virtù di quello che ci siamo detti cioè evitare l’isolamento in cui rischiano di finire poi le donne?
Certo che si sarebbe uno degli elementi che metterebbe in sicurezza le persone vittime di violenza, ti dico, tra le altre cose, che ci sono anche molti uomini che vivono la stessa situazione. Cioè permetterebbe loro di vivere in una situazione di maggiore tranquillità. E lo dico perché da prima linea vivo costantemente le paure di queste persone vittime di violenza che si trovano davvero alla mercè, oltre che fisica e psicologica, a dovere dipendere, per sopravvivere, dai loro aggressori dal punto di vista economico.
Quindi, se non ho capito male, quando parli di “prima linea” mi stai confermando il mio pensiero: vengono prima da te che dai carabinieri a denunciare le aggressioni?
Certo che si in quanto la difficoltà maggiore che incontrano queste vittime di violenza è strettamente collegata al fatto di sentirsi sole e di non avere alcun appoggio di fronte a queste situazioni e noi abbiamo il dovere di renderle coscienti anche dei rischi che si troverebbero di fronte ad una eventuale denuncia che rischia di isolarla ancora di più.

In che senso, scusami?
Per quello che ci siamo detti fin ora. Io denuncio resto da sola con mio figlio, il mio aggressore è l’unico che lavora … mi spieghi dove va questa donna a vivere e con quali soldi? E se ci aggiungiamo che in queste situazioni vengono allontanate dal contesto violento e messe in sicurezza senza, molte volte, neanche la possibilità di poter uscire mentre, troppe volte, assistiamo agli aggressori che se la spassano tranquillamente in giro. Quindi una protezione che diventa una sorta di “arresto domiciliare” che non fa altro che generare ulteriore disequilibrio per la persona vittima di aggressione che diventa così isolata, spesso anche senza la possibilità di telefonare a quei pochi amici o amiche. Faccio io una domanda a te: tu riusciresti a vivere cosi?

Di certo no, te lo posso assicurare. Quindi questa in apparenza “blindatura” diventa un vero e proprio isolamento mentre il “mostro”, l’aggressore, se la spassa in giro?
Certo ho assistito ed assisto a numerosi casi di questo genere dove la vittima è isolata e l’aggressore se la spassa in totale tranquillità e se ci sono bambini questi finiscono per la loro “sicurezza” in una casa famiglia spesso separati dal genitore vittima di aggressione.
Io faccio un salto indietro perché mi frulla una cosa in testa: tu all’inizio mi hai parlato di “pericolo imminente” all’interno della denuncia ma poi è il giudice che deve decidere se il “pericolo è imminente o meno”?
No, vuole tutte le fotografie, vuole tutte gli audio che devi mettere da parte a testimonianza delle aggressioni. Per cui se una donna, per esempio, non ce l’ha queste queste cose, o magari ha cambiato telefono bisogna predisporre un altro iter che ovviamente allunga ancora di più i tempi di intervento.

Allora, se ho ben capito, è sempre la soggettività di un giudice che decide.
Sì!

Quindi se lui ravvisa che non c’è rischio se ne assume pure la responsabilità?
Si, dovrebbe essere così

Ragionando per ipotesi: la donna o l’uomo vittima di aggressione vengono uccise dall’aggressore la responsabilità, teoricamente, andrebbe in capo al giudice?
In teoria si, ma non lo è! Ed è questo che non riesco a capire: questa norma che, nella visione, dovrebbe garantire non ha strumenti concreti ed immediati per aiutare le vittime di violenza.

Allora provo a girare la domanda. Se tu domani avessi la possibilità, conoscendo, perché le vivi, le necessità ed i bisogni delle vittime di violenza, quali correzioni porteresti al cosiddetto “Codice Rosso”?
Attuare immediatamente un programma di protezione alla vittima, ma lasciandola libera nella sua casa, magari con i suoi figli, aiutandola magari economicamente ed il carnefice deve essere allontanato. Ti dico che, ad esempio, perché a me piace parlare sul dato concreto, io ho donne che stiamo assistendo e l’unico modo è mandarle in delle strutture in Calabria allontanadole dal loro contesto sociale, famigliare che è invece da sempre qui ai Castelli Romani e la loro colpa è essere vittime di violenza. Quindi oltre il danno la beffa di essere allontanate dai loro spazi di vita.

Anche perché, correggimi se sbaglio, in questo modo gli eventuali figli e anche le condizioni psicologiche di queste persone subirebbero ulteriori danni davvero poi non più quantificabili.
Correttissimo perché, sempre per esperienza, si assiste davvero ad uno sfilacciamento anche del rapporto, ad esempio, tra la mamma, vittima di aggressione, con dei figli. Questi poi si sentono davvero isolati con è un padre violento, con tutte le ripercussioni che questo può generare loro, ed una madre lontana che spesso fatica pure nel mantenere con loro dei rapporti genitoriali completi.

