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Avevo quattordici anni. Ero troppo grande per non capire che qualcosa di terribile era successo, qualcosa che aveva indotto i miei professori a sospendere le lezioni. Facevo la terza media.
In terza media certi discorsi ancora non si fanno. Normalmente. Capii che ciò che era successo era più grave di altri attacchi che ero abituato a sentire in televisione. Più grave della morte dei fratelli Mattei, cinque anni prima, del quale mi ricordo il botto, avvenuto a meno di duecento metri da casa mia, che mi svegliò la notte. Ma non avevo una piena consapevolezza di quanto accaduto. Forse anche molti adulti non compresero esattamente ciò che potesse significare quella strage, figuriamoci cosa può comprendere un ragazzo di quattordici anni. Un’età nella quale ancora non segui collettivi, assemblee, impegno politico, che giungerà l’anno successivo, con la frequentazione della scuola superiore. A quell’età si pensava solo alla pallavolo, ai primi dischi acquistati, a crescere. Non si è certo maturi per capire a fondo l’attacco che è stato fatto al cuore dello stato.
Anche se, rispetto a molti ragazzi della mia età, mi ritenessi più informato della media, sapevo che Aldo Moro era stato Presidente del Consiglio e che fosse un importate politico democristiano, non potevo certo comprendere il valore simbolico di tale bersaglio.
Eppure qualcosa dentro, iniziava a maturare. Nella mia coscienza da adolescente, l’accostamento con altri episodi precedenti, dal giudice Occorsio, a Giorgiana Masi, Walter Rossi, o il Presidente della Confindustria tedesca, del quale francamente il nome non ho mai ricordato, e non interessa forse ricordare, ha fatto comprendere come la guerra dei terroristi riguardasse tutti noi.
Ma la consapevolezza di quanto, noi persone “normali” fossimo antagonisti ai distributori di morte l’ebbi solo tre anni dopo, nell’agosto dell’ottantuno, mentre ero in vacanza con un gruppo di amici, e sentimmo per radio la notizia dell’uccisione di Roberto Peci, per rappresaglia contro il pentimento del fratello Patrizio.
Un’esecuzione giunta 55 giorni dopo il rapimento, con 11 colpi d’arma da fuoco, proprio come nel caso dello statista. A dimostrazione che, nella folle logica dei brigatisti, lo Stato si identificava tanto in un leader politico, quanto in un operaio che aveva l’unica colpa di essere fratello di un “infame”, così come si è definito lui stesso in un libro autobiografico
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