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Editoriali

25 aprile tra vecchi e nuovi partigiani

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Passato il 25 di aprile, con le varie manifestazioni mortificate dal Coronavirus, abbiamo assistito ad un presidente Mattarella mascherato per ragioni di opportunità: in realtà il nostro ha salito quei gradini dopo aver tolto la mascherina e averla messa nella tasca interna della giacca. Volendo essere pedissequi, la distanza fra lui e i corazzieri, nel momento in cui s’è avvicinato alla corona d’alloro e l’ha toccata con entrambe le mani, non era regolamentare. Ma in un giorno come quello, in cui è stato concesso alla sinistra partigiana di riunirsi, e negato di celebrar messa, non avrebbe potuto essere diverso il trattamento per un presidente della Repubblica. Il quale, dopo aver compiuto l’atto rituale, ha tranquillamente inforcato il DPI, offrendosi alle foto che documenteranno a futura memoria la data della Liberazione 2020. Si ricorderà, così, che il presidente Mattarella in quel giorno aveva la mascherina. Insomma, tripudio di tricolori da finestre e balconi, e diffusione di ‘Bella ciao’ per le strade, con la nuova modalità che esclude la possibilità di grandi palchi in Piazza del popolo, o a S. Giovanni.

Minimo comune denominatore, ieri mattina, 25 aprile 2020, la bandiera italiana, in un’esplosione di patriottismo molto vicina a quel sovranismo che tanto fastidio da’ agli europeisti come la Bonino – ‘più Europa’ – e al suo mentore Soros, (vox populi, vox dei). Stridente il contrasto fra i ‘rossi’ del ’44 e le dichiarazioni della leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, che difende il diritto dell’Italia al recupero della propria sovranità nazionale. Con lei, il Centrodestra di Salvini, mentre Berlusconi ‘si smarca’, come riferisce oggi un quotidiano, riprendendo la frase di un giornalista parlamentare. Il favore del Berlusca verso il MES è quanto meno sospetto (in un certo senso), rispetto al rifiuto dei suoi compagni (?) di cordata. Insomma, sic stantibus rebus, i nuovi partigiani appartengono a quella destra che la sinistra ‘storica’, greve di azioni contro gli invasori tedeschi, di agguati, di staffette, di torture in via Tasso, di azioni eroiche (tranne quella di via Rasella, per cui 335 nostri connazionali furono trucidati barbaramente senza che nessuno dei responsabili – neanche uno – si presentasse a dichiararsi colpevole, risparmiando la vita di tanti innocenti), definisce ‘fascista’, comodamente bollando di infamia persone che democraticamente siedono in un parlamento che è l’espressione di quella Costituzione che sancì la nascita dell’Italia repubblicana nel 1948. Una sinistra, o presunta tale, ormai, anche di governo, che dimostra la sua propensione ad un europeismo che agli occhi della signora Maria – o del signor Rossi – non ha fatto poi granchè bene alla nostra nazione. Nel giro di ventiquattr’ore, con l’adozione dell’euro, ci hanno dimezzato gli stipendi e raddoppiato i prezzi. Alla faccia del marco tedesco che è rimasto al suo valore iniziale di ottocento lire, più o meno. Questo fa pensare – e non solo ai complottisti, che qualche volta hanno anche ragione – che la manovra europea, nonostante lo sbandieramento dei ‘padri’ come Altiero Spinelli e Robert Schumann, avesse ben altra impronta, come da alcuni avanzata, l’ipotesi Bilderberg. Il controllo di grandi capitali sulla politica e la vita degli Stati più scomodi, come l’Italia, non ottenibile altrimenti. Oppure sì, ricordando l’attentato a Mattei e l’assassinio di Moro. Prima dell’euro, con l’Italia fuori dallo SME – dove l’aveva spinta la manovra speculativa di Soros – la nostra esportazione andava a gonfie vele, e la Germania piangeva. Le parti si sono rapidamente invertite dopo l’euro. In più, dobbiamo pagare le spese dei nostri due palazzi del potere, Camera e Senato, che, secondo un quotidiano, nel 2013 ci costavano 1 miliardo e 500 milioni di euro. Somma fluttuante, perché quando si va a fare i conti di certe istituzioni, tante ‘piccole’ voci restano nella penna del relatore. L’Europa ha tre sedi, una a Bruxelles, una a Strasburgo, e poi il Segretariato Generale, che tre uffici, a Bruxelles, Lussemburgo e Strasburgo. Il Parlamento europeo ha 751 deputati, il costo annuale, nel 2019, è stato di due miliardi di euro, calcolato, come sempre, al netto di bonus, diarie e rimborsi spese. Una volta al mese alla stazione di Strasburgo, in Francia, arriva un treno speciale. I posti sono riservati, anche se molti dei passeggeri farebbero volentieri a meno di salire a bordo. Il treno parte da Bruxelles, in Belgio, dove ha sede il Parlamento Europeo ma solo per poco più di tre settimane al mese. Nei giorni che rimangono, un esercito di parlamentari, assistenti, interpreti e funzionari sale sul treno speciale per spostarsi circa cinquecento chilometri più a sud, a Strasburgo, per rimanerci circa 72 ore. Le esigenze di chi lavora al Parlamento Europeo sono le stesse, e per questo Bruxelles e Strasburgo hanno due sedi quasi identiche: ogni europarlamentare ha a disposizione due aule, due uffici, due sale per le riunioni delle commissioni parlamentari, e così via. Qualcuno lo ha definito «un circo itinerante». Funziona così da vent’anni, e a meno di sorprese continuerà a funzionare così. Il tutto, salvo imprevisti, per il ‘modico’ costo di due miliardi di euro l’anno, lira più, lira meno. Ci chiediamo, sempre guardando con gli occhi della signora Maria, quella che va a fare la spesa al mercato e che conserva i volantini del supermarket per studiare le varie offerte della settimana; quella che piuttosto che andare con il bus, va a piedi, con le borse della spesa che le pesano sulle braccia; quella che al 20 del mese ha già finito la pensione, sua e del marito, perché il totale non arriva a mille euro al mese – dopo quarant’anni di lavoro – ma si ferma molto prima. Ci chiediamo quale vantaggio possa trovare questa signora, simbolo di tutte le ‘signore Maria’ d’Italia, nell’appartenere ad un carrozzone che tutti gli anni chiede alla nostra nazione fior di miliardi, salvo poi a doverli richiedere – noi – in prestito ad interesse, quando ne abbiamo bisogno. Si chiede anche, la signora Maria, quando le capita di vedere il Tiggì, perché Angela Merkel sia quella che deve decidere delle sorti della nostra Italia in seno all’Unione Europea, coadiuvata da persone che hanno cognomi strani: Von der Leyen, Lagarde, Macron: certamente non italiani. Si chiede anche, la signora Maria, quando capita che guardi il Tiggì, perché il nostro presidente del Consiglio debba continuamente andare a chiedere il permesso a queste persone quando deve fare qualcosa per l’Italia, e perché gli vogliano appioppare un debito come alla Grecia, che s’è dovuta vendere i gioielli di famiglia. Non capisce, Maria, perché dopo settant’anni abbiamo ancora i Tedeschi che comandano in casa nostra, insieme ai Francesi. Non le è chiaro perché oggi siano ‘fascisti’ cattivi quelli che hanno alto il senso del valore della Patria, e ‘buoni’ quelli che invece sono contenti che l’Italia sia in Europa. Ma ieri, 25 aprile, è avvenuta una cosa strana: tutti si sono riuniti sotto il tricolore. Sia quelli che cantavano ‘Bella ciao’, che quelli che intonavano l’inno di Mameli. Nuovi e vecchi partigiani, uniti insieme in un sovranismo di fatto al quale le nostre istituzioni non hanno potuto che applaudire. Liberazione? Oggi, come allora, speriamo, contro chi vuol prendere il potere in casa nostra. Chiunque sia. Anche i Tedeschi. Ma non li avevamo già cacciati settant’anni fa?

