Primo piano
Quello strano caso del suicidio del Brigadiere dei carabinieri Salvatore Incorvaia: per il criminologo Lavorino si tratta di omicidio
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7 anni faon
Sono stati il padre ottantasettenne Giuseppe Incorvaia, Cavaliere dell’Arma in pensione, e i suoi due figli Sabina e Giammarco, fratelli del brigadiere Salvatore Incorvaia, vicecomandante della Caserma dei Carabinieri di Vimercate a volere che le indagini sulla strana dinamica del suicidio del loro fratello Salvatore non finissero in una archiviazione.
I fatti
La mattina del 17 giugno 1994, a Oreno, una frazione di Vimercate, attualmente provincia di Monza e Brianza, in una strada secondaria, all’interno della sua Audi 80, venne trovato il corpo del brigadiere Salvatore Incorvaia, 40 anni, seduto al posto di guida, e con un foro passante che dalla tempia destra attraversava il cranio, per fuoruscire dalla tempia sinistra. La pistola d’ordinanza era in grembo al militare, con il cane ancora alzato, come mostrano le foto. L’incongruenza che fu subito evidente, fu che il finestrino destro lato guida era frantumato, ma non dalla pallottola omicida, dato che era stato frantumato nella direzione inversa e i finestrini posteriori erano semiaperti. Con una ricostruzione tridimensionale è stato dimostrato che la traiettoria di uscita del proiettile dal capo del brigadiere non corrisponde con il foro nel montante dell’auto, venti centimetri più in basso. Altri particolari confermano l’ipotesi dell’omicidio: otto piccole macchie di sangue sulla manica della giacca, tutte rivolte verso il basso, il che sarebbe stato impossibile se avesse alzato il braccio per spararsi; l’assenza di sangue sulla spalla sinistra e sul vetro sinistro dell’auto, l’assenza di tracce ematiche all’interno della canna della pistola, che dimostrerebbe che Incorvaia si è sparato senza appoggiare la canna alla tempia, fatto anomalo, ad una distanza di non meno di cinque centimetri. “Arrivo sul posto” riferisce il padre nell’intervista a La Repubblica “e sento il colonnello Ludovico Tiscari, allora comandante del gruppo di Monza, parlare con un giornalista: ‘Un suicidio. Punto e basta’” .
Le indagini
Alla Procura Generale di Milano è è stata avanzata istanza per la riapertura delle indagini, e per dimostrare che si tratta di omicidio. Ma ora, con un folto gruppo di avvocati il criminologo prof. Lavorino, può riscrivere la storia di questa strana morte, partendo proprio da quelle otto piccole macchie di sangue sulla manica destra della giacca del militare. “Analizzando la loro morfologia, grazie a nuove tecniche di studio, si nota che sono tutte macchiette a spruzzo rivolte verso il basso: non avrebbero quella forma e disposizione se avesse tenuto sollevato il braccio per spararsi.” afferma il prof. Lavorino. Delle altre anomalie abbiamo già riferito. La conclusione logica, che si evince dall’analisi della scena del crimine, è che Incorvaia è stato ucciso.
Il procedimento giudiziario
La famiglia del brigadiere Salvatore Incorvaia, a causa di questa morte per alcuni versi inspiegabile con il suicidio, data l’assenza di qualsiasi prova o testimonianza o motivo fondato e manifesto della volontà del brigadiere di porre fine ai suoi giorni, ha presentato alla Procura Generale di Milano un’istanza articolata e precisa, allegando alla istanza una corposa relazione tecnica del criminologo Carmelo Lavorino, che analizza i vari scenari – omicidio, suicidio, incidente – tramite 18 criteri scientifici di valutazione, e che conclude al 100% trattarsi di omicidio. La famiglia Incorvaia, stante l’inerzia della Procura competente, chiede alla P.G. di Milano giustizia e verità. Alcuni punti di forza della relazione del prof. Lavorino, come già accennato, sono: l’assenza dei microspruzzi di sangue sul dorso della mano destra; l’assenza del sangue sulla canna della pistola; la presenza sulla mano destra di una sola particella ternaria; la morfologia e la direzione delle macchie di sangue sul braccio della manica destra della giacca, che indicano senza ombra di dubbio la totale incompatibilità con l’ipotesi del suicidio. I familiari del brigadiere lamentano, inoltre, che mai sono state fornite risposte e/o confutazioni ai succitati aspetti.