Questa è la prima parte dell’intervista rilasciataci da Rosy Andreacchio, vicepresidente del Centro Antiviolenza Margherita, sezione Castelli Romani, di Frascati.

Domani pubblicheremo la seconda parte nella quale verranno evidenziati anche i problemi delle violenze effettuate da minori verso i loro famigliari.

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Oriana Fallaci: Il coraggio della verità

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Scusaci Oriana,
non ti abbiamo proprio capito.

Non solo ci avevi messi in guardia ma avevi lasciato che quello che tu chiamavi “alieno che vive in me” ti divorasse perché ritenevi più importante educarci alla riscossa dell’Occidente che salvare la tua vita.

Dopo quasi 20 anni dalla tua scomparsa– te ne andasti via in silenzio quel 15 settembre 2006 – siamo ancora con quell’estremismo islamico mascherato da buonismo che si insinua nel nostro pianeta con la rapidità di un virus al quale non siamo un grado di porre rimedio o, meglio, non vogliamo porre rimedio.

Le tue parole, i tuoi gesti, anche estremi, il chador buttato a terra – cencio da medioevo -, non hanno fatto presa.

Purtroppo un ecumenismo buonista ci copre gli occhi.

Gli Stati Uniti, un tempo custodi di un ordine mondiale democratico, si inginocchiano per l’ennesima volta di fronte alle guerriglie talebane divenendo, ancora una volta, artefici di confusione e non di libertà.

Le donne afgane tornano ad essere al pari di animali da riproduzione e nessuna voce si scaglia più contro questa ignominia.

Il sangue di giovani soldati occidentali sparso sulla terra non grida solo giustizia ma verità e rispetto per la loro missione di democrazia.

Il sangue di troppe giovani vittime colpevoli solo di vivere “nella parte sbagliata del mondo” muoiono sotto “bombe intelligenti” che dimostrano, sempre di più, la “stupidità del genere umano”.

Senza dimenticare la continua corsa ad un riarmo che in apparenza vuole imporre la pace ma poi diventa solo “fabbrica di morti”.

Scusami se mi rivolgo a te solo oggi.

Ma sento attorno a me il silenzio della rassegnazione di un mondo prono alla violenza.
Sento l’ipocrisia di chi vorrebbe un mondo organizzato dall’alto con scelte di chi, nel mondo, ormai non vive più perché abituato alle mollezze di un cultura che vuole essere solo di morte e non più di vita.

Oggi saresti stata l’emblema vivente di una riscossa necessaria ad un mondo senza più attributi né coraggio.

Saresti quel punto di riferimento di chi, come me e tanti altri, crede ancora nella possibilità che questo martoriato mondo possa tornare ad essere luogo di pace, di rispetto reciproco, luogo in cui le “libertà individuali” possano divenire valore aggiunto.

Ma, purtroppo, non ci sei più e sentiamo terribilmente la tua mancanza.
Ci manchi, mi manchi!

15 settembre 2006 – 15 settembre 2024

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Editoriali

Omosessualità, il caso del Vescovo Reina e le ombre sulla formazione nei seminari

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L’inchiesta sul Vescovo Reina getta luce su presunte problematiche all’interno della Chiesa, alimentando il dibattito sulla formazione dei sacerdoti e il trattamento dell’omosessualità nei seminari cattolici

L’omosessualità, la maturità umana e i requisiti per il sacerdozio sono temi centrali di un dibattito che negli ultimi anni ha assunto una dimensione sempre più rilevante all’interno della Chiesa Cattolica.

Questo approfondimento de L’Osservatore d’Italia intende analizzare il contesto che coinvolge il Vescovo Baldo Reina, ex rettore del seminario di Agrigento, accusato di aver adottato pratiche discutibili nella formazione dei seminaristi, in particolare riguardo ai candidati con tendenze omosessuali.

La vicenda è stata approfondita in una recente inchiesta giornalistica, che solleva interrogativi sulle dinamiche di discernimento, il rispetto dei “fori” interno ed esterno e la condotta morale all’interno dei seminari cattolici.

La formazione nei seminari: un quadro confuso

Un primo elemento critico è la mancanza di un progetto formativo univoco che regoli la formazione dei seminaristi in modo uniforme in tutta la Chiesa cattolica.
I seminari, infatti, seguono orientamenti e approcci diversi, il che complica il processo di valutazione dei candidati al sacerdozio. In questo contesto, emergono problematiche legate alla gestione delle tendenze omosessuali e al modo in cui queste vengono affrontate durante la formazione.