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Editoriali

Corsi di recupero per i debiti formativi: dettagli ed efficacia

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Ogni scrutinio di classe è diverso e proprio per questo possono essere decretate promozioni, bocciature o sospensioni di giudizio, nonché i cosiddetti debiti formativi.

In questo articolo non si vuole tanto commentare la decisione di dare 1 o 2 o 3 debiti formativi in una o più discipline, quanto l’efficienza dei corsi formativi che dovrebbero aiutare lo studente, in sospensione di giudizio, a ripassare la materia/e per poi dare l’esame “riparativo” da fine agosto a inizio settembre.

La regola ministeriale sancisce che chi “salda” il debito/i passa all’anno scolastico successivo e chi non lo supera dovrà ripetere l’anno.

Quello che spesso ci si domanda, tra docenti, è quanto l’alunno riesca a comprendere dal corso formativo e quanto sia utile lo studio individuale.

Sicuramente, il corso formativo aiuta l’alunno a ristudiare i punti di fragilità della disciplina in cui ha il debito, ma un buono studio individuale può rendere maggiormente efficace il recupero.

In questo caso, sarebbe necessario avere un’insegnante esterno che possa aiutare lo studente a focalizzarsi sui punti chiave svolti a lezione.

Essenzialmente, per questi motivi sarebbe idoneo:

  • 1. Focalizzare per memorizzare, ma anche per comprendere;
  • 2. Produrre uno schema riassuntivo sugli argomenti che appaiono più fragili da apprendere;
  • 3. Leggere gli schemi e i riassunti ad alta voce;
  • 4. Non darsi un tempo nello studio poiché ogni persona ha i suoi di tempi;
  • 5. Ripetere i concetti chiave più e più volte;
  • 6. Passare ad argomenti successivi;
  • 7. Produrre testi o comprensioni scritte per esercitarsi;
  • 8. Nella fase finale ripassare tutto a scaglioni.