I sospetti
Inizialmente sullo sfondo di questa vicenda si affacciano le figure della cosiddetta ‘Banda dei pentiti, un gruppo di sette persone, pregiudicati veneti e lombardi, che, in regime di protezione, compivano rapine, guidati dal romano Alceo Bartalucci; autori dell’uccisione dello stesso agente di polizia, Massimiliano Turazza, 29 anni, ucciso il 19 ottobre del ’94, che avrebbe dovuto garantirne la protezione. Turazza, in un filmato di telecamera di sorveglianza di una banca, riconobbe il Bartalucci. Per questo fu ucciso proprio dal Bartalucci, o da uno dei fratelli Romano, che facevano parte della stessa banda. Si scopre che la banda era ‘coperta’ da un maresciallo dei Carabinieri del ROS, Angelo Paron, che forniva armi e libertà d’azione in cambio di informazioni. Paron fu processato insieme al colonnello Tiscari, all’epoca comandante del Gruppo Carabinieri di Monza, lo stesso che si affrettò a dichiarare, davanti al cadavere di Incorvaia, che si trattava di ‘suicido, punto e basta’. Il brigadiere Salvatore Incorvaia aveva saputo qualcosa, e andò dal suo comandante per raccontare tutto e chiedere il trasferimento a Genova. In quel momento firmò la sua condanna a morte. A quel tempo al vertice del ROS c’era il colonnello Ganzer, ufficiale d’accademia dalla carriera brillantissima e fulminea. Dal Comando Provinciale di Verona, Ganzer si proiettò ai vertici dll’Arma, spinto dai suoi successi nel contrasto allo spaccio di droga. In quel periodo Verona fu soprannominata ‘La Bangkok d’Italia’. I sequestri di qualsiasi cosa che si potesse vendere sul mercato dello spaccio schizzarono alle stelle: chili e chili di eroinna, marijuana, hashish, cocaina. Il comandante venne definito ‘cacciatore dei narcos’, anche se era evidente che i suoi metodi erano un po’ troppo spregiudicati. In più, a due giorni dall’omicidio dei genitori, arresta Pietro Maso. Nel 1993 arriva a Roma, al comando della Legione Carabinieri di Ponte Salario, dove esporta il ‘metodo Ganzer’. Nel 1994 viene indagato dalla Procura di Verona, nella persona di Angela Barbaglio, per ‘false dichiarazioni rilasciate al pm.’ Il pm indagava sull’omicidio dell’agente Massimiliano Turazza, ucciso dal pentito della mala del Brenta Alceo Bartalucci. Al Bartalucci sia il maresciallo Paron che il colonnello Ganzer ofrirrono un falso alibi, che esisteva una telefonata che lo scagionava, ma che nessuno sentì mai, venne indagato per faslo. Allora il colonnello ‘rettificò’.
Negli atti del processo milanese si legge:
“Il ROS instaura contatti diretti e indiretti con rappresentanti di organizzazioni dedite al traffico di stupefacenti… Ordina quantitativi di stupefacenti da inviare in Italia…”. Accusato di aver costituito “un’associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso e ad altri reati, al fine di fare una carriera rapida”, il 12 luglio del 2010 il generale Ganzer è condannato, in primo grado, a 14 anni di reclusione, insieme ad altri 13 Carabinieri: in totale pene varie fino a 18 anni di reclusione. Le condanne sono state erogate in ordine ad espisodi commessi nel corso di importanti operazioni antidroga compiute ‘sotto copertura’ dal ROS tra il 1991 e il 1995. In secondo grado, nel 2013, la prima sezione della Corte d’Appello di Milano ha confermato la condanna al generale, ormai in pensione, riducendo la pena a 4 anni e 11 mesi di reclusione. La riduzione è dovuta alla concessione delle attenuanti generiche e alla cancellazione delle aggravanti. Nel gennaio dl 2016 la terza sezione penale della Cassazione ha riqualificato i fatti imputati come ‘di lieve entità’, pertanto è scattata la prescrizione.
Rimane da fare una considerazione, a proposito della morte del Brigadiere Incorvaia: una banda di trafficanti non avrebbe avuto alcun interesse ad inscenare un falso suicidio. A questo punto le parole di Giuseppe Incorvaia pesano come macigni, quando afferma: “E’ stato ucciso da chi aveva le caratteristiche di poter intervenire all’interno delle indagini per depistare e fare scegliere la pista del suicidio.”
Roberto Ragone