La Chiesa Cattolica ha stabilito una distinzione tra due concetti fondamentali nella gestione della formazione: il foro interno e il foro esterno. Il primo riguarda l’intimità spirituale e personale del candidato, tutelato dal sigillo sacramentale e gestito da padri spirituali e confessori. Il secondo concerne la dimensione pubblica e formativa del seminarista, supervisionata da rettori e insegnanti. Tuttavia, il confine tra questi due “fori” non sempre viene rispettato, come dimostrato nel caso del seminario di Agrigento.

Tanto si potrebbe scrivere sulle origini e sviluppo della coscienza ecclesiale di questi due “fori” ma prendiamo un intervento di Papa Francesco che vale a spiegare bene in cosa consista: «E vorrei aggiungere – fuori testo – una parola sul termine “foro interno”. Questa non è un’espressione a vanvera: è detta sul serio! Foro interno è foro interno e non può uscire all’esterno. E questo lo dico perché mi sono accorto che in alcuni gruppi nella Chiesa, gli incaricati, i superiori – diciamo così – mescolano le due cose e prendono dal foro interno per le decisioni in quello all’esterno, e viceversa. Per favore, questo è peccato! È un peccato contro la dignità della persona che si fida del sacerdote, manifesta la propria realtà per chiedere il perdono, e poi la si usa per sistemare le cose di un gruppo o di un movimento, forse – non so, invento –, forse persino di una nuova congregazione, non so. Ma foro interno è foro interno. È una cosa sacra. Questo volevo dirlo, perché sono preoccupato di questo». (Papa Francesco – Presentazione della nota sull’importanza del Foro Interno e l’inviolabilità del sigillo sacramentale, 29 giugno 2019.)

La nota sull’intervento, ovviamente, ci aiuta a capire dalle stesse parole di Papa Francesco l’importanza e la serietà con cui vengono visti i due “fori”, specialmente quello interno.

Il caso di Agrigento: “Libertà” o pressioni?

Nel seminario di Agrigento, sotto la direzione di Baldo Reina, un giovane seminarista con tendenze omosessuali è stato inviato a seguire un percorso noto come “Verdad y Libertad”, un programma di guarigione dall’omosessualità, ampiamente criticato e condannato sia dalla comunità scientifica che dalla Chiesa stessa.

La decisione di sottoporre il giovane a questo programma, che ha provocato disorientamento e danni psicologici, è stata presa nel foro esterno, sotto la supervisione di Reina quando era rettore del seminario di Agrigento.

Questo solleva questioni etiche e pastorali, poiché la proposta di partecipare a tali programmi dovrebbe avvenire con il consenso del seminarista, che però si è trovato di fronte a pressioni implicite per conformarsi.

L’elemento più inquietante è l’assenza di separazione tra foro interno ed esterno: il seminarista, che si è confidato spiritualmente, è stato poi giudicato e obbligato a seguire un percorso di “cura” che violava i principi di riservatezza e rispetto del foro interno. Questo modus operandi è stato fortemente criticato, poiché ha sovrapposto il giudizio spirituale a quello formativo, con effetti devastanti sulla persona coinvolta.

Le critiche a Reina: Un giudice unico?

Reina ha agito come giudice unico nel caso del seminarista, dimostrando una gestione della formazione caratterizzata da un’autorità indiscutibile e da un’interpretazione rigida delle norme. L’inchiesta pubblicata su “Domani” evidenzia come il percorso imposto al giovane seminarista non solo mancasse di fondamento medico e psicologico, ma fosse anche moralmente discutibile. Le pratiche proposte dal programma “Verdad y Libertad” sono state condannate in vari paesi, compresa la Spagna, e ritenute contrarie agli insegnamenti della Chiesa stessa (QUI L’ARTICOLO DEL QUOTIDIANO DOMANI).

Un clima di tensione nella Diocesi di Roma

La nomina di Baldo Reina come vescovo ausiliare di Roma ha sollevato preoccupazioni anche per la gestione della Diocesi di Roma, in particolare per quanto riguarda la gestione del patrimonio immobiliare e le dinamiche interne al Vicariato. La presenza di figure discusse, come Don Renato Tarantelli Baccari, ex avvocato diventato sacerdote, e Mons. Michele Di Tolve, ex rettore del seminario lombardo, ha creato un clima di sfiducia e tensione tra i sacerdoti romani. La mancanza di trasparenza e il rischio di favoritismi hanno alimentato il malcontento.

Il caso del Vescovo Reina solleva questioni profonde su come la Chiesa Cattolica gestisce la formazione dei futuri sacerdoti, soprattutto quando si tratta di tematiche delicate come l’omosessualità. L’assenza di un progetto formativo chiaro e la mancata distinzione tra foro interno ed esterno espongono i candidati a pressioni psicologiche e morali che possono compromettere il loro percorso. La Chiesa dovrà riflettere su questi episodi per garantire un ambiente di formazione più rispettoso e trasparente, evitando che si ripetano errori simili.

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