Pertanto, costruirsi uno schema mentale è molto utile sia per l’alunno che per l’insegnante che, caso mai segue, individualmente il ragazzo/a.

Ecco, secondo questa progettualità di recupero, lo studente con debito/i potrebbe arrivare a risultati efficaci e fare “bella figura” davanti alla commissione di recupero. Tuttavia, la proposta vincente è si ai corsi formativi, ma anche un grande si allo studio individuale oppure accompagnato da un docente in rapporto 1/1.

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La linguistica italiana: qual’è l’elemento che si oppone al suo cospetto?

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La lingua italiana nel corso dei secoli ci ha lasciato poemi, trattati, racconti e storie che al giorno d’oggi necessitano di essere interpretati da esperti ( o non ) per poterli conoscere nella loro anima. Pensiamo alla Divina Commedia di Dante Alighieri nella versione volgare dell’italiano … ecco in questo caso per interpretarla dobbiamo “tradurla nell’italiano che si parla oggi”.

Gli studiosi, i docenti possono tradurla, ma chi non è erudito o non possiede le strumentazioni adatte (vocabolari, la conoscenza della storia della lingua italiana etc …) fa sicuramente più fatica a comprenderne il significato.
Tutto quello che la lingua italiana ci ha lasciato necessita di essere analizzato poiché come primo requisito per una giusta comprensione del poema è sapere quando è stato scritto? dove è stato scritto (in quale paese)? che influenze ha subito da parte di altre lingue? quale storia c’è dietro a quel racconto?

Parlare di interpretazione linguistica è banale, si necessità di una vera e propria traduzione, ad esempio dall’italiano volgare del 1200 a quello del 1800.
Ogni epoca ha delle caratteristiche linguistiche in termini diacronici che nessuno può modificare.

Come reca il titolo dell’articolo esiste un elemento che si oppone alla pura lingua italiana (così come la conosciamo oggi): il dialetto.

In molti paesi della nostra penisola il dialetto è conservato e tutt’ora oggi si mantiene vivo. Questo accade sia al nord, al centro che al sud Italia.

L’utilizzo del dialetto, considerato una lingua a tutti gli effetti, è molto in voga in Italia poiché molte persone vogliono mantenere le proprie origini e, non solo, anche la propria unicità/identità. Per tali motivi, assolutamente non banali, la lingua italiana si confronta anche con i vari dialetti.

La dialettofonia rappresenta il suono delle parole di un determinato registro linguistico tipico di una parte della nostra Italia. A volte il solo aspetto fonetico delle parole dialettali ci permette di riconoscere, ad esempio, da quale regione arriva quella tal persona.
Il dialetto “ricalca”, in senso figurato, uno stemma che ciascuno di noi porta nel suo DNA e che non può cancellare. Tuttavia, se una persona non parla il suo dialetto non vuol dire che non gli piaccia o che non sa esprimersi, ma semplicemente possono esserci delle abitudini pregresse che non gli consentono di utilizzare il dialetto.

Solitamente questo è il caso dei giovani d’oggi che preferiscono gli slang ai codici linguistici del proprio dialetto. Una caratteristica sicuramente positiva è mantenere vive le forme dialettali a favore di un loro utilizzo altrettanto diffuso.

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Un anno senza Silvio Berlusconi

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Era il maggio del 2016, mancavano pochi giorni alla sfida tra Beppe Sala e Stefano Parisi candidati sindaco di Milano.
Io ero un “semplice” candidato nel municipio 8 ove ero residente.
Una serata elettorale come tante io, ovviamente, giacca e cravatta come “protocollo detta”.
Si avvicina un amico e mi fa: vuoi venire a salutare il presidente?
Io tentenno – non lo nascondo, mi vergognavo un po’ – lo seguo entro in una stanza.
Presenti lui, il presidente, Maria Stella Gelmini, il mio amico ed un altro paio di persone.
Presidente lui è Massimiliano Baglioni è uno dei candidati del nostro schieramento, dice il mio amico.
Il presidente mi stringe la mano mi saluta e con un sorriso smagliante mi chiede:
Cosa pensa di me?
Ed io, mai avuti peli sulla lingua, rispondo:
Presidente non mi è particolarmente simpatico, lo ammetto, ma apprezzo in Lei quella Follia che ci unisce in Erasmo da Rotterdam.
Sorride si gira verso la Gelmini e dice:
Mary segna il numero di questo ragazzo, mi piace perché dice ciò che pensa.
Si toglie lo stemma di Forza Italia che aveva sulla giacca e lo appende sulla mia.
Non lo nascondo: sono diventato rosso.

Oggi, ad un anno dalla morte di Silvio Berlusconi riapro il cassetto della mia memoria per ricordare questo italiano che ha fatto della Follia un impero economico, una fede calcistica, una galassia di telecomunicazioni.
Conservo con cura quella spilla simbolo di  un sogno, simbolo di libertà.
Grazie ancora, presidente, ma si ricordi: non mi è, ancora oggi, simpatico.